Febbraio 2022

In questa pagina:
Pensieri a voce alta: Lezioni di stile (Maddalena Gissi)
La parola di questo mese: Attenzione (Emidio Pichelan)
Identità CISL: "Costruire tutto dal nuovo" (Francesco Lauria)
La scuola è viva. W la scuola: Come i presbiti. La distanza e la presenza (Luna Renda)
Hombre vertical: Una pagina di diario (Emidio Pichelan)
Storia contemporanea: Il fascismo: democrazia e antidemocrazia (Paolo Acanfora)
Un autore: Sempre raccontare (Leonarda Tola)
Autobiografie scolastiche: Amadou Hampâté Bâ (Mario Bertin)
Zibaldone minimo: Concentrazione (Gianni Gasparini)
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PENSIERI A VOCE ALTA

Lezioni di stile

di Maddalena Gissi

Quando una persona è molto brava, e sa di esserlo, può tendere a diventare presuntuosa. Atteggiamento che infastidisce, ma non intacca la bravura, sempre apprezzabile. Se questa non c'è, e prevale piuttosto una punta di ignoranza, la presunzione diventa un  esito quasi scontato: come componenti di una miscela esplosiva, ignoranza e arroganza si alimentano a vicenda e danno vita a un’interminabile reazione a catena che le fa crescere entrambe, in modo esponenziale.
A stimolare questa riflessione è la lettura di molti commenti postati sui social sin da quando si è profilata la possibile conclusione, poi positivamente avvenuta, del negoziato sul rinnovo del contratto sulla mobilità, argomento che fa solo da spunto per queste note e a proposito del quale, per informazioni e approfondimenti di merito, rimando alla documentazione reperibile in abbondanza sul nostro sito. In quel momento, e prima ancora di conoscere il testo sottoscritto, leoni e leonesse da tastiera si sono scatenati con una serie di invettive fra le quali, al netto degli insulti cui è impossibile e inutile rispondere, ne scelgo alcune in qualche modo emblematiche del mix sopra descritto.
Dopo avermi definito “la prima donna che di mobilità non capisce nulla”, tale M.S. spiega il motivo per cui, a suo avviso, non bisognava firmare l’accordo: “Senza la firma dei sindacati, il ministero era bloccato”. Qualcuno le spieghi che senza contratto il Ministero può andare avanti da solo con atti unilaterali, visto che non si può certo paralizzare l'attività di un'Amministrazione.
Fanno finta di togliere il vincolo ai pochi neoimmessi [circa 70.000, faccio osservare] e mettono un vincolo triennale per tutti”. Come se il vincolo triennale l’avesse introdotto oggi il contratto, e non precise norme di legge nel 2019.
Del resto, la premessa implicita a molti ragionamenti è quella che L.C. esplicita nel proprio commento: “Sta Gissi è contenta di aver raggiunto sto risultato? Quale, che resta il vincolo?... Noi docenti dovremmo cancellarci da ogni sigla sindacale solo così si cominceranno ad accorgersi di noi”. Sorvolando sulla forma, che non mi pare ineccepibile: ma ci si aspettava forse che il contratto (un contratto integrativo, per giunta) abrogasse una norma di legge? Davvero si crede che potesse farlo? Ci abbiamo provato in ogni modo a cambiarla, la norma sul vincolo triennale, chiedendo a chi avrebbe potuto e dovuto provvedere, cioè a forze politiche e gruppi parlamentari, di inserire in legge di bilancio un emendamento che rimuovesse o modificasse quelle disposizioni (introdotte dalla legge 107 nel 2015 e poi solo parzialmente attenuate). La nostra richiesta non ha trovato ascolto, e il vincolo triennale continua dunque a essere prescritto da norme di legge con cui è stato inevitabile fare i conti.
Il merito di questo contratto, a ben vedere, è proprio questo: aver individuato una soluzione che, senza incappare in violazioni della legge, consente a 70.000 persone di fare domanda di trasferimento. Ma G.B. la pensa diversamente, e ci invia un polemico “grazie per la firma di un contratto che inserirà il vincolo triennale per tutti”. Ovviamente senza aver nemmeno letto il testo, non ancora diffuso nel momento in cui scriveva. Come tutti gli altri, del resto.
Ma è davvero troppo pretendere che chi frequenta i social lo faccia documentandosi almeno un poco? e ponendo le sue argomentazioni con tono di dialogo pacato e civile? Spiace e preoccupa che la comunicazione su strumenti formidabili per l’immediatezza di relazione che consentono sia così fortemente piegata sui canoni di sguaiatezza, se non di violenza verbale, che dilagano in un dibattito pubblico tendente sempre più spesso a trasformarsi in rissa.
Credo che come sindacati dovremmo fare tutti un po’ di più per non assecondare la deriva verso quello che considero un vero e proprio malcostume democratico: per questo spiace dover constatare che ad approssimazioni così grossolane diano troppo spazio anche i commenti di alcune delle sigle sindacali non firmatarie del contratto.
Mi consola la convinzione che questa valanga di commenti ostili e talvolta offensivi esprima tuttavia una realtà molto meno estesa di quanto possa apparire per il clamore che produce. Tale L.F., con una punta di sconcerto, si chiede cosa pensino della nostra scelta “gli iscritti alla CISL Scuola, che sono anche tanti”. Ecco. Le consiglierei di partire da quest’ultima, per una volta giusta, constatazione.

