Settembre 2022

Note di apertura: Tra mille incognite, noi ci siamo (Ivana Barbacci)
Un anno con don Milani: Il mio primo incontro(Lorenzo Gobbi)
Il mondo intorno: Quel treno per Kiev (Emidio Pichelan)
Con gli occhi della storia: Il neofascismo e i pericoli della democrazia (Paolo Acanfora)
Una scuola per Lucignolo
: In questo luogo sarai al sicuro (Raffaele Mantegazza)
Conoscere la nostra scuola: Gli anni della ricostruzione(Reginaldo Palermo)
Strumenti per il mestiere: Innanzi tutto il progetto educativo/1 (Donato De Silvestri)
In giro per l'Italia e l'Europa: Liceo per il teatro e il cinema (Stefano De Marchi)
Una pagina d'autore: Affinati: Accendere il fuoco (Leonarda Tola)
Zibaldone minimo: Permalosità (Gianni Gasparini)
Il mese sindacale
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Tra mille incognite, noi ci siamo

di Ivana Barbacci

Rieccoci. Alle prese con molti problemi che il trascorrere dei mesi estivi ha lasciato sostanzialmente irrisolti, e con qualcun altro nel frattempo sopravvenuto, a rendere ancor più fitta la nostra agenda e più incerte le prospettive per quanto riguarda le condizioni di contesto nelle quali ci troveremo ad agire nei prossimi mesi. Si può anche, col “senno di poi”, considerare come evento facilmente prevedibile lo scioglimento delle Camere deciso il 21 luglio al Capo dello Stato dopo le dimissioni confermate di Mario Draghi: in realtà non poche ragioni rendevano auspicabile – e sensata – una prosecuzione dell’attività di governo fino al termine naturale, ormai imminente, della Legislatura. Le cose sono andate diversamente: sul senso di responsabilità imposto da molteplici emergenze di carattere interno e internazionale hanno prevalso altre logiche e altre “convenienze”. Tocca prenderne atto e prepararci al voto del 25 settembre, dal quale ci separano ormai solo poco più di tre settimane.
Come nostro costume, non daremo indicazioni di voto, rispettando la libertà di ciascuno e gli esiti che dall’esercizio di tale libertà scaturiranno. Non cambia una regola aurea cui la CISL fin dalla sua fondazione si è sempre attenuta, facendo dell’autonomia un suo chiaro e rigoroso tratto distintivo. Autonomia che non significa certo indifferenza e nemmeno equidistanza rispetto ai contenuti delle diverse proposte politiche, al centro di una dialettica della quale non abbiamo alcuna intenzione di rimanere spettatori passivi. Insieme alle altre sigle sindacali, tra qualche giorno, ci confronteremo con esponenti di tutte le forze politiche. Lo faremo per conoscerne e discuterne i contenuti programmatici, ma soprattutto per rappresentare obiettivi e priorità al centro dell’azione sindacale condotta in un confronto - con l’attuale Governo e l’attuale Parlamento - spesso rivelatosi, sui temi dell’istruzione e della formazione, irto di difficoltà. Un confronto che siamo pronti a riprendere col nuovo Esecutivo, ma che non si è mai interrotto con quello in carica, al quale abbiamo chiesto e chiediamo di assumersi fino in fondo le sue responsabilità per quanto riguarda la definizione di un quadro delle disponibilità economiche che permetta di chiudere presto e in modo soddisfacente la trattativa per il rinnovo del contratto nazionale.
Tra i problemi sopravvenuti nella pausa estiva, cui accennavo in apertura, ci sono sicuramente le disposizioni introdotte nel decreto 115/2022 (il cosiddetto “aiuti bis”) sui benefici economici da riconoscere a una limitata quota di docenti previo superamento di un lungo e impegnativo percorso formativo. Ancora una volta, assistiamo a un intervento su cui non soltanto le obiezioni di merito sono innumerevoli (e molte ne abbiamo evidenziate nelle scorse settimane, trovando significativo riscontro anche in settori della stessa maggioranza di governo), ma attuato per decreto senza il benché minimo confronto politico e sindacale, pur riguardano una materia, come il trattamento economico e di carriera dei docenti, che ha evidenti implicazioni di natura contrattuale.
Per quanto ci riguarda, ribadiamo che il tema delle carriere va affrontato e risolto al tavolo negoziale, fermo restando che oggi è assolutamente prioritario l’obiettivo di una rivalutazione generale delle retribuzioni, che riconosca al lavoro nella scuola (per tutti: insegnanti, dirigenti, personale amministrativo e ausiliario) giusto valore e dignità. Rimane questo l’obiettivo di fondo che intendiamo perseguire nella trattativa per il rinnovo del contratto, puntando a portarla quanto prima possibile a una positiva conclusione.
Buon anno scolastico a tutti, in particolare ai nuovi assunti in ogni profilo. La stabilità del lavoro, fattore che incide sulla qualità delle condizioni di vita personali ma anche molto sulla possibilità di organizzare e gestire con la dovuta efficacia il servizio scolastico, resta un’esigenza pressante - e per noi un obiettivo da perseguire con determinazione - in un settore che vedrà ancora, a causa di scelte politiche sbagliate in materia di reclutamento, una percentuale molto elevata di lavoro precario. Così come proseguirà il nostro impegno, nella trattativa per il nuovo contratto, per rimettere mano a un sistema assurdo di vincoli che impediscono a tante persone di ricongiungersi al proprio nucleo familiare, una possibilità che migliaia di docenti hanno avuto grazie al contratto sulla mobilità voluto e firmato l’inverno scorso dalla nostra organizzazione.
Tra mille problemi, incertezze e incognite, noi ci siamo. Chi lavora nella scuola sa di poter contare su di noi.
La nostra Agenda, nella ricorrenza del centenario dalla nascita, è dedicata in quest’anno scolastico alla figura di don Milani. Una testimonianza altissima, quella del Priore di Barbiana, che ha sicuramente inciso nella storia della scuola italiana, deviandone positivamente il corso, e che tocca in profondità la coscienza di chiunque si accinga a raccoglierla e farla propria. Rendere omaggio a don Milani significa anche ribadire l’impegno ad assumere il valore della persona e il bene comune come orizzonte costante di riferimento del nostro lavoro quotidiano.

