Paolo Acanfora

La costituzione antifascista

Nei giorni gravitanti attorno alla data del 25 aprile molto si è discusso – come era largamente previsto – dell’uso della parola antifascismo nelle celebrazioni istituzionali. Le personalità rappresentative del governo e dello Stato italiano sono intervenute in varie parti d’Italia a rendere omaggio alla resistenza. Ciascuno a proprio modo, talvolta con qualche imbarazzo e diverse elusioni. Imbarazzi ed elusioni figlie, chiaramente, di un rapporto complicato con quegli eventi. Se ne è parlato molto e si continuerà a farlo.
Dal punto di vista storico mi interessa però sottolineare un aspetto tra i molti emersi. È evidente l’intento delle forze di maggioranza di disancorare la scelta democratica postbellica dall’antifascismo, mettendo in evidenza un dato storicamente ovvio, cioè che l’antifascismo non fosse tutto democratico. Anzi, una parte consistente di esso aveva come punto di riferimento ideologico e cultural-politico il modello della rivoluzione bolscevica, e quindi concretamente un sistema a partito unico, illiberale, costruito sulla “dittatura del proletariato”. Per molti (anche tra i cattolici o i monarchici) la transizione verso la democrazia liberale fu tutt’altro che scontata. Tuttavia, i partiti che guardavano all’Unione sovietica (i comunisti ma anche larga parte del mondo socialista di allora) fecero una scelta chiara, condizionata anche dal quadro internazionale che si stava delineando: essere attori politici dentro il sistema parlamentare, rappresentativo, democratico occidentale. Con molte ambiguità, tenendo assieme prospettive diverse, ma contribuendo – e questo è il punto decisivo – a costruire le fondamenta del sistema repubblicano. È questo un dato di realtà incontrovertibile: i comunisti e i socialisti – che ne erano allora stretti alleati nella logica del fronte popolare – hanno contribuito in maniera decisiva a scrivere la costituzione, portando in dote la rappresentanza del 40% dell’Assemblea costituente. Nella commissione dei 75 e nelle tre sottocommissioni hanno discusso, dibattuto, portato il loro punto di vista e mediato per trovare soluzioni di compromesso. Si può dunque discutere della complessiva adesione di questa parte politica ai valori, ai principi, alle regole della democrazia liberale ma non si può discutere che essa – per ragioni di realismo politico, per i vincoli del quadro internazionale in costruzione o per qualsiasi altra ragione – quei valori, quei principi e quelle regole ha contribuito in modo decisivo a inserire nel testo costituzionale.
Il presidente Sergio Mattarella ha giustamente richiamato le parole di un grande intellettuale e giurista, Piero Calamandrei, il quale nel 1955 aveva sottolineato il nesso indissolubile tra resistenza antifascista e costituzione. È un legame a tutto tondo, inscritto in ogni articolo del testo costituzionale. È un legame esplicito quando si pensi alla dodicesima disposizione transitoria e finale che vieta la ricostituzione «sotto qualsiasi forma» del partito nazionale fascista. Ma la questione del rapporto tra resistenza e costituzione del nuovo Stato repubblicano non rimane né limitata alle disposizioni transitorie e finali, né solamente evocata da singole, seppur nobili, visioni individuali. Questo legame è stato discusso, esplicitato, sviscerato nei lavori dell’assemblea costituente. E allora non esiste modo migliore che lasciar parlare proprio i protagonisti di quell’assemblea e ascoltare le loro parole. Di fronte al monarchico Roberto Lucifero che aveva chiesto di dare alla costituzione un’ispirazione afascista, un suo collega onorevole che aveva con lui condiviso i lavori della I sottocommissione (finalizzata ad elaborare i diritti e i doveri dei cittadini) aveva risposto:

«Mi sembra che questo elementare substrato ideologico nel quale tutti quanti noi uomini della democrazia possiamo convenire si ricolleghi appunto alla nostra comune opposizione di fronte a quella che fu la lunga oppressione fascista dei valori della personalità umana e della solidarietà sociale. Non possiamo in questo senso fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro paese un movimento storico di importanza grandissima il quale nella sua negatività ha travolto per anni la coscienza e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale. Guai a noi, se per una malintesa preoccupazione di serbare appunto pura la nostra Costituzione da una infiltrazione di motivi partigiani, dimenticassimo questa sostanza comune che ci unisce e la necessità di un raccordo alla situazione storica nella quale questa Costituzione italiana si pone. La Costituzione nasce in un momento di agitazioni e di emozioni. Quando vi sono scontri di interessi e di intuizioni, nei momenti duri e tragici, nascono le Costituzioni, e portano di questa lotta dalla quale emergono il segno caratteristico. Non possiamo, ripeto, se non vogliamo fare della Costituzione uno strumento inefficiente, prescindere da questa comune, costante rivendicazione di libertà e di giustizia. Sono queste le cose che devono essere a base della nostra Costituzione e che io trovo in qualche modo espresse negli articoli che sto per esaminare. Questa, ripeto, non è ideologia di parte, è una felice convergenza di posizioni».

Sono le parole pronunciate da Aldo Moro il 13 marzo 1947 in assemblea plenaria. Su di esse vi è stata la convergenza della larghissima maggioranza dell’Assemblea costituente. Ad esse bisogna rifarsi per capire l’ispirazione fondamentale di una costituzione nata come risposta alla tragedia immane della seconda guerra mondiale e ai venti anni di regime fascista.