La concomitanza dei tempi fa sì che questi pensieri vengano scritti solo poche ore dopo l’avvenuta ri-elezione di Sergio Mattarella alla carica di Presidente della Repubblica. Avrei molto da dire su quanto sia stato prezioso il servizio che nel precedente settennato il nostro Presidente ha reso all’Italia, offrendo una testimonianza straordinaria di saggezza, equilibrio, intelligenza e autorevolezza in una delle fasi più turbolente della nostra vita politica e da ultimo ponendosi come punto di riferimento e di orientamento essenziale nella durissima prova che il Paese ha dovuto affrontare con l’esplodere della pandemia. Incessante il suo richiamo al dovere della responsabilità e della coesione in difesa del bene comune.
Che si possa continuare a far conto su una risorsa così preziosa, non essendo purtroppo ancora conclusa quell’emergenza (sanitaria, economica, sociale) cui ha fatto cenno lo stesso Presidente accogliendo la comunicazione della sua elezione, è certo un dato rassicurante.
Ma io del Presidente Mattarella vorrei qui ricordare la lezione che tutti dovremmo trarre dal suo modo di proporsi in ogni circostanza, con uno stile nel quale al rigore si accompagnano pacatezza, eleganza, affabilità, tolleranza. L’esatto opposto della volgarità che pervade una politica urlata e rissosa, dove molti si illudono che basti alzare il volume della voce per compensare il vuoto delle idee.
Grazie dunque, Presidente Mattarella, anche per questa sua preziosa lezione di stile: non solo la politica, ma più in generale la nostra comunità ne ha oggi davvero tanto bisogno.

LA PAROLA DI QUESTO MESE

Attenzione

di Emidio Pichelan

Le esigenze del savoir-vivre cosmico

I tempi burrascosi impediscono di prendere il mondo “solo per uso personale” e pongono a tutti l’esigenza di un surplus di attenzione: sul significato di scuola democratica, sullo stato di salute della vecchia (stanca?) democrazia, sull’essenza dell’essere insegnante.