Il mio primo incontro

di Lorenzo Gobbi

Il mio primo incontro con don Milani è stato tutt’altro che positivo. Si era a Verona negli anni Settanta, ero bambino e vivevo in un mondo cattolico segnato da un profondo disorientamento di fronte ai mutamenti della società: c’era la droga che mieteva vittime e si diffondeva con rapidità impressionante tra i giovani (Verona era “la Bangkok d’Italia”); c’erano i sacerdoti in blue jeans, con i capelli lunghi, che fumavano pure e proprio sul sagrato della chiesa e che criticavano tanto le pratiche quanto la dottrina tradizionali; la contraccezione si diffondeva e le donne acquisivano autonomia e capacità di decisione; c’erano il laicismo importante, il consumismo, il lassismo, il relativismo, le convivenze e i divorzi, l’edonismo, il modernismo, il comunismo, l’indifferenza religiosa, la confusione dei ruoli di genere, l’eclissi del padre, l’assenza della madre, la psicologia anticristiana che legittimava la masturbazione e i rapporti prematrimoniali, la televisione che contaminava la vita e la virtù delle famiglie tramite le gambe delle gemelle Kessler, le canzoni della Carrà, “Happy Days” e il teatro di Dario Fo.
Insomma, non c’era da stare allegri (nessuno scherzava mai, del resto, e al primo abbozzo di sorriso mi veniva ricordato che “il riso abbonda sulla bocca degli stolti”): i miei genitori, entrambi insegnanti di scuola media, deploravano l’avvento della media unica, l’abolizione del latino alle medie (evidentemente finalizzata al rimbecillimento delle giovani generazioni per renderle malleabili alla propaganda di sinistra), l’università di massa in cui chiunque si poteva laureare pur restando nella più crassa ignoranza, la debolezza dei colleghi che non bocciavano più, ma proprio più – o che, se lo facevano, si lasciavano prendere dai sensi di colpa.
“La scuola deve selezionare”, tuonava mio padre, che pure era figlio di contadini semianalfabeti, “deve regolare l’accesso alla classe dirigente, deve essere il baluardo della società”. E cos’era, per mia madre, tutta questa diffusione del “dillo con le tue parole”, “esprimi la tua opinione”? “Uno studente deve studiare, non dire la sua opinione; deve ricevere e ripetere, acquisire un linguaggio preciso, assimilare i contenuti senza fiatare”, consapevole di non valere nulla; deve fidarsi del giudizio degli insegnanti, accettarlo a testa bassa e mettersi l’anima in pace se è “un somaro, uno zuccone, un incapace” – ce ne sono tanti al mondo! Altro che “dillo con le tue parole”!
La causa di tutto questo era lui, don Milani: la sua Lettera a una professoressa era il manifesto dell’arroganza e dell’ignoranza “crassa e supina” che dilagavano, la fonte del lassismo pedagogico, dell’eclissi dell’educazione, della viltà degli insegnanti, il lasciapassare della sinistra, la bibbia del comunismo travestito da cattolicesimo, l’inganno supremo, il buonismo in pillole che causava la perdita di tutti i valori tramite la corruzione e lo svuotamento della funzione didattica e del ruolo sociale della scuola, l’indebolimento dei docenti e dei genitori, la corruzione della chiesa stessa. E… la politica a scuola! L’attualità!
Altro che leggere il giornale e fare assemblee con l’associazione dei donatori di sangue: studiare, bisognava! E alle assemblee mi era vietato di partecipare perché erano un frutto dei famigerati Decreti Delegati e del Sessantotto di cui lui, don Milani, era il profeta e la causa. Gli insegnanti “sessantottini”, quelli che leggevano don Milani, erano la fonte di tutti i mali e i complici della degenerazione irreversibile a cui si assisteva ogni giorno.
Io ascoltavo, sapendo di non essere nulla e di non valere nulla, certo che gli insegnanti potessero leggermi dentro e capire se meritavo oppure no uno sguardo men che severo e se era stato davvero il caso che io venissi al mondo oppure no; mi avrebbero detto loro se il mio posto nella società sarebbe stato quello di uno scarto, di un inadatto, di un fallito in partenza oppure chissà quale; e studiavo con timore e tremore, spaventato, esitante, terrorizzato dalle interrogazioni e dai compiti in classe, dalle verifiche a sorpresa, irrigidito nell’attesa dei colpi che dovevano arrivare a rivelarmi per quello che ero di fronte a tutti, speranzoso nella benevolenza immotivata della sorte che poteva, forse, guardarmi con benevolenza, ma che difficilmente l’avrebbe fatto.
“Il medico pietoso fa la piaga purulenta”, ripeteva mio padre: chi educa doveva essere spietato nel potare, recidere, colpire, altrimenti nessun bene avrebbe mai potuto nascere nelle vite dei giovani, altro che don Milani e le sue sciocchezze comuniste! Quando fui rimandato la prima volta, alle superiori, mio padre proclamò solennemente che quella era la mia “pubblica patente di imbecillità” e che non c’era altro da aggiungere: che mi arrangiassi e che mi facessi bocciare, peggio per me; era giusto così, quel che io ero era finalmente chiaro; gli insegnanti volevano il mio bene e giustamente mi colpivano con la riprovazione; se ricevevo questa lezione significava che ero uno scarto, un “imbecille” che finalmente tutti conoscevano, e dunque era il caso che fossi grato a chi mi aveva svelato e dichiarato come tale.
I miei insegnanti, del resto, erano molto arbitrari: capii abbastanza subito che studiare o no non contava poi molto e che quando ti dicevano che la verifica sarebbe stata su Omero era ovvio che ti saresti trovato davanti una poesia di Anacreonte, di Saffo o di Alceo; il tema di italiano doveva essere “più fluido” per andare finalmente bene ma cosa ciò significasse non era dato sapere e l’udienza alla cattedra durava pochi secondi; a volte non sapevi quale voto avessi ottenuto nell’unica interrogazione dell’anno e lo ritrovavi sul tabellone finale senza poter fare pronostici.
Erano immuni dalla corruzione di don Milani, quei professori del Liceo Ginnasio del centro storico, e la professoressa destinataria della Lettera doveva averla stracciata senza nemmeno aprirla. Obbedire, del resto, era considerata la massima virtù: “saprai comandare quando avrai imparato ad obbedire”, ripeteva la mia professoressa di Latino quando vedeva nello sguardo un’ombra di richiesta sul perché di una valutazione (richiesta inesprimibile, del resto); dire che “l’obbedienza non è più una virtù” doveva essere per lei un’imperdonabile bestemmia.
L’educazione doveva essere un percorso ad ostacoli nel quale solo i più forti sopravvivevano: per gli altri c’era il ruolo di gregari o di servi, e giustamente, già sui banchi di scuola (che era “la palestra della vita”, non una parte di essa e men che mai una parte preziosa). La gentilezza del professore di Filosofia, la sua disponibilità e bontà erano giudicati come debolezze ridicole e nocive dai miei genitori e da molti suoi colleghi (e infatti si trasferì ad altra scuola dopo pochi anni).
Quando lessi don Milani, molto tempo dopo, fui felicissimo di conoscerne i pensieri, autenticati da una vita immacolata: nessuno studente che sia affidato a me per un tratto di strada sentirà mai su di sé uno sguardo di superiorità, di arroganza, di giudizio o di riprovazione che sia consapevole o voluto. I care: mi interessa ciò che pensi, ciò che senti, ciò che provi; mi interessa essere a tua disposizione per mostrarti un po’ del mondo e conoscerlo nuovamente assieme a te; ti guardo come vorrei che un insegnante guardasse un figlio mio, una figlia mia; devo farti faticare un po’, ma non senza ragione e non al di là delle tue forze, che sono migliori di quello che credi; non ti voglio obbediente ma coinvolto; non ti dico bugie, non ti tendo trappole ma voglio che tu sappia ciò che ti chiedo e perché te lo chiedo; non mi illudo di conoscerti né di capirti, ma sono comunque qui per te nella misura in cui decidi tu; sto sulla soglia della tua vita e di essa non ti chiedo nulla che tu non mi voglia spontaneamente raccontare; di quel che ho non risparmio nulla perché tu diventi al meglio ciò che sei, ciò che puoi essere; ti voglio libero dal timore, certo di valere qualcosa e anche più di qualcosa; le mie sofferenze le metto da parte, cerco di essere sereno perché tu possa trovare un interlocutore giusto e buono, perché tu possa avere fiducia in me e sentire che ho fiducia in te; finché sei qui, sono a tua disposizione.
Torno raramente, però, a don Milani: forse perché il contrasto con ciò che ho vissuto a scuola e all’università è stridente e doloroso e riapre ferite antiche ma ancora vive. Mi riprometto di prendere del tempo per dialogare con lui nel prossimo futuro, certo che ne valga la pena.

Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola.
Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli
intorno a cui si faceva scuola e si mangiava.
D'ogni libro c'era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra.
Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po' più grande e insegnava"
.

da Lettera a una professoressa

*****

Barbiana dista dal paese più vicino, Vicchio (circa 40 km a nord-est di Firenze, raggiungibile percorrendo da Fiesole la strada regionale 65) circa 7 chilometri. La chiesa, la canonica e l’agglomerato di case rurali si trovano alle pendici del Monte Giovi.
Le visite al Percorso didattico della scuola di Barbiana sono gestite esclusivamente dalla “Fondazione Don Lorenzo Milani”.
Le scolaresche e i gruppi che intendono visitare il percorso didattico devono prenotarsi per tempo, in modo che la Fondazione possa organizzare la propria agenda e segnalare la visita sul proprio sito www.donlorenzomilani.it.
Occorre telefonare in Fondazione al n. 055418811 o inviare e-mail a contatti@donlorenzomilani.it, oppure cel. 335 5682242.
Le famiglie e i singoli che intendono visitare, di norma vengono aggregati ai gruppi. Ognuno può scegliere la data della visita verificando sul sito internet della Fondazione le prenotazioni in visite prenotate (www.donlorenzomilani.it/visite-a-barbiana/).
Le visite a Barbiana sono gratuite. La Fondazione, per le visite guidate con testimonianza e spiegazione di tutto il percorso didattico, gradirebbe che i gruppi, le famiglie, i singoli, aderissero alla Fondazione iscrivendosi come soci, aiutando il mantenimento del luogo e del percorso didattico. L’iscrizione dà diritto ad essere informati delle varie iniziative che la Fondazione organizza.
L’ultimo tratto di strada che porta a Barbiana è molto stretto e lo spazio a Barbiana non è eccessivo, pertanto si consiglia di non arrivare a Barbiana con le auto, se non in casi specifici come disabili o persone anziane. I pullman fino a 25 posti possono arrivare fino al bivio da cui inizia il “Sentiero della Costituzione”, ove si trova uno slargo in cui i pullman possono fare manovra e sostare. Da lì 1 km a piedi, gli ultimi 800 metri sono molto ripidi e sterrati. Gli altri pullman debbono essere parcheggiati al lago Viola a circa 3 km ed i visitatori debbono proseguire a piedi per 45 minuti salendo per il “Sentiero della Costituzione”.
Il 25 aprile 2021 è stato inaugurato un nuovo percorso didattico: il “Sentiero della Resistenza”.

Riflessioni sulla contemporaneità
Quel treno per Kiev (e altri sguardi al di là della siepe)

di Emidio Pichelan

Mi capita di leggere brani argomentativi linguisticamente e grammaticalmente corretti. E allora perché, alla fine della lettura e dell’ascolto dell’intervento del noto esperto, mi sento più confuso che illuminato? Non soffro di decadenza cognitiva; sempre più intrigante la sensazione di assistere a uno stridente divorzio tra realtà e linguaggio. È un effetto dei tempi bui e complessi, mi confortano – e si confortano – gli amici, colpiti dalla stessa sindrome.
E, allora, su insegnamento del poeta, scavalco con lo sguardo la “siepe che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. E “il cor” cessa di “spaurarsi”. Al di là della siepe, in una notte che passerà alla storia, si staglia la sagoma di un vagone ferroviario in viaggio verso Kiev. Trasporta tre personaggi importanti: vanno a offrire aiuti e solidarietà a un giovane Presidente che, da mesi, non sveste la maglietta e i pantaloni mimetici. Contemporaneamente, Paesi di sana e robusta neutralità non esitano a bussare alle porte della Nato. Lo fanno naturaliter: nessuno che si azzardi a chiamarli guerrafondai.
Da qualche anno la Finlandia viene proclamata il Paese più felice del mondo. Lasciamo stare l’aggettivo ingombrante e scivoloso, usiamone pure un altro qualsiasi meno impegnativo: i conti tornano comunque. La Finlandia è un Paese dove si sta bene, sicuro al suo interno, protetto da un Welfare generoso, “dalla culla alla tomba” si diceva ai bei tempi prima dell’avvento del duo Thatcher-Reagan, e all’esterno, nei confronti del potente, inaffidabile vicino di casa con cui condivide 1350 chilometri di confine e contro il quale ha sostenuto ben tre conflitti armati.
Sono luterani, è lecito immaginare che conoscano bene l’avvertenza evangelica estote parati, adottata dagli scout come loro motto; ad ogni modo, per loro neutralità è tutt’altro che incompatibile con spese militari, l’ultima delle quali, piuttosto ingente, riguarda l’acquisto di 65 F-35 – avete letto bene, 65 –, l’allestimento di una flotta aerea e di una marina militare modernissime, esercitazioni annuali e il servizio militare per i maschi. Dal 2019 il governo finlandese è guidato da Marina Sanna, trentaseienne madre d’una bimba di cinque anni, socialdemocratica, che ha assunto l’incarico sulla base di un’agenda progressista, molto progressista: settimana lavorativa di quattro giorni per sei ore al giorno (ricordate lo slogan metalmeccanico di qualche decennio fa “lavorare meno, lavorare tutti”?), istruzione obbligatoria per diciotto anni, azzeramento delle emissioni nocive entro il 2035, quindici anni in anticipo rispetto agli impegni della UE, parità salariale tra maschi e femmine… Prima del 24 febbraio scorso, solo il 30 per cento della popolazione si diceva favorevole all’ingresso del Paese nella Nato; meno di tre mesi dopo, il 17 maggio scorso, l’adesione alla Nato, appoggiata dal 76 per cento della popolazione, è stata approvata dal Parlamento con 188 voti favorevoli e solo 12 voti contrari.
I finlandesi erano neutrali dal 1948; non erano pacifisti prima, almeno non lo erano secondo una certa interpretazione nostrana, non sono diventati guerrafondai adesso. Hanno una diversa concezione del termine sicurezza: che per loro significa Welfare (generoso) e protezione dai pericoli provenienti dall’esterno. Le vicende del 24 febbraio non hanno cambiato per nulla l’agenda politica della giovane premier finlandese: parità salariale uomo-donna, diritti politici Lgbt e dei transgender, lotta alla violenza domestica, incremento consistente del congedo parentale per i neo padri.
“Tu chiamale, se vuoi, emozioni”; loro, il popolo più felice del mondo, lo chiamano pragmatismo: è la situazione oggettiva a incaricarsi di far corrispondere i fatti e le parole. Non erano allocchi l’altro ieri, non sono diventati guerrafondai oggi.

