Emidio Pichelan

"Vedevano tutto e non volevano sapere"

Un parterre folto di autorità e di divise; un pubblico attento di compaesani e di interessati dei paesi limitrofi; una sala futurista di valore storico. Si era addobbato come di dovere il piccolo paese della bassa padana, un tempo capitale dello zucchero di barbabietola. Qualche tempo prima il sindaco si era trovato con le quattro ruote dell’automobile squarciate.
Siamo ben lontani in Italia, ricordavano gli esperti a spiegazione della ratio politica dell’iniziativa, da una situazione emergenziale; e, tuttavia, è preoccupante l’incremento di episodi di violenza negli ospedali, nelle scuole, nei pubblici uffici. Sembrava scontata l’adesione dell’intera amministrazione ad Avviso Pubblico, un’organizzazione di istituzioni pubbliche e di volontariato sociale che come missione si è data la diffusione della cultura della legalità. Un obiettivo trasversale, si diceva qualche tempo fa. Chi mai oserebbe pubblicamente biascicare l’immorale it’s none of my business, non sono affari miei, sono altre le mie priorità?
Sembrava.
Non possiamo aderire alla proposta del sindaco e della maggioranza: l’unanimità non è democratica”. Non sono tempi normali questi. E questa è una serata di sorprese. A parlare per prima era la giovane signora, buoni studi alle spalle e chioma fluente da pubblicità Bioscalin, ex FI salita al momento opportuno on the bandwagon dei vincitori del 25 settembre, candidata sindaca nella prossima tornata elettorale amministrativa.
L’affermazione della giovane signora è una rasoiata perentoria; risuona come avviso ai naviganti di un cambio radicale di rotta nel confronto politico. La politica cessa di essere terreno condiviso di confronto e di opzioni; diventa un gioco a somma zero: io vinco tu perdi, tu sei un nemico da abbattere. Un mondo sideralmente distante dalla “amicizia sociale”, individuata da un Papa venuto da (quasi) la fine del mondo come unica pozione di salvezza per una umanità preda di un inedito, autodistruttivo cupio dissolvi.
Per istinto prima che per ragioni anagrafiche e per scelta razionale, diffido dei predicatori palingenetici, degli spericolati profeti del nuovo che avanza e del cambiamento necessario, delle formulette politiche semplificate, lapidarie, sloganistiche. Per quello che so e che vale, la storia mi dà ragione.
“Perché fate la rivoluzione?”, chiedeva appena possibile il giovane ingegnere minerario spagnolo, sbarcato in una Città del Messico in fiamme ai ribelli dai volti scavati da ferite e rughe, i petti coperti dalle bandoleras gonfie di cartucce. Per combattere contro i padroni, era la risposta diretta e unanime, contra los que mandan, los que tuvieron la suerte de la educación en vez de ser puros desgraciados como nosotros; es la suerte contra la desgracia, per lottare contro i padroni, quelli che comandano, che hanno avuto la fortuna dell’istruzione invece di nascere assoluti disgraziati come noi, è la fortuna contro la disgrazia (A. Pérez-Reverte, Revolución). Ma i grembi delle ripetute rivoluzioni messicane (Villa, Zapata, Madero, Orozco, Carranza, Huerta, Obregón, Calles …) si dimostrarono inesorabilmente sterili.
Tutt’altro il bilancio degli anni Settanta italiani. M. Gotor, storico di professione e studioso del “caso Moro”, oggi assessore alla Cultura del Comune di Roma, ha dedicato alla Generazione Settanta, storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982 (Einaudi, 2022) un libro corposo (447 pagine, di cui 40 di note). Un romanzo appassionato di servizi segreti deviati, interferenze internazionali, passioni politiche esuberanti (a volte troppo, con degenerazioni tragiche), di contagiosa voglia di partecipare, una nevrotica convivenza di sogni (“tutto è possibile”, uno degli slogan più diffusi) e di delusioni cocenti, un susseguirsi di eventi drammatici (la strategia della tensione, il partito armato, il centro sinistra, il compromesso storico, il delitto Moro, la P2), per la maggior parte tutt’altro che acclarati.
La sbarazzina Rita Pavone voleva un martello “per darlo in testa” a chi non le andava. Un secolo effervescente, sintetizza in un passaggio chiarificatore l’Autore, “un interminabile scontro tra ‘cuori neri’ e ‘cuori rossi’ nelle strade, nelle piazze, nelle scuole, nell’Università, con una sequenza di pestaggi, ossa rotte, crani fracassati, denti spaccati e giovani morti che lasciavano i loro fratelli, sorelle e genitori straziati dal dolore, il più delle volte alla vana ricerca, ormai da decenni, di verità e giustizia” (pag. 161).
Eppure in quel “lungo” decennio – e qui sta la ragione della sua esemplarità -, grazie a una “tenace tenuta democratica”, il Paese solcava a vele spiegate le acque della modernizzazione in campo economico, politico, sociale. Un decennio di riformismo senza eguali: Statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, istituzione degli asili nidi pubblici, permessi per maternità, divieto del licenziamento per maternità, tempo pieno scolastico, obiezione di coscienza, Decreti Delegati, nuovo diritto di famiglia, istituzione dei consultori familiari, riforma penitenziaria, parità uomo-donna sul lavoro, equo canone, Servizio Sanitario Nazionale, chiusura dei manicomi, democratizzazione delle Forze Armate, delle forze di polizia, della magistratura (pag. 215-216). L’Italia aveva perso la guerra ma vinceva, alla grande, la pace; e la buona politica ne era la madrina: De Gasperi stravinceva il 18 aprile del 1948, ma non governava da solo, e poi venivano il centro sinistra e il compromesso storico. Le forze dell’arco costituzionale condividevano una Carta costituzionale, obiettivi, valori, la collocazione internazionale.
Ai nostri tempi, ricordava a chiusura dell’evento da cui siamo partiti un cittadino anziano, c’erano le Brigate Rosse: incendiavano le macchine dei “nemici”, sequestravano, gambizzavano, uccidevano; ma non hanno vinto, perché eravamo uniti (noi i politici, le istituzioni, i soggetti responsabili) e il popolo stava con noi. L’intervento del cittadino anziano, un ex sindaco di adamantina fede democristiana e visceralmente anticomunista, non spostava d’un millimetro la presa di posizione delle tre guerriere dell’opposizione.
La violenza come il fascismo come il populismo semplificatore sono tentazioni permanenti; prosperano quando prevale l’indifferenza. L’ha ricordato opportunamente – non diciamo coraggiosamente; rimango del parere che i seguaci di una Costituzione antifascista siano ancora la maggioranza del Paese – la dirigente scolastica Savino. Nel nome di Gramsci; per l’occasione, ci sia permesso ricordare le condanne dell’indifferenza di Liliana Segre e di Primo Levi: “I mostri esistono ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni. Il male era in quelli che vedevano tutto e non volevano sapere”.