Attenzione 1: al centro del sistema
Era una scuola povera, senz’anima, la Piccinini, estrema periferia di Roma, in mezzo al nulla; alla maestra capitava di perdere la pazienza con quella quinta elementare di ragazzine figlie di operai. Grigia la vita familiare, “tristi e maldisposte” le piccole studentesse. Fino a quando non si aggregava un maestro ausiliario: “un uomo minuto, un po’ timido. Non alzava la voce e sorrideva spesso. Eppure era inflessibile”. Si chiamava Gianni Rodari, il mago della fantasia, delle parole incantate e di un mondo colorato. “In poco tempo tutto fu rivoluzionato. Cambiò l’aula, cambiò l’atmosfera e cambiammo noi”.
Donatella Di Cesare, filosofa accademica molto esposta nelle tematiche di attualità, ha scritto tre commoventi pagine in ricordo del suo incontro con un maestro eccezionale, Gianni Rodari (D. Di Cesare, Grazie, maestro Gianni Rodari, “L’Espresso”, 5 gennaio 2020). Le ragazzine “tristi e maldisposte” diventavano protagoniste, il tempo, pieno, le ore passavano velocemente. Alla piccola Donatella venivano affidati i ruoli di “postina” e di “occhio del mondo”: smistava le lettere delle compagne, indirizzate alle altre o ai maestri, e ritagliava e incollava sul cartellone le notizie per la “mezz’ora di discussione delle notizie”. Il giornale non si accontentavano di leggerlo: si lanciavano nell’impresa di scrivere quello di classe, iniziando con una intervista agli operai di una fabbrica.
Esternamente nulla cambiava in quella scuola di periferia; bastava l’arrivo di un maestro sorridente, fantasiosi, entusiasta e tutto letteralmente si capovolgeva. Una lezione di vita e di professione. “Dal mio maestro”, conclude Donatella, “ho imparato, nei miei limiti, la necessità dell’utopia, il valore della resistenza e della rivolta, l’impegno di cambiare il mondo”.
Siamo nel 1965, una decina d’anni dopo, nel mio paesello della bassa padovana, sperimentavamo anche noi una scuola diversa: nella quale i ragazzi stessero bene e diventassero protagonisti del loro percorso formativo. Tra qualche allarmismo di troppo da parte dei benpensanti; succedeva e succede troppo spesso che gli insegnanti eterodossi perché entusiasti, creativi, fantasiosi, capaci di conquistare gli occhi e i cuori degli alunni non piacciano troppo ai patiti di burocrazia, di programmi, della dignità della cattedra. “Ma pensate di fare scuola con la bicicletta?”, si domandavano costernati i genitori e i cittadini benpensanti del mio paesello al vedere una classe partire, nello zainetto il pranzo al sacco e i quaderni per gli appunti, alla volta delle vicine “corti benedettine”.
Siamo stati fortunati allora, la sperimentazione didattica e organizzativa era prevista nell’ordinamento scolastico (E. Pichelan, Scusate il disturbo, stiamo imparando. La sperimentazione di integrazione scolastica Scuola Media Stratale Giacomo Leopardi di Pontelongo, Padova, 1972- 1982, edizione Overview, Padova 2017, e ancor prima A. Casellato-A. Boschiero-L. Bellina, Quando la scuola si accende. Innovazione didattica e trasformazione sociale negli anni Sessanta e Settanta, Cierre editore, 2012). Sperimentare a scuola come nella scienza è fondamentale, in ballo l’avvenire delle generazioni future e dell’umanità. Come supporre di fare scuola ripetendo riti e miti ricevuti e, quello che più conta, senza senso? “Un martirio” inutile e insensato, per dirla con le parole di Laura.
Laura è quello che si dice una brava adolescente. Attenta a quello che si muove attorno a lei, studiosa, obbediente con juicio. Ogni giorno si confida con il diario, un impegno allo stesso tempo oneroso e liberatorio: scrivere vuol dire dare un nome alle sensazioni e ai sentimenti, chiarirsi pensieri e idee, crescere decifrando quello che si fa e che capita. Studiare le piace, si applica, non capisce una cosa: la frenesia con la quale i docenti caricano i ragazzi di compiti, verifiche e interrogazioni, per la maggior parte “noiosi e privi di senso”. Quali le ragioni di un tale comportamento?, si domanda. E si risponde: o i prof sono cattivi “di proposito oppure hanno perso il senso del limite”. Alla fine, la condanna suona come lo sparo d’una pallottola: l’istituzione scolastica è diventata “illegale”, una “monarchia” basata su proprie regole, diverse e contrarie al dettato costituzionale.
Cara Laura e cari adolescenti, così penalizzati da un evento particolarmente tragico per voi in formazione, avete tutte le ragioni per denunciare disagi vecchi e nuovi, incongruenze recenti e meno recenti, deficit incomprensibili e sciatterie deprimenti. Ma ammetterete che anche per gli adulti – traduciamo concretamente: le istituzioni, la politica, il personale scolastico – quanto succeduto negli ultimi due anni ha scombussolato un quadro d’insieme già in evidente deficit di senso e direzione di marcia. Faccio parte anch’io della confraternita responsabile della situazione, non ho autorevolezza alcuna per dare voti, emettere giudizi. Dire che, qui e ora, gli operatori scolastici e i sanitari vanno ingraziati per quello che sono riusciti a fare in una babilonia linguistica che ha pochi precedenti è semplicemente doveroso, senza con questo rinunciare ad un’attenta riflessione su un sistema obbligato a un salto di qualità.
W. Szymborska, la poetessa polacca dei sentimenti e delle emozioni e delle cose ordinarie della vita, metterebbe quegli insegnanti nel girone dei distratti: privi del “savoir-vivre cosmico” si comportano male nel cosmo, passano “tutto il giorno senza farsi domande”, prendono il mondo “solo per uso ordinario”.