Il neofascismo e i pericoli della democrazia

di Paolo Acanfora

Il centenario della marcia su Roma ha finora prodotto conferenze, lezioni, convegni a livello accademico e qualche pubblicazione più o meno divulgativa. Ovviamente ottobre sarà il mese più intenso e vedremo se e quali novità ci saranno – tanto più in seguito ai risultati elettorali del 25 settembre. Ma una prima provvisoria considerazione si può fare: fondamentalmente il tema è rimasto sinora assai circoscritto nei ristretti circoli degli studi storici e certo non in grado di sollevare grandi dibattiti.
Questa constatazione (ripeto, sempre parziale e momentanea) può avere diverse motivazioni. Come spesso accade, si possono avanzare ipotesi e ragionamenti di vario segno ma mi pare che un dato sia difficilmente equivocabile: la società civile italiana (in tutti i suoi settori) non ritiene che il tema sia urgente. È evidente che non si tratti solamente di una questione storica, cioè di analisi di eventi del proprio passato, di conoscenza della storia nazionale utile per comprendere la fondazione e lo sviluppo della Repubblica. Il fascismo storico è percepito come un evento lontano, uno dei tanti fenomeni immersi in un passato indistinto, incomprensivo, dai contorni sfumati. L’attenzione, la curiosità, l’interesse verso di esso semplicemente non esiste.
Esiste invece un’idea generica, indistinta, fumosa di fascismo. Esiste in positivo e ha partorito luoghi comuni e pregiudizi: il fascismo è stata una dittatura blanda, meno feroce del nazismo e del comunismo, che non ha ucciso nessuno o quasi; le leggi razziali sono state imposte e non c’entrano con la cultura fascista; addirittura – come disse inopinatamente ma pubblicamente un nostro ex presidente del Consiglio, che pure si è sempre presentato come un campione del liberalismo – il confino, nato come misura repressiva riservata ai nemici del regime, era di fatto “una vacanza”. Per non parlare dei pregiudizi assolutamente inconsistenti sul debellamento della criminalità o, quelli un po’ farseschi, dei treni sempre in orario. Visioni comunicate e diffuse nella società che hanno contribuito non poco a costruire un’immagine distorta e banalizzata del fascismo.
Al tempo stesso però luoghi comuni e pregiudizi hanno segnato anche la lettura in negativo del fascismo: la ridicolizzazione di Mussolini come un duce da burlesque, una macchietta degna della nostra Italietta; la negazione della stessa esistenza di una cultura e di una ideologia del fascismo, la cui classe dirigente era da considerarsi sic et simpliciter una banda di criminali. Per decenni (e ancora oggi) fascista è stata ed è una parola passe-partout utilizzata per definire tutto ciò che non ci piace. Si tratta, evidentemente, di un altro modo per distorcere e banalizzare.
La assoluta mancanza di una conoscenza elementare adeguata di ciò che il fascismo fu è la causa prima del disinteresse per questo centenario. Eppure la dialettica fascismo/antifascismo continua ad essere presente nella politica quotidiana e ancor più nelle campagne elettorali. Il grande consenso della destra radicale sollecita, d’altronde, questa discussione. Per una parte del paese il fascismo continua, infatti, ad essere una minaccia reale che cambia volto ma non sostanza, per l’altra un’esperienza tutto sommato da non condannare.
Proviamo ad essere minimamente sensati. In Italia esistono certamente gruppi neofascisti (Forza Nuova o Casapound, ad esempio) ma sono estremamente minoritari. Costituiscono ovviamente un problema – soprattutto perché si saldano agli ambienti più disparati, come abbiamo visto nel caso dei movimenti no-vax – ma difficilmente si può sostenere che esista un pericolo di rovesciamento del sistema democratico. I partiti politici della destra italiana contribuiscono certamente a quella pericolosissima banalizzazione del fascismo a cui si è accennato ma nessuno di questi ha un progetto politico di tipo fascista. Nessuno propone la costituzione di uno Stato totalitario, a partito unico, sorretto dalla violenza politica e mirante a costruire un nuovo uomo marziale, con un sistema internazionale gerarchizzato sul principio della potenza nazionale. Questo fu il fascismo e se non c’è questo non c’è proposta politica fascista.
Ciò non significa però che questi stessi partiti non promuovano comportamenti e non diffondano idee che hanno un forte appeal per coloro che, appunto, hanno una visione distorta e banale del fascismo. I saluti romani, le effigi del duce, il linguaggio della retorica del regime riaffiorano continuamente. È molto indicativo che la principale candidata della destra alla presidenza del consiglio si attivi per accreditarsi sul piano internazionale, prendendo le distanze dal proprio passato (il Movimento sociale era inequivocabilmente e per sua definizione un partito neofascista) mentre non sente la necessità e l’urgenza di fare lo stesso in Italia. Perché adottare due registri linguistici e due autorappresentazioni diverse? Perché è evidente che sul piano nazionale la richiesta di chiarimenti, di presa di distanza, di emancipazione da quell’immaginario retorico fascista non c’è. O meglio, non esiste in quanto richiesta generalizzata proveniente dalla società. Esiste invece come richiesta di parte e come tale perde la sua dimensione di fondamento della convivenza civile.
Il dramma che stiamo vivendo in questi anni è proprio la politicizzazione di ciò che è o dovrebbe essere prepolitico: il rispetto dei diritti umani, i principi di convivenza democratica, la questione ambientale, il valore della scienza, etc. Tutti temi che sono purtroppo diventati appannaggio di una parte politica, perdendo così la loro valenza di patrimonio comune. Essere contro la dittatura (quale ne sia la forma e il sistema politico) è un principio primo non negoziabile per qualsiasi democratico. E non dovrebbero esserci né ombre né imbarazzi nel sostenerlo pubblicamente.
I pericoli per le nostre democrazie non nascono, dunque, dal fascismo più o meno mascherato ma dalla sua banalizzazione. Perché questa indebolisce, frammenta, degrada il tessuto democratico della società e ne compromette gli anticorpi. Il pericolo maggiore è rintracciabile, a mio giudizio, proprio nella degradazione della qualità delle nostre democrazie, nella riduzione di esse a meccanismi formali, procedurali, mentre tutto ciò che le anima e le alimenta si assopisce ed affievolisce inesorabilmente.
Ci aiuta in questo discorso un altro anniversario. Settanta anni fa, nel 1952, il parlamento italiano discuteva una legge contro la rinascita dei movimenti fascisti. Nel dibattito molti interventi (tra cui quello di Aldo Moro) mettevano l’accento non tanto sulla parte repressiva – inevitabilmente moderata in un regime democratico – ma su quella pedagogica. Sciogliere, per fare un esempio, il Movimento sociale non sarebbe servito a molto. Avrebbe anzi alimentato l’idea di una insufficienza della democrazia, di una sua intrinseca debolezza. Ciò che occorreva fare era invece educare gli italiani alla prassi democratica e al suo sistema di valori, costruire un tessuto sociale solido, un’idea di bene comune e di convivenza pervasa dai principi di un umanesimo democratico. Un proposito che ha incontrato molti ostacoli sul suo percorso ma anche molti successi. Oggi mi pare che sia proprio su questo versante che si addensano le maggiori preoccupazioni per il futuro. E non si tratta, purtroppo, di un fenomeno solo italiano.

Emozioni, paure, speranze, etica: i tanti motivi per cui suona la campanella

Presentazione dell’autore
Ci siamo mai chiesti chi fosse davvero Lucignolo? Da cosa fuggiva, da quale scuola proveniva, perché la odiava così tanto, così profondamente? Ci siamo mai soffermati a pensare che nemmeno Franti era così estraneo al mondo scolastico come questo ragazzino in fuga, che pure dovrà avere avuto da qualche parte un maestro, una maestra, un banco e un'aula? Pensare a una scuola per Lucignolo non significa soltanto abbattere le terribili cifre dell'abbandono o pensare a una ri-scolarizzazione (obiettivi imprescindibili, sia chiaro) ma più radicalmente provare a capire cosa porta un ragazzo o una ragazza ad entrare in aula quando suona la campanella; quali emozioni, quali paure, quali speranze la scuola sollecita e soprattutto quale possibile etica, o meglio deontologia dello studente, è possibile proporre ai ragazzi, circondati dai tanti Omini di burro, seducenti e scaltri, che continuano a presentare la scuola solo come un luogo di sofferenza e di nonsenso (spesso non avendo tutti i torti).
Mese dopo mese cercheremo di riportare alcune frasi fondamentali, rassicurazioni, richieste che il mondo scolastico può porre di fronte agli studenti e agli scolari per ricostruire un patto tra scuola e ragazzi che sembra essere sempre più a rischio.

In questo luogo sarai al sicuro

di Raffele Mantegazza

Lí non vi sono scuole: lí non vi sono maestri: lí non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedí non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedí e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!...
Carlo Collodi, “Le avventure di Pinocchio”

“In questo luogo sarai al sicuro” è la prima frase che abbiamo scelto. Le scuole devono essere sicure. Il tema della sicurezza edilizia è estremamente delicato e sappiamo quanto in Italia purtroppo abbia bisogno ancora di interventi economici e strutturali. Ma noi vogliamo parlare anche di una sicurezza di tipo diverso, ovvero l'idea che all'interno dello spazio scolastico non abbiano accesso in modo diretto la violenza, la sopraffazione, la prepotenza, o perlomeno che nel caso in cui si verifichino atti di questo tipo essi siano sempre oggetto di attenzione dall'adulto e di tematizzazione.
A scuola i ragazzi devono incontrare adulti che hanno sempre il polso della situazione, anche nei momenti di crisi, che sanno dove condurre i ragazzi quando questi rischiano di perdersi: e ciò è possibile solo attraverso l’esercizio quotidiano della collegialità. E quando parliamo di momenti di crisi non stiamo soltanto riferendoci al bullismo, ma a comportamenti, anche da parte di adulti, che vanno a toccare dimensioni intime e profonde dei ragazzi che si sentono attaccati nella loro emotività. La sicurezza a scuola è la sicurezza del fatto che nessuno potrà mai giudicare il tuo essere, e nessuno potrà mai dirti che sei sbagliato; la certezza cioè che soltanto tu potrai decidere che cosa lasciar trapelare nel tuo mondo interiore.
La scuola deve costruire attorno ai ragazzi una rete difensiva che permetta loro di giocarsi nelle relazioni e nelle attività che poi vengono proposte, sapendo che c'è un nucleo della loro personalità che è totalmente al riparo da ciò che si sta facendo. Chiedere ai ragazzi un investimento emotivo sulla scuola è fondamentale, ma non è possibile se anche qui, come in tanti altri luoghi, essi sono sottoposti a spietati giudizi, il più delle sentendosi dire che non sono giusti, che non sono adatti ad un modello imposto.
La sicurezza non è soltanto individuale, è anche collettiva, nel senso che tutta la comunità degli studenti deve sentire che la scuola è un luogo nel quale ci si prende cura di loro e li si tutela. Lo strumento della cura o meglio l'ambiente della medesima è la cultura: e la cultura deve essere un farmaco, deve essere una garza stesa su una ferita, qualcosa che ti fa stare bene e che ti fa sentire protetto, che ti fa sentire accolto e soprattutto che ti fa sentire pensato da una comunità di adulti.
Pensare i ragazzi: questo è l'elemento di professionalità specifico degli insegnanti, troppo spesso trascurato nell'emergenza del fare, del rendicontare, dell’arrendersi alla follia burocratica. Quella di insegnante è una professione intellettuale non solo perché ci si occupa di matematica, letteratura, fisica ma soprattutto perché si pensano i ragazzi e si pensa soprattutto la propria relazione con loro, quella cura e quella protezione che in quella forma solo gli insegnanti possono fornire. Gli insegnanti sono i principali esperti della relazione educativa che si dà all'interno della scuola. Le discipline sono il pretesto di questa relazione, un pretesto ovviamente non eliminabile ma che deve entrare nel campo di forza definito dal rapporto tra adulto e ragazzo e solo all'interno di questo campo di forza acquisisce il suo senso profondo.
Ma la scuola non deve nemmeno trasmettere la concezione paranoide della sicurezza che consiste nell'eliminazione di tutti i rischi, per la creazione di una specie di distopia al contrario nella quale tutto è sicuro perché praticamente si smette di vivere. È del tutto ovvio che la scuola non può mettere in pericolo le vite dei ragazzi, ma la distinzione tra rischio e pericolo, nella quale il primo elemento significa un pericolo calcolato per quanto umanamente possibile, non può mancare nella formazione dei giovani. Dunque nell'ambito di una protezione nella quale sai che non rischi nulla perché non metti il tuo cuore e i tuoi sentimenti alla berlina e alla mercé di tutti, una forma di rischio, di esposizione, di richiesta di mostrare alcune parti di te è inevitabile, anche se, lo ripetiamo, i tempi e i modi devono sempre essere decisi dai ragazzi. E potrebbe anche accadere che un ragazzo non se la senta di compiere questa operazione e il suo rifiuto deve essere rispettato ed accettato.
Conosciamo purtroppo situazioni nelle quali la scuola è l'unico luogo dove un ragazzo può incontrare un adulto che non commette violenza su di lui, che non lo picchia, che non lo insulta. Chi propone oggi di liquidare l'esperienza della scuola dovrebbe riflettere sul fatto che in alcune situazioni questa è stata l'unica area di salvezza per ragazzi e ragazze che nella loro vita ne ha contratto soltanto violenza. Proteggere i ragazzi dalla violenza dovrebbe essere compito di tutta la società, ma sappiamo perfettamente che oggi spesso accade il contrario, nell'indifferenza rispetto all'incredibile massa di dolore che oggi i giovani vivono e che mettono davanti ai nostri occhi distratti da tanto altro.
I due suoni della campanella dunque dovrebbero delimitare un'area esperienziale particolare, uno spazio e un tempo che come richiedeva Riccardo Massa permette di vivere un'esperienza talmente diversa da quella della quotidianità e talmente protetta dall'invasione del quotidiano che per questo può inglobare elementi della vita esterna: esattamente come fa il teatro che sa essere attuale anche quando presenta tragedie scritte migliaia di anni fa. Davanti a Medea che uccide i figli io sono protetto, perché sono seduto su una poltrona comoda, perché sono al caldo, perché non sono uno dei figli di Medea, perché non sono Giasone, perché l'attrice non è Medea, l’attore non è Giasone e i piccoli attori non sono i figli. Il teatro è una struttura di finzione che permette di proteggere lo spettatore e di fargli godere la tragedia (che riguarda i suoi mondi intimi ma solo se lui lo desidera), esattamente come a scuola non è mai in discussione la persona del ragazzo ma sempre il grande gioco dell'apprendimento e l'avventura della conoscenza. Starà poi al singolo ragazzo decidere se Napoleone o Foscolo possono agganciarsi ad alcuni dei suoi mondi interiori; noi lo speriamo, lo desideriamo, ma non possiamo mai causarlo direttamente perché ormai dovremmo avere capito che le relazioni causa-effetto non funzionano in questo modo meccanico quando si parla del mondo profondamente umano.
E dal momento che per alcuni ragazzi sarà Kant a operare questo aggancio al mondo emotivo e affettivo, per altri saranno le equazioni di secondo grado, per altri ancora la storia dell'arte; torna qui ancora una volta la centralità della collegialità; è centrale a scuola il fatto di lavorare sempre insieme, perché ogni collega potrà avere accesso al mondo profondo di un ragazzo e svelarci anche dimensioni che noi non abbiamo visto, non perché non siamo dei bravi insegnanti ma semplicemente perché non è accaduto e per fortuna possiamo farlo accadere prendendo spunto dal confronto con il collega.
Sembrerà paradossale avere affermato che la scuola deve proteggere il mondo emotivo di ragazzi e poi deve riuscire ad entrarvi, ma vogliamo ribadire ancora una volta che la porta può essere spalancata soltanto dal ragazzo, che in una situazione protetta nella quale sa di non essere giudicato può decidere, se lo vuole, che una relazione educativa che sostiene un determinato contenuto può essere importante per lui, per giocare in modo più profondo l'avventura della sua crescita.
La sicurezza non può essere ridotta all'eliminazione dei pericoli. Essere al sicuro significa essere amati, essere protetti, vivere in un progetto che permetta di camminare con le proprie gambe ma sempre con qualcuno che ti aiuti nel momento del bisogno. La protezione che la scuola offre ai ragazzi è totalmente diversa da quella dei genitori, e permette ai giovani di capire che oltre la famiglia c'è una società che può accoglierti ed amarti e la scuola può essere la prima grande palestra per costruire un mondo in cui tutti si sentano protetti, in cui tutti abbiano il desiderio di giocare il rischio della vita.