“Ieri mi sono comportata male nel cosmo,
ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dall’uscire di casa e dal tornarsene a casa.

(…)

Il savoir-vivre cosmico esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ingiuste”

(W. Szymborska, “Disattenzione”)

La prima attenzione sollecitata dalla parola scelta “attenzione” è alla memoria, alla storia specifica del lavoro dell’insegnante. La legge 1859 del 1962, istitutiva della media unica dell’obbligo per otto anni, voleva costituzionalizzare, democratizzare la vecchia scuola italiana: autoritaria, classista, nozionistica, elitaria, selettiva. La sperimentazione del tempo pieno, prima alle elementari e poi nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado, ambiva ad aprire la strada al nuovo sistema scolastico italiano. “Essere in una scuola di questo tipo [sperimentale] rende speciale l’esperienza didattica. Innanzitutto perché chi la sceglie consapevolmente porta con sé una forte motivazione per l’impegno e l’innovazione (…) In secondo luogo perché nella scuola sperimentale è vivo un dibattito ricco di esperienze pedagogiche”, scrive Giulio Pavanini in “Sensate esperienze, 1974-2014: quarant’anni di sperimentazione nell’Istituto ‘Pietro Scalcerle’ di Padova (a cura di M. Angelini-G. Pavanini-M. Poppi, Overview editore, Padova 2021). Un’altra, recente, preziosa testimonianza della scuola militante.
Che dici, Laura, del termine “sensate”, messo in bella vista nel titolo a qualificare le esperienze raccontate? È il contraltare dell’ingombrante fardello preparate dai tuoi (alcuni, immagino) insegnanti distratti e zelanti.
Maria Pia Veladiano, credibile autrice di libri sulla scuola militante perché sa quel che si dice e perché, di norma, evita con intelligenza tanto le polemiche quanto i giudizi tranchant, stavolta non si trattiene da una condanna senza appello della scuola del quadrilatero mortifero programma-lezione-verifica-voto:

“La pandemia ha esasperato una realtà orientata alla misurazione, già presente da prima, nel senso che la valutazione tradizionale, compito in classe più interrogazione, è diventata difficile, impossibile. E la scuola che riparte deve affrontare di nuovo il grande tema della valutazione. Si valuta un percorso, la distanza dalla situazione d’ingresso, il valore aggiunto. Un po’ provocatoriamente, si può dire che la valutazione più importante è quella che riguarda la scuola” (M. P. Veladiano, Oggi la scuola c’è. Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare, edizione Solferino Corriere della Sera, Milano 2021, pag. 84).