Gli anni della ricostruzione

di Reginaldo Palermo

Questa è la prima puntata di una breve storia della scuola italiana a partire dalla nascita della Repubblica.
Il primo ministro dell’istruzione dopo la nascita della Repubblica fu Guido Gonella e a lui toccò quindi il difficilissimo compito di far ripartire il sistema scolastico nazionale uscito a pezzi dal periodo bellico. Soprattutto nelle grandi città come Torino, Roma, Milano, Genova, Napoli gran parte degli edifici scolastici avevano subito danni irreparabili durante la guerra; in molti casi dalla metà del 1945 in avanti gli edifici pubblici, e quindi anche le scuole, erano stati usati per accogliere gli sfollati.
Ma c’era anche un problema di ordine culturale e sociale: i nuovi valori di libertà e democrazia che la neonata Repubblica professava mal si accordavano con il sistema scolastico voluto dal regime fascista.
Era necessario quindi modificare profondamente anche l’assetto istituzionale e ordinamentale della scuola.
Guido Gonella era entrato a far parte del Governo nel 1946, era democristiano, anzi per un certo periodo fu anche il segretario nazionale del partito, ed era uno dei più stretti collaboratori di De Gasperi.
Riprendendo molti dei temi oggetto del dibattito che aveva animato l’Assemblea costituente Gonella decise di mettere mano ad un progetto di grande respiro.
Nel 1951 presentò in Parlamento il disegno di legge (il numero 2100) che prevedeva una riforma completa di tutto il sistema scolastico, dalla scuola materna fino all’Università.
Le intuizioni di Gonella furono diverse.
Già il fatto di parlare di scuola materna era notevole; non si parlava ancora di scuola materna statale, ma nel disegno di legge c’erano due punti interessanti: in taluni casi i Comuni avevano l’obbligo di istituirle potendo contare però su appositi finanziamenti statali; non solo, e si prevedeva persino che le aziende avessero l’obbligo di creare al proprio interno scuole per i bambini fra i 3 e i 6 anni.
La scuola elementare era articolata in due cicli: un biennio seguito da un triennio, con un esame finale fatto davanti ad una commissione formata dall’insegnante della classe, dal direttore didattico e da un insegnante di scuola media.
La quale scuola media prevedeva diversi indirizzi: normale, tecnico e classico, rispettivamente finalizzati a preparare i ragazzi alle attività lavorative e agli istituti professionali, agli istituti tecnici e ai licei, in relazione alle inclinazioni e alle attitudini di ciascuno.
La scuola secondaria superiore doveva essere articolata in istruzione tecnica, liceale e professionale.
L’articolo 14 del disegno di legge parlava esplicitamente di organi collegiali ed era previsto che il consiglio di classe si occupasse del coordinamento delle attività didattiche.
Diciamo che, pur senza stravolgere l’impianto ancora gentiliano del sistema scolastico, la riforma ideata da Guido Gonella conteneva aspetti di un certo interesse, soprattutto per quanto riguarda l’attenzione al tema dell’obbligo scolastico.
In realtà il progetto del parlamentare democristiano non andò mai in porto perché, di fatto, la necessità di affrontare e risolvere i drammatici problemi legati alla ricostruzione post-bellica indusse i Governi a considerare altre priorità.
Proprio nelle fasi finali dell’iter parlamentare del disegno di legge, ci fu però un cambio di Governo: al sesto Governo De Gasperi era subentrato il settimo e in quella occasione Gonella venne sostituito da Antonio Segni che abbandonò il progetto.
E così nel concreto tutto rimase come prima e l’impianto preesistente non venne toccato.

Innanzi tutto il progetto educativo/1

di Donato De Silvestri

Questa rubrica, che avremmo potuto chiamare anche "Essere buoni docenti oggi", non si propone certo di fornire facili ricette e tantomeno una sorta di formula magica, né ha la pretesa di indicare delle piste valide sempre e per tutti. Bettelheim scriveva di un Goog enough parent, un genitore che è stato tradotto in italiano come quasi perfetto, ma che è descritto nel testo come… passabile. È questa passabilità, che ci rassicura e consola, che ci fa capire che è possibile anche ciò che Freud definiva impossibile. In estrema sintesi, Bettelheim ci fa riflettere sul fatto che non esiste un manuale di istruzioni del buon educatore valido comunque e sempre, ma vi sono alcune condizioni indispensabili come la capacità di porsi in una relazione di comprensione empatica, di “imparare ad intuire con il sentimento il senso delle cose e comportarsi di conseguenza” e… molto altro ancora.
La professione del docente comunque, benché abbia subito negli anni un continuo processo di svalorizzazione e sia ben lungi dall’occupare il posto che meriterebbe nell’immaginario collettivo, richiede un considerevole e crescente livello di competenze ed è su questo che vorremmo aprire un dialogo e sollecitare una riflessione. Ci piacerebbe farlo con leggerezza, non perdendo mai di vista i mille problemi che la scuola pone e l’impegno con cui quotidianamente moltissimi docenti li affrontano, accettando sempre nuovi rischi e nuove sfide.
Quindi niente formule magiche, ma tantomeno pressapochismo: il lasciarsi guidare dal fiuto o dal cuore non bastano e possono produrre disastri. Educare ed insegnare non dovrebbe mai essere spontaneismo, lasciarsi trasportare dalla corrente o credere nel fortuito intervento del colpo di genio. I grandi pedagogisti di ogni epoca ci hanno fatto pervenire un insegnamento comune: conoscere, ricercare, apprendere dall’errore, riformulare, ottimizzare, pianificare con accuratezza il proprio intervento.
Eccoci quindi al primo connotato del buon docente: la progettazione dell’azione educativa.
Il concetto di programmazione è ufficialmente entrato nella scuola italiana con il dpr 416/74 e con la legge 517/77. Non vi si spiegava nel dettaglio in cosa consistesse, ma si diceva che doveva essere finalizzata ad “agevolare l'attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione della personalità degli alunni” e poteva comprendere “attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati”. Negli anni successivi la programmazione, conosciuta come programmazione curricolare o per obiettivi, è diventata un obbligo di servizio, contemplato per contratto tra le attività funzionali all’insegnamento.
Mi riferisco qui al modello in assoluto più diffuso, consapevole che ne esistono di vari tipi, tra cui la programmazione per mappe (1), per concetti(2), per padronanze(3), per problemi(4).
Gli insegnanti hanno così imparato che programmare significava attuare questa sequenza di operazioni:

  1. analisi dei bisogni
  2. individuazione degli obiettivi generali e loro suddivisione in sotto-obiettivi in un processo di scomposizione top-down fino all’obiettivo comportamentale
  3. individuazione delle attività, dei metodi, dei tempi e degli strumenti per il raggiungimento degli obiettivi
  4. organizzazione degli ambienti (fase spesso assente o trattata frettolosamente)
  5. verifica dell’acquisizione degli obiettivi ed eventuale ritorno al punto 3, nel caso di esito negativo
  6. valutazione conclusiva.

Con la programmazione si voleva attribuire all’agire didattico una maggiore sistematicità superando i limiti del programma, prescrittivo nei contenuti, ma che lasciava ad ogni singolo docente la libertà di trasmettere le conoscenze come meglio credeva, in nome del principio costituzionale, spesso molto travisato, della libertà di insegnamento. A ciò si aggiunga che il vento di cambiamento degli anni ’70 aveva portato a scuola una certa sregolatezza, con la libera espressione di ogni forma di creatività, dalla valorizzazione del dialetto, a quella della storia dei nonni e dei linguaggi non verbali, fino al rifiuto del voto e c’era anche chi sosteneva che bisognasse descolarizzare definitivamente la società(5). Quindi, c’era l’esigenza di ridefinire, strutturare, monitorare e valutare il far scuola, e ciò doveva passare attraverso l’adozione di più rigorose pratiche di regolazione dell’azione didattica. Fin qui la programmazione, ma perché ora si parla di progettazione? Si tratta sostanzialmente di sinonimi o di cose diverse?
Chiariamo innanzi tutto cosa si intende per progettazione.
Ve ne sono sostanzialmente tre tipi:

  • i modelli lineari-sequenziali o sinottico/razionali
  • i modelli della “progettazione partecipata”
  • i modelli tipo “ricerca-azione” o euristici (da eurisko=ricerco)

Gli approcci del primo tipo ricalcano in linea di massima la programmazione per obiettivi e rispondono ad una logica di lavoro basata su un processo di tipo algoritmico(6): conseguimento intenzionale di mete e risultati preordinati seguendo un percorso prestabilito e rigorosamente strutturato. Una buona metafora per comprendere questo modello è quella del viaggio con il navigatore satellitare. Chi progetta, ossia chi ha elaborato il software, applica delle regole che rispondono a criteri generali e, come tali, non sempre adatte alla specificità del percorso. L’itinerario viene deciso dal navigatore prima di partire e la scelta impone una rigorosa sequenza di tappe: ogni deviazione ed ogni imprevisto vengono sistematicamente ricondotti all’interno di essa. Capita quindi spesso che si riscontrino delle incongruenze rispetto alla segnaletica stradale, o che il programma non tenga conto dell’intensità del traffico, o dell’opportunità di scegliere tratti di strada più lunghi, ma magari più confortevoli e veloci. Viaggiare con il navigatore mette chi è a bordo in una situazione di totale passività, pur se alleviata dall’idea che, prima o poi, si arriverà con certezza a destinazione. Fuor di metafora, nell’approccio lineare-sequenziale l’accento è posto su: identificazione dei punti di partenza e di arrivo, precisazione dei traguardi in termini di mete chiare e precise, sequenzialità dei percorsi, razionalità, intesa come aderenza ai criteri e controllo della coerenza dell’esecuzione rispetto al progetto predefinito. È quello che molte scuole fanno a settembre quando si programmano obiettivi e sotto-obiettivi, metodi, attività, sequenze temporali, ecc.
Il punto di forza di questo modello è la chiarezza dell’articolazione. Le sue debolezze consistono nel fatto che:

  • i bisogni educativi non sempre sono chiari fin dall’inizio e si precisano invece nel corso del progetto
  • un’eccessiva rigidità del percorso rischia di rispondere più ai bisogni di chi progetta che non degli alunni
  • il loro mancato coinvolgimento attivo, anche in fase di progettazione, non stimola l’autonomia, la responsabilità e non favorisce la motivazione intrinseca, che abbiamo visto essere presupposti fondamentali per favorire il successo scolastico.

Il modello della progettazione partecipata si fonda invece sul protagonismo dei soggetti coinvolti. I suoi punti di forza sono:

  • condivisione e partecipazione attiva fin dalla fase della progettazione di tutti coloro che sono portatori di un interesse (stakeholder) rispetto al progetto da realizzare
  • adattabilità sistematica del percorso, dei modi e dei tempi
  • piena valorizzazione delle risorse disponibili
  • assunzione e condivisione di responsabilità.