Lo diceva con esemplare, pacata sincerità il prof. Carmina, il docente di filosofia e di storia scampato al Covi-19 ma non alla deflagrazione di una tubatura del gas a Ravanusa, citato dal Presidente Mattarella nel suo ultimo discorso al Paese. Nel suo saluto ai suoi studenti, diffuso ovunque dopo la sua tragica morte, chiedeva scusa ai suoi allievi: “Vi chiedo scusa se qualche volta non ho prestato il giusto ascolto, se non sono riuscito a stabilire la giusta empatia, se ho giudicato solo le apparenze, se ho deluso le aspettative, se ho dato più valore ai risultati e trascurato il percorso e i progressi, se, in una parola, non sono stato all’altezza delle vostre aspettative e non sono riuscito a farvi percepire che per me siete stati e siete importanti, perché avete costituito la mia seconda famiglia”.
Gli insegnanti hanno sempre saputo che il centro del loro lavoro è occupato dall’alunno e il suo ben-essere, non sai programmi.

Attenzione 2: può ridiscendere il buio
Cara Laura, ti chiedo di seguirmi anche in una seconda attenzione su una tematica un tempo fondamentale. Si chiamava politica di servizio, partecipazione, ideali, visione, protagonismo delle masse (della gente) e dei corpi intermedi, potere, uguaglianza, distribuzione della ricchezza. Tanta roba, apparentemente complessa, in realtà una realtà semplice e fondamentale come l’aria che respiriamo: la democrazia. Non gode di sana e robusta costituzione; a quanto è dato di vedere, non si osservano segnali di preoccupazione.
Ti presento un caso semplice, del mio Veneto, un territorio a lungo depresso, piagato dai cavalieri dell’Apocalisse (povertà, fame, emigrazione, pellagra – scommetto e spero che “pellagra” ti suoni come una novità assoluta). L’assessora regionale all’Istruzione, alla Formazione Professionale è una cinquantenne che siede nel parlamentino regionale dal 2000 e da 15 anni (Presidenti della Regione Galan, il signore del Mose, e Zaia, il signore del 76 per cento dei voti) ricopre la carica di assessora. Nel dicembre dello scorso anno, invitata a un programma radiofonico, si lanciava in una “maliziosa” esecuzione di “Faccetta Nera”, la canzone simbolo della campagna coloniale italiana in terra africana. Rimproverata dal Presidente del 76 per cento, chiedeva scusa, ma il 25 aprile, il giorno commemorativo della Liberazione, saliva sul Monte Corno, Altipiano di Asiago (la terra di Mario Rigoni Stern, l’autore indimenticabile del Sergente nella neve, se non l’hai letto…) alla foiba Buso de la Spluga dove, al termine del secondo conflitto mondiale, erano stati gettati i corpi di quattordici soldati nazisti. “Voglio commemorare”, diceva, “in forma indistinta partigiani e nazifascisti (?) e ridare dignità al nazifascismo (?)”. Già nel maggio del 2019, la signora assessora, fascista dichiarata, sempre in un programma radiofonico, aveva definito Mussolini un “grande statista”, citando giudizi elogiativi di sir Winston Churchill e del Mahatma Gandhi.
La nostra Costituzione è innegabilmente, decisamente antifascista; non aiuta il sapere che con la fine della Prima Repubblica (anni ’90-’92), si sono liquefatti anche i partiti che l’avevano voluta e firmata. Sappiamo bene che gli italiani sono creativi, in politica come nelle arti, hanno inventato il fascismo. Non hanno voluto, non hanno potuto, non hanno ritenuto doveroso fare i conti con quella teoria e con quella prassi e con quel sistema letale che “infiniti addusse / lutti” agli Italiani, per dirla con il Proemio dell’Iliade di Vincenzo Monti. Per la verità non solo agli italiani.
È la democrazia che non sta troppo bene, non scalda come un tempo i cuori e gli occhi e le mani delle donne e degli uomini che il 2 giugno del 1946, un anno appena dopo la fine di un conflitto dai lutti inenarrabili, si precipitava in massa per esercitare un diritto calpestato per un ventennio per i maschi, negato da sempre alle donne.
Il vulnus recato il 6 gennaio dello scorso anno nel cuore della democrazia laica – l’assalto a Capitol Hill, Washington –, il ri-fiorire impetuoso e aggressivo dei populismi e dei nazionalismi, l’imporsi di un linguaggio di odio e di un vocabolario che credevamo per sempre inutilizzabile sono come la campana di Hemingway: suona per noi, chiama a raccolta le donne e gli uomini di buona volontà.
Prima il revisionismo, poi lo sdoganamento, poi la narrazione vittimistica, infine la rivendicazione di pari dignità e onore: ne è passato di acqua sotto i ponti della Repubblica. il giornalista-scrittore Angelo del Boca, morto vegliardo l’estate scorsa, ha speso la vita studiando e scrivendo per sgonfiare la favola autoassolutoria “Italiani brava gente”. Con risultati non proprio esaltanti. Fanno riflettere episodi recenti di vulnus costituzionali della classe dirigente, non adeguatamente denunciati e contrastati. È di qualche mese fa la proposta di un alto dirigente del più vecchio partito italiano – pardon, si chiama lega – di “traslocare” l’attuale Presidente del Consiglio da Palazzo Chigi al Quirinale, passando de facto da un sistema parlamentare a uno semipresidenziale, auspicando il cambiamento del sistema politico come frutto innocente di pura fattualità. È di tre anni fa appena la proposta di impeachment del Presidente della Repubblica in carica, reo di far valere le sue prerogative presidenziali in merito alla composizione governativa. E se la nuova classe dirigente post ideologica e post destra e sinistra fosse de facto post costituzionale e post democratica?
“Dovremmo avere l’onestà”, scrive A. Scurati, l’autore di una trilogia su Mussolini e il suo regime, “di non dimenticare che gli italiani sono stati anche fascisti, razzisti e colonizzatori”. È preoccupata della “nuvola” incombente sull’intera Europa Lidia Maksymowicz, a tre anni ospite degli sperimenti di Mengele ad Auschwitz-Birkenau, autrice di La bambina che non sapeva odiare (edizione Solferino Corriere della Sera). Quale fu l’errore, le chiede il giornalista, prima dell’apertura dei campi di sterminio? “Dare cittadinanza”, risponde la superstite con serena sicurezza, “a parole di una ostilità fuori di ogni logica ma di un tratto ritenute legittime. Così è ancora oggi. Torniamo ad ammettere parole che sanno di odio, di divisione, di chiusura. Quando le sento in bocca a politici mi manca il fiato. Qui, nella mia Europa, a casa mia, ancora quelle terribili parole. E’ esattamente adesso, in momenti come questi, che può ridiscendere il buio”.
L’abbiamo accennato altrove, lo ripetiamo: sono i partiti a rendere nobile la politica e di sana costituzione la democrazia. Leggendo e conoscendo la storia, montando una guardia attenta e inflessibile a valori e principi, mettendosi al servizio del bene comune. E formando, selezionando il gruppo dirigente. Sono i partiti, non i tecnici salvatori o meno della paria, non la fantomatica società civile e tanto meno il popolo virtuoso, i garanti primi e insostituibili della democrazia e della buona politica.
E’ molto chiedere che almeno non si parli più di uomini forti, di scorciatoie improponibili, di nazionalismi gonfi di retorica e di frontiere come cantava Franco Battiato qualche decennio fa ormai nella dolente Povera Patria? “Si può sperare / che il mondo torni a quote più normali, / che possa contemplare il cielo e i fiori. / Ancora un po’ da vivere, / la primavera intanto tarda ad arrivare”.