La debolezza di questo modello sta nella complessità della gestione delle relazioni e nell’investimento di tempo che richiede la negoziazione. C’è quindi il rischio di dispersione e di un dilatamento incontrollato della tempistica. È evidente che se si mettono gli alunni di fronte a decisioni già prese e non si negozia nulla con loro, né con altri portatori di interesse, come le famiglie e altri agenti educativi che operano nello stesso “territorio”, i tempi si velocizzano drasticamente, così come si velocizzano quando al posto di proporre delle esperienze, si fanno delle lezioni. La fretta in educazione non è però quasi mai una buona consigliera.
L’approccio euristico, infine, porta all’estremo il modello partecipativo eliminando ogni ipotesi di direzione e controllo esterni. Se, infatti nel primo si assiste alla ridefinizione continua degli obiettivi, qui si rinuncia definitivamente all’idea di una loro preventiva definizione. È l’antitesi dell’approccio algoritmico: non esiste una regola ottimale per risolvere un problema, ma la soluzione è sempre il frutto di un lavoro di confutazione svolto qui ed ora.

(continua)

*****
(1) Novak J.D., Gowin D.B., Learning how to learn, Cambridge University Press, New York, 1984; trad.it: Imparando a imparare, SEI, Torino 1989.
Specchia A., Lavorare per mappe e schemi. Un percorso di economia mentale, Juvenilia, Bergamo, 1999.
(2) Damiano E., Guida alla didattica per concetti, Juvenilia, Bergamo, 1999.
(3) Toniolo D., La didattica per competenze/padronanze: lo sviluppo metacognitivo delle capacità condizionali: la forza in Formazione & Insegnamento XIV-3, 2016.
(4) Fly Jones B., Didattica per problemi reali, rendere significativi gli apprendimenti, Erickson, Trento, 2002.
(5) Illich I., Descolarizzazione della società, Feltrinelli, Milano, 1972.
(6) Il termine algoritmo deriva dalla latinizzazione del nome di un grande matematico arabo Muhammed Ibn Muza Al Kuvaritzmi (Algorismus) e indica una sequenza lineare e finita di passi finalizzata alla risoluzione di un problema.

Liceo per il teatro e il cinema

di Stefano De Marchi

Cinque anni fa, alla scuola media dell’Istituto Canossiano Madonna del Grappa di Treviso due insegnanti, visto la fortuna delle attività teatrali della scuola media, dicono: “e perché non apriamo un liceo teatrale?” E io dico: bella idea! Dopo un anno, nell’anno scolastico 2018-19, nasce la prima classe del liceo delle scienze umane – Teatro e Cinema con 24 alunni. Oggi siamo al quinto anno, con una classe all’anno da 25, una lista d’attesa, ma soprattutto con grandissime soddisfazioni umane, personali, cognitive e teatrali. Ma facciamo un passo indietro.
Da molti anni la scuola media organizza le “attività integrative”, ovvero attività diverse che si concentrano in una settimana di febbraio con l’obiettivo di valorizzare quei talenti, a volte nascosti, che non emergono nella scuola di tutti giorni. Per una settimana all’anno la scuola smette di far lezione in modo tradizionale e lavora per classi aperte. Le prime si dedicano al lavoro laboratoriale/artigianale, le seconde alla relazione con l’altro con progetti per l’inclusione e contro i pregiudizi, le terze al musical. Queste ultime in una settimana mettono in scena un’opera teatrale creata ad hoc dalle insegnanti, con tanto di scenografia, coreografia, costumi e musiche. Le attività della settimana vengono cambiate ogni anno in base agli interessi e all’attualità e hanno una valutazione. Le attività integrative hanno il loro successo, piacciono e raggiungono l’obiettivo, l’espressione dei talenti.
Dopo un numero di anni ci accorgiamo che i ragazzi riescono bene in queste attività, si esprimono in maniera diversa, vengono fuori con caratteri e qualità mai espresse nelle normali attività della scuola e da quando abbiamo cominciato, il caso vuole che i risultati Invalsi siano migliorati. E allora decidiamo di continuare a investire su queste attività creando un percorso permanente di due ore settimanali chiamato Cr.Es.Co: Crescere, Esprimere, Condividere, ma questa è un’altra storia.
Le scuole superiori invece non se la stanno passando tanto bene: c’è un indirizzo liceale, scientifico, che fatica a fare una classe ogni anno, nonostante la qualità degli insegnanti e le svariate attività di supporto ai ragazzi. E allora arriva la proposta delle responsabili del progetto teatro di 3^ media, le professoresse Maria Giovanna Ferrero e Francesca Pavan: “perché non facciamo un teatrale?” Quindi ci mettiamo a pensarlo partendo dalle Indicazioni Ministeriali, alla ricerca di appigli, possibilità, basi da cui partire. E sorprendentemente ne troviamo molti. Dalle Indicazioni Ministeriali leggiamo che:

  • il Ministero della Pubblica Istruzione, facendo seguito alle previsioni contenute nella legge 13 luglio 2015 n. 107, la cosiddetta Buona Scuola, ha inviato alle scuole di ogni ordine e grado le indicazioni strategiche per l’utilizzo delle attività teatrali nella didattica. Il comma 181 di tale legge introduce la promozione, la diffusione, la valorizzazione della produzione teatrale e cinematografica attraverso l’accesso alla formazione artistica mediante il potenziamento di varie attività teatrali programmate ed inserite nel curricolo
  • le indicazioni strategiche per l’utilizzo delle attività teatrali intendono fornire macro indicazioni in termini di strategie metodologiche e di valori educativi in relazione all’introduzione delle attività teatrali nell’ambito delle attività didattiche
  • esaltare la trasversalità disciplinare e favorire una progettazione di percorsi che pone al centro del processo di apprendimento l’allievo ovverosia il suo talento, il suo pensiero, le sue emozioni. In sintesi: la sua individualità. Inoltre, ci si aspetta che le esperienze artistiche, condotte in modo mirato ai bisogni degli allievi, favoriscano lo sviluppo della loro personalità e contribuiscano alla soluzione o contenimento o prevenzione di conflitti personali e di gruppo
  • in tale ottica, le arti dello spettacolo, data la loro rilevanza pedagogica, sono intese in una funzione didattico-educativa. L’attività teatrale abbandona definitivamente il carattere di offerta extracurricolare aggiuntiva e si eleva a scelta didattica complementare, finalizzata a degli obiettivi curriculari. Il valore didattico, pedagogico ed educativo consiste e contribuisce a mettere in atto un processo di apprendimento che coniuga intelletto ed emozione, ragione e sentimento, pensiero logico e pensiero simbolico
  • la didattica teatrale intesa come forma interattiva di linguaggi diversi – verbale, non verbale, mimico, gestuale, iconico, musicale – si configura dunque come prezioso strumento formativo, multidisciplinare e interdisciplinare, insostituibile come strumento di attivazione emotiva, dinamico-relazionale, culturale.

Trovate le basi normative, dovevamo scegliere il percorso. All’inizio pensammo a un linguistico teatrale, il linguistico era un percorso che tirava molto in quegli anni, idea che fu abbandonata quasi subito. Il liceo delle scienze umane invece non era un percorso molto presente nel territorio – a dire il vero non aveva molto seguito – però si collegava bene con le caratteristiche di quello che volevamo fare, conoscenza ed espressione di sé, sia dal punto di vista teorico che pratico, e non meno, le scienze umane erano nelle corde della scuola, fin dalla sua fondazione, nel 1843, un istituto magistrale.
Le caratteristiche del liceo delle scienze umane infatti, in particolar modo la costruzione dell’identità personale e delle relazioni umane e sociali, ben si accorda con l’esperienza teatrale-cinematografica. Il liceo non ha come obiettivo primario il prodotto estetico e l’intrattenimento, ma la crescita equilibrata della persona. La cultura teatrale-cinematografica non dev’essere considerata fine a sé stessa: persegue infatti uno scopo di formazione umana e di orientamento, supporta la persona nella presa di coscienza della propria individualità e nell’espressione delle proprie potenzialità. Il teatro, in questo senso, diventa un utile strumento e un possibile luogo di sperimentazione di sé che ha come risultato la sublimazione e l’espressione delle proprie emozioni, il superamento della timidezza e dell’ansia da prestazione, e il potenziamento dell’autostima.
A ottobre del 2017-18 un gruppo di docenti interessati, le responsabili del progetto teatro di 3^ media e il sottoscritto chiedemmo la collaborazione di esperti del teatro del territorio – Davide Stefanato, attore, sceneggiatore, cabarettista e Federico Pupo, allora direttore artistico del Teatro Comunale di Treviso – e ci mettemmo a confronto per la costruzione del percorso. Ovviamente dovevamo rispettare le Indicazioni Nazionali utilizzando le quote dell’autonomia.
Come si può vedere dal piano di studi di seguito riportato, l’autonomia è stata utilizzata aggiungendo un’ora di Italiano e togliendo un’ora di Latino al biennio, aggiungendo un’ora di Musica e quattro ore di Teoria e tecnica della comunicazione, discipline dell’allegato H della normativa sull’autonomia. Ove possibile, tutte le materie hanno una curvatura teatrale, sono trattate con una peculiare attenzione al linguaggio estetico della rappresentazione, nella sua evoluzione storica e nell’espressione individuale.