Attenzione 3: il valore della fiducia
Da bambini, raccontava J. P. Sartre, la maestra ci portava in autunno nel giardino pubblico a raccogliere le foglie cadute dagli alberi; il nostro lavoro consisteva nell’incollare la foglia in un album da disegno rettangolare, una foglia per pagina.
Sembrava nato e destinato a fare l’idiota, ricorda Massimo Recalcati, non imparava, in seconda elementare rimaneva bocciato, il padre floricoltore lo iscriveva a un istituto tecnico dall’altra parte della città, frequentato da pluriripetenti svogliati, in pessimi rapporti con lo studio. Tutto male fino a quando in quella scuola disagiata di periferia non appariva una giovane prof che lo faceva innamorare della letteratura. Anziché ad Agraria, il giovane Massimo si iscriverà a Filosofia.
Qui e ora, senza perdere tempo in lamentele e in recriminazioni per carenze recenti e meno recenti, la nostra terza attenzione non può che focalizzarsi sul PNRR. Dall’Europa, madrina anziché matrigna con la bacchetta e la matita rossa a sottolineare deficit, buchi, incongruenze, sbilanciamenti arriva – se saremo in grado di progettare e realizzare – una quantità di risorse mai vista. Per una volta, le riforme necessaria possono, debbono essere messe in campo.
Cara Laura, adolescenti, giovani e adulti convergono, se non sono affetti da cecità per pigrizia, distrazione o malafede, che “questo” sistema scolastico ha troppi e gravi deficit. Nelle parole di Luigina Mortari, docente di Epistemologia della ricerca qualitativa presso la Scuola di Medicina e Chirurgia e di Fenomenologia della cura presso il dipartimento di Scienze umane dell’Università di Verona:

“La politica neoliberista ha ridotto la scuola a un’azienda che, concepita come contesto che si limita a erogare conoscenze, funziona secondo la logica che domina la società mercantile: la logica della competizione finalizzata all’affermazione di sé. Dal momento in cui le istituzioni educative sono state definite aziende, il soggetto educativo diventa un cliente e la relazione educativa viene “perimetrata” nel “contratto” formativo. A dominare è la logica utilitaristica, che assoggetta la cultura della formazione a una visione mercantile, che assume l’utile come unico criterio di valore.
(L. Mortari, La politica della cura. Prendere a cuore la vita, Raffaello Cortina editore, Milano 2021, pag. 130-131).