È previsto un rientro pomeridiano nel biennio e due rientri nel triennio. La settimana è di 5 giorni, come per il resto della scuola.
Il percorso è integrato da uscite a teatro e cinema d’essai della zona, ad esempio al teatro Mario Del Monaco a al Cinema Edera di Treviso, e soprattutto dalle attività residenziali. Le attività residenziali sono il fiore all’occhiello della scuola, anche negli indirizzi scientifico scienze applicate e sportivo. Sono uscite della durata di 2, 3 o 4 giorni – a seconda dell’obiettivo e dell’anno di corso – in luoghi di particolare importanza dal punto di vista teatrale-cinematografico. Lo scorso anno a settembre, ad esempio, la prima e la seconda liceo sono andate 2 giorni a Vicenza per una visita guidata al teatro Olimpico e a Verona per una visita esperienziale per la città con spettacolo a cura del Teatro Nuovo, la visita all’Arena di Verona e un percorso musicale alla scoperta di Verona. La terza e la quarta liceo sono state al Centro Culturale Gustav Mahler di Dobbiaco (BZ) per una Masterclass con Cristina Chinaglia ed Eleonora Panizzo. Nelle attività di aprile invece, per 4 giorni, il biennio si è recato a Roma a visitare Cinecittà e a partecipare a due laboratori didattici, assistere a un Opera-musical al Teatro Brancaccio, a una lezione-concerto di musica a cappella in un liceo cittadino, a uno spettacolo all’auditorium della Conciliazione, e a una lezione-dimostrazione di un turno di doppiaggio. Il secondo biennio invece si è recato a Milano a visitare La Scala, ad assistere al Re Lear e a una lezione al Piccolo Teatro, a partecipare a un workshop di cinema e di teatro presso l’accademia Mohole, e a vedere uno spettacolo di cabaret a Zelig.
Alla fine dell’anno tutte le forze confluiscono nella produzione di uno spettacolo teatrale. La sceneggiatura, la scenografia, le coreografie, i costumi, il trucco e la consolle sono curate dai ragazzi con il supporto degli insegnanti. Lo scorso anno sono state messe in scena “Le nuvole… forse… in teatro, dove ragione e sentimenti si uniscono, e menzogna e verità si interfacciano” – espressione di tutte le attività teatrali svolte in prima liceo; The Writer(s) – un giallo autoprodotto dalla seconda liceo; Fahrenheit 451 – adattamento scenico del romanzo di Ray Bradbury a cura della terza liceo, e Vita di Galileo – adattamento dell’opera teatrale di Bertolt Brecht, a cura della quarta liceo.
Come ogni anno, si è proceduto a un’attenta revisione del percorso: tra gli aspetti da migliorare, la necessità di una figura di coordinamento, specie per gli spettacoli, l’organizzazione e il budget, la necessità di una programmazione interdisciplinare annuale per aree tematiche, con laboratori e spettacoli finali integrati. Allo stesso tempo abbiamo cercato di fare il punto su quali obiettivi educativi, abilità e competenze sono state raggiunte. Oltre all’alta motivazione, all’entusiasmo e all’interesse che un tal percorso induce e all’importanza del teatro in un periodo così difficile, di seguito forniamo, a titolo di esempio, alcuni obiettivi raggiunti – certuni impensati all’inizio del percorso:

  • la formazione della persona e la maturazione personale
  • la sensibilità, la profondità e l’inclusività
  • la possibilità e la libertà di espressione
  • la scoperta della propria originalità
  • la capacità di progettazione
  • la creatività
  • il problem solving
  • il saper lavorare in gruppo
  • l’utilizzo di didattiche alternative partecipative, l’individualizzazione dell’insegnamento.
Scelta per noi da Leonarda Tola

Perché scrivere (leggere) oggi un libro su Don Lorenzo Milani? Che cosa aggiungere a quanto si è scritto e letto sul priore della scuola di Barbiana e della sua esperienza di sacerdote profeta ed educatore dei ragazzi di Lettera a una professoressa? La domanda è da fare ad Eraldo Affinati, autore del libro L’uomo del futuro. Sulle strade di Don Lorenzo Milani (Mondadori, 2016) da cui è tratta la pagina che riportiamo. La spiegazione è il fascino esercitato dal priore del Mugello: attrazione per il mistero che rappresenta l’avventura umana di Lorenzo Milani (1923-1967) nato aristocratico e divenuto maestro votato al riscatto degli scartati da una società ingiusta di non uguali che produce una scuola selettiva. Il tema è di quelli che non tramontano. “I poveri li avrete sempre con voi”. Fare del proprio universo etico e politico sostanza di vita e di testimonianza sta nelle corde di Eraldo Affinati. È nota l’attività delle scuole Penny Wirton per l’insegnamento gratuito dell’italiano agli immigrati da lui fondate insieme con la moglie Anna Luce Lenzi e diffuse in Italia: l’impegno educativo verso i ragazzi di Barbiana di oggi che si chiamano, diversamente da quelli, Alì e Tomar ma con lo stesso vitale bisogno: essere accolti, guardati e ascoltati, istruiti alla comprensione e all’uso della lingua del luogo in cui sono stati catapultati, avviati alla conoscenza delle parole che servono per mangiare e bere, capire e comunicare.
"L’eredità di don Milani non è un metodo di insegnamento", dice Affinati; è riviverne lo spirito che è vicinanza concreta e solidale a chi ha diritto ad essere instradato e messo in grado di alzarsi e camminare da solo: innanzitutto i più giovani. Sulle strade aperte da don Milani sono, e sempre saranno, tutte le scuole per i diseredati, i senza eredità del mondo; anche quando del priore si ignora pure il nome. Eraldo Affinati è andato in luoghi diversi e lontani, a cercare, se mai e dove nel mondo ci fossero altre scuole e altri maestri di Barbiana. Li ha trovati nei villaggi senz’acqua né elettricità e tra i poveri, in Gambia, a Pechino, a Hiroshima, angoli di mondo illuminati dove ancora si incontra chi accende il fuoco della speranza di futuro. Regalandoci un avvincente racconto che educa. Il buon seme gettato fiorisce dove vuole.

Accendere il fuoco

di Eraldo Affinati

Gambia, 2012

I maschi indossano pantaloncini corti della Diadora e magliette del Barcellona. Appena mi vedono restano ipnotizzati di fronte alla mia pelle bianca. Le femmine hanno vesti multicolori; i doppi orecchini che esibiscono sul lobo e sui padiglioni auricolari le fanno assomigliare a bamboline. Vado oltre gli ultimi banchi e gli allievi mi seguono con lo sguardo torcendo il busto. Appena il maestro li richiama, si rimettono in posizione.
Vista da dietro, la scolaresca torna a essere una schiera di nuche rivolta in direzione della lavagna. Deludere le loro aspettative, sprecare i talenti di cui dispongono, inaridire le fonti del sapere che questi bambini rappresentano, sarebbe peccato mortale. Stanno seduti ai banchi mezzi scassati ma pochi hanno penne o matite per scrivere. Recitano se stessi in bella copia: ciò che dovrebbero essere, se tutto andasse per il verso giusto.
L’aula è un grande ambiente con il pavimento in terra battuta, una vetrata ai lati, le sedie rosse e blu distribuite intorno ai tavoli, a metà fra sala da ballo, garage e ripostiglio. Dalla porta d’ingresso sbuca una mucca, incerta sul da farsi. Il bambino con la scritta “Torres” disegnata sulla maglietta corre subito a scacciarla via. Batte sulla groppa, grida e strepita finché l’animale retrocede e lui riprende il suo posto dietro al banco.
Sono arrivato stanchissimo perché anche stanotte abbiamo dormito fuori sulla brandina per il caldo. Ogni tanto mi svegliavo, le stelle parevano cadermi addosso: una griglia luminosa degna di miglior causa, avrei potuto dire, pensando alla povertà del villaggio in cui mi trovavo, ma la natura è cieca, non conosce distinzioni sociali. Lo splendore del cielo africano dispensa le sue meraviglie a chiunque. Io mi sentivo un intruso: ladro di una bellezza che non meritavo.
Il maestro distribuisce il manuale di lingua inglese. Gli scolari lo fissano attenti, pronti a rispondere alle domande che fra poco farà. Diversi sfogliano il quaderno cercando la pagina dove prendere appunti. È un gioco di teste in movimento. Una macchina di nervi in tensione. La squadra delle prodezze. In un cartello attaccato alla parete c’è l’elenco degli iscritti, le materie, l’orario dei docenti. In un altro si leggono alcune avvertenze sulle norme igieniche da osservare. Prima dell’entrata, in un bugigattolo pieno di carte, arnesi da lavoro e fogli sparsi, ho visto l’ufficio del preside.
È una delle tante scuole disperse ai margini della foresta, di qua dal fiume che irriga il più piccolo Paese africano, inserito come una spada dentro il fodero del Senegal. I maestri vivono con le loro famiglie nelle stesse capanne di paglia e argilla dove abitano tutti. Arrivano da Banjul, la capitale, o da Dakar, retribuiti dai governi locali, oppure, nel migliore dei casi, da fondazioni europee. Bastano pochi dollari per farli partire. Quello che ho conosciuto io si chiama Alì, è un ragazzo alto, snello, snodato. Assomiglia a Barak Obama da giovane. Potrebbe essere un pugile, o un corridore.
Mangio seduto accanto a lui raschiando il riso con le mani dentro la grande ciotola posta a terra, insieme alla moglie col figlio ancora in fasce. Saranno le sei del pomeriggio: l’ora della cena perché poi la luce d’improvviso scompare e ogni azione diventa più difficile. Manca l’elettricità. I pannelli solari della Comunità Europea funzionano poco. Non c’è l’acqua corrente. L’economia del villaggio dipende dai pozzi, distanti mezzo chilometro dalle prime abitazioni. Bisogna caricare le damigiane sul carretto trainato dagli asini e fare la spola dalla mattina alla sera per soddisfare le varie necessità. Con questi recipienti di plastica, che a noi servono per trasportare il vino o il carburante, qui ci si lava, si mangia, si fa tutto.
Il maestro cerca di parlare inglese coi suoi allievi. Conosce anche l’idioma locale, il polar: si legge “pular” ed è bello sentirlo declamare dai più piccoli che per farlo aprono la bocca come se dovessero formare una bolla di sapone.
Alì insegna i verbi, i nomi, costruisce le frasi, detta e corregge. Resterà a Sare Gubu un anno intero. La mattina sta a scuola. Il pomeriggio va a trovare i suoi studenti per controllare se fanno gli esercizi. S’intrattiene coi familiari. Prega nella moschea. Offre consigli. Se c’è da scrivere un documento ufficiale, l’imam si rivolge a lui. È un ingranaggio essenziale nella vita della comunità, senza rivestire alcuna carica politica o religiosa.
I bambini nati nelle capanne ai margini del deserto dovranno percorrere una strada molto più lunga rispetto a quella della maggior parte dei loro coetanei che abitano in altre zone del mondo. Sono destinati a raggiungere traguardi intermedi, appesantiti da un ritardo cronico. Imparare a leggere e scrivere sarebbe già tanto. Non pochi apprezzano i campionati di calcio che si svolgono nel Vecchio Continente. Guardano le partite della Premier League, della Bundesliga o delle Serie A dai televisori satellitari montati alla bell’e meglio nei cortili dove la notte vengono ammassate le capre e sperano di poter diventare un giorno Samuel Eto’o, Drogba, Balotelli, chissà come, chissà quando.
Osservo il neonato attaccato al seno della moglie di Alì: forse lui ce la farà a lasciarsi dietro la miseria, perché è il figlio del maestro. Un privilegiato. La donna potrebbe essere una mia allieva di seconda superiore. Si alza per prendere qualcosa e, con gesto naturale, senza nemmeno guardarmi, mi mette il piccolo in braccio.
È un batuffolo d’umanità spumeggiante, un groviglio di cartilagini in formazione, il nucleo germinale del tempo, non soltanto suo, anche mio, di tutti noi. Attraverso di lui ripartiamo, ci rimettiamo in moto. Avanti, ragazzi! Accarezzando il cranio lucido come una palla da biliardo di questo individuo della mia specie, ho l’impressione di toccare la matrice dell’insegnamento, il suo senso più compiuto e profondo: consegnare il testimone. Rinnovare la tradizione. Accendere il fuoco. Baciare il futuro. Accettare la morte. Alì mi sorride mentre le ombre tropicali implacabili già ci sommergono, come se avesse intuito ciò che penso.

Tratto da: Eraldo Affinati, L’uomo del futuro. Sulle strade di Don Lorenzo Milani, Mondadori, 2016

Permalosità

di Gianni Gasparini

La permalosità rappresenta un tratto personale raramente dichiarato da chi ne sia affetto e difficilmente oggetto di riflessioni, malgrado si tratti di un elemento frequentemente riscontrabile nei comportamenti relazionali. Il linguista Raffaele Simone, tra i pochissimi ad averne sottolineato l’importanza in una società come la nostra, notava che si tratta di una passione che si coltiva per un eccesso di egocentrismo e che produce una grande dissipazione di energie (La mente al punto, Laterza 2002).
È interessante osservare che il termine italiano permaloso, già di per sé rivelatore, non sembra avere riscontro in altre lingue europee. Francesi e spagnoli assimilano permaloso a suscettibile (susceptible nelle due lingue), quantunque i secondi usino anche il termine quisquilioso, riferendosi a chi se la prende per minuzie; mentre gli inglesi rendono permaloso con l’aggettivo touchy, che allude a chi è irritabile e si lascia “toccare”.
L’italiano, che pure dispone di parecchi sinonimi di permaloso – come, oltre a suscettibile, irritabile, bizzoso, scontroso, ombroso e altri –, con questo termine mette al centro il punto-chiave del fenomeno, vale a dire l’aversela a male per una parola o un gesto altrui, in un modo o in una forma che si può considerare oggettivamente eccessiva, indebita. La permalosità è spesso l’esito di una preconcetta mancanza di fiducia in un altri, di un pregiudizio negativo a cui corrisponde una valutazione esagerata dei propri meriti o attributi: ne risulta che il permaloso può essere anche un invidioso.
Se fosse possibile, sarebbe interessante creare per opposizione il neologismo perbenoso, che non corrisponderebbe semplicemente alla persona bonaria o amabile ma a chi coltiva e pratica un atteggiamento pregiudiziale di fiducia nel prossimo, a chi pensa che gli altri non siano lì in primo luogo per attaccarlo e non valgano meno di lui.
Oltre alla fiducia, un antidoto efficace alla permalosità può essere l’ironia, in particolare l’autoironia e la capacità di sorridere dei propri limiti e difetti: chi sa sorridere sdrammatizza le tensioni e i castelli in aria che al suo posto avrebbe costruito un permaloso.
Ad ogni buon conto, le conseguenze della permalosità non sono banali: se un individuo ritiene che altri vogliano fargli del male, la sua reazione prevedibile sarà l’aggressività, messa in atto – come notava Simone – anche anticipatamente e in modo tale da suscitare controreazioni. Se poi chi è affetto da permalosità (unita magari a dosi rilevanti all’invidia) occupa posizioni o ruoli rilevanti a livello politico o governativo, ne può derivare al limite una crisi di governo, dovuta appunto al venir meno della fiducia espressa da un partito o da un gruppo politico a livello istituzionale.
Ovviamente, ogni riferimento alla crisi governativa italiana del luglio 2022 è puramente casuale.

A cura dell'Ufficio Sindacale CISL Scuola

Contratto sulle risorse del Fondo MOF per l’anno scolastico 2022/23
Appuntamento importantissimo, un accordo da concludere al più presto perché le scuole conoscano le risorse su cui far conto nel programmare e organizzare le proprie attività anche per quanto riguarda l’ampliamento dell’offerta formativa).
L’ultima legge di bilancio, nonostante la nostra richiesta di nuovi fondi finalizzati al rinnovo contrattuale, si è limitata a riservare al personale docente e ATA risorse destinate al trattamento accessorio (89,4 milioni per i docenti e 14,8 milioni per gli ATA). Ha provveduto inoltre a rifinanziare con ulteriori 270 milioni il fondo per la valorizzazione della professione docente, istituito con la L. 205/2017. La legge di conversione del D.L. 36/2022 ha però impegnato:
- 12,5 milioni per la sostituzione degli insegnanti esonerati (o semi-esonerati) per la collaborazione con il D.S. nelle scuole affidate in reggenza;
- 30 milioni per retribuire la continuità didattica dei docenti.
La CISL Scuola, nel corso del primo incontro di negoziazione, ha richiesto che tutti i fondi disponibili e derivanti dai finanziamenti di cui sopra vengano destinati al rinnovo contrattuale, unitamente ad altre indispensabili risorse.

Ripresa delle trattativa all'ARAN per il rinnovo CCNL
Quanto prima dovrebbe riprendere il confrontocon l'ARAN per il rinnovo del contratto collettivo nazionale. La CISL Scuola, come già detto, rivendica ulteriori finanziamenti perché il nuovo contratto possa ridurre in modo significativo il divario con gli stipendi degli altri comparti pubblici, con un avvicinamento alla media europea delle retribuzioni.
Molti altri sono i temi del negoziato, dal superamento dei vincoli alla mobilità, agli incentivi alla continuità didattica, ai nuovi ordinamenti professionali per l’area ATA alla valorizzazione del ruolo del DSGA. Sul nostro sito sarà possibile essere aggiornati tempestivamente sugli sviluppi della trattativa.

Avvio del nuovo anno (assunzioni, supplenze, prime riunioni, ….)
Il mese di settembre, così come è stato in quello precedente, ci vedrà ancora impegnati nel confronto, a tutti i livelli dell’Amministrazione, sulle consuete operazioni di gestione del personale il cui impatto sull’avvio dell’anno scolastico è particolarmente rilevante.
Se le strutture territoriali e regionali saranno direttamente investite dalla domanda di assistenza e consulenza che come sempre in questi frangenti è pressante, a livello nazionale sarà importante acquisire tutti i dati necessari per un quadro di riepilogo completo ed esaustivo, in primo luogo sulle assunzioni in ruolo, ancora una volta ben lontane dal saturare i contingenti di nomina autorizzati.

Giornata nazionale RSU e delegati
In programma il 7 settembre l’ormai tradizionale appuntamento della giornata nazionale RSU e Delegati CISL Scuola, giunta alla settima edizione. La programmazione e gestione delle iniziative sarà come negli anni scorsi a cura delle strutture territoriali e regionali.

I NOSTRI AUTORI

Paolo Acanfora, docente di Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma.

Eraldo Affinati, scrittore, insegnante, editorialista. Fondatore con la moglie Anna Luce Lenzi delle scuole Penny Wirton.

Stefano De Marchi, dirigente scolastico. Con Alberto Felice De Toni ha scritto Scuole auto-organizzate. Verso ambienti di apprendimento innovativi, Rizzoli Education 2018.

Donato De Silvestri, professore a contratto di Progettazione e documentazione del lavoro socio-educativo presso l’Università di Verona. Ha pubblicato: Didattica. Essere buoni docenti oggi, Tecnodid 2020.

Gi(ov)anni Gasparini, sociologo e scrittore. È autore di scritti di sociologia, poesia, critica letteraria, teatro, spiritualità, natura.

Lorenzo Gobbi, docente di liceo e scrittore. Il suo ultimo libro è Nicodemo a San Pietroburgo, Mimesis 2021.

Raffaele Mantegazza, pedagogista, educatore, saggista e narratore. Docente universitario. Uno dei suoi ultimi libri: La scuola dopo il coronavirus, Castelvecchi 2020.

Reginaldo Palermo, già maestro e dirigente scolastico, giornalista pubblicista, ha collaborato con riviste di pedagogia e didattica. Attualmente è vicedirettore di La Tecnica della Scuola.

Emidio Pichelan, insegnante e sindacalista della Cisl. Formatore del Centro Studi Cisl. Ha fatto parte del CdA del Cede e del Cedefop a Berlino.

Leonarda Tola, studi classici. È stata insegnante e dirigente scolastico, è giornalista pubblicista. Collabora da tempo con la nostra rivista Scuola e Formazione.