In questa logica, le competenze chiamate in causa sono di natura tecnica: come evidente, di inadeguata utilità per il ben-essere dei ragazzi in formazione.
Come vedi, cara Laura, ritorniamo alla casella di partenza: al centro della scuola figurano la persona umana dell’allievo in formazione e la sua relazione con gli adulti, in primis gli insegnanti. Non si tratta di fuggire in avanti, nel mondo illusorio delle riforme epocali – l’angelo tentatore di ogni ministro della Pubblica istruzione –, ma di procedere un poco alla volta. Partendo dalla “scuola democratica”, disegnata decenni fa, teorizzata e praticata dai grandi educatori – Montessori, Freinet, Rodari, don Milani, per sussurrarne solo alunni – e dalle tante esperienze sperimentali e innovative, animate dalla centralità dell’allievo e di un maestro “missionario”, nel significato della nota parabola.
C’erano una volta tre muratori alle prese con mattoni e calce e sabbia e acqua per tirare su un muro. Che state facendo?, s’affrettavano a chiedere i passanti e i curiosi. “Costruisco un muro”, rispondeva immediatamente il primo muratore, aveva le idee chiare e la risposta pronta, non era uno sprovveduto e quei curiosi sembravano dei provocatori. “Innalzo una chiesa”, interveniva subito dopo il secondo muratore, voglioso di alzare il livello della risposta. Il terzo, insoddisfatto delle precedenti risposte, replicava. “Costruisco la casa del Signore”.
Il primo si accontenta di un mestiere, il secondo sceglie una carriera, il terzo individua una vocazione. Tutti e tre lavorano, svolgono un’attività, che è una relazione con gli altri, in vista di un traguardo: un muro, un edificio, un obiettivo con valore. L’insegnate con vocazione è un professionista completo, accompagna le competenze tecniche e scientifiche con quelle terapeutiche e umanistiche: rispetto, delicatezza nell’agire, capacità di comprensione del vissuto, il tempo necessario per rassicurare e confortare (L. Mortari). E’ l’artigiano di Plutarco, capace di costruirsi ora per ora la sua giornata con “azioni luminose e splendenti”, figlie da una motivazione continuamente rinnovata.
Non siamo fuggiti nel mondo colorato dell’irrealtà. Mi auguro che anche tu, Laura, abbia potuto vedere una qualche puntata de Generazione Bellezza, programma televisivo presentato da Emilio Casalini: telefonino in mano, ha girato l’Italia in cerca di luoghi abbandonati e degradati che, grazie a una iniziativa dal basso, hanno trovato una vocazione, una identità, un riscatto. A Calvisano (Cuneo), il riscatto si deve alla panchine giganti collocate in luoghi panoramici delle Langhe, dolci colline coperte di filari di viti; ad Arco di Trento, alla conversione da cittadina industriale a capitale mondiale delle scalate sulle pareti di tufo delle colline; a Monticchiello (Val D’Orcia, tra Pienza e Montepulciano), alla scrittura e alla recita annuale del “teatro povero”; nella provincia di Bolzano, alla cura dei masi, degli orti, dei prati, dei gerani sulle finestre; a Caltanisetta, una città che dall’alto sembra ancora vittima di un bombardamento selvaggio, alla costruzione di una palestra e di una pista di pattinaggio che sforna campioni nazionali a gettito continuo …
Magari la trasmissione soffre di una qualche enfasi di troppo, di svolazzi romantici ma, davvero, perdersi per qualche minuto in quei piccoli, anonimi centri apparentemente senza avvenire, miracoli di speranza, dopo i bollettini di guerra dei telegiornali produce sullo spettatore gli effetti salutari d’un balsamo rigeneratore. Un bagno di fiducia.

“I ragazzi, con la fiducia, volano e anche gli insegnanti volano, perché così funzioniamo. L’occhiuto controllo sospettoso non fa crescere le persone. La scuola vive naturalmente di fiducia. Fortemente crede di poter riparare l’ignoranza, crede che nessuna condizione personale dei bambini sia irrimediabile. Si può sempre migliorare. Si può sempre insegnare ottenendo risultati. Altrimenti perché fare questo mestiere?” (M.P. Veladiano, Oggi c’è scuola, cit., pag. 104).

La realtà è migliore di quanto comunemente comunicato. Conforta sapere che i miracoli non avvengono solo a Lourdes e non solo per intercessione della Madonna. Ci vogliono idee, sogni, buona volontà, coraggio, costanza, fiducia. Una motivazione per vivere, lavorare, stare bene e generare benessere.

IDENTITÀ CISL

“Costruire tutto dal nuovo”: ambizione e speranza della Cisl

di Francesco Lauria

Firenze, 1955. Posa della prima pietra del Padiglione Buozzi al Centro Studi CISL

A coloro che rifuggono la memoria dei sedentari. E, camminando, praticano l’etica dei viandanti”.
Si apre con questa frase il volume: “Dobbiamo creare tutto dal nuovo. Il divenire della Cisl: fondamenti, incontri, esperienze”, pubblicato da Edizioni Lavoro a cavallo tra il settantesimo anniversario dell’apertura del Centro Studi Nazionale Cisl di Firenze e l’analoga ricorrenza del primo congresso della Confederazione, svoltosi a Napoli.
Il legame tra questi due eventi, avvenuti nei mesi di ottobre e novembre del 1951, e le vicende sindacali odierne potrebbe apparire esile, logorato dalla radicale diversità del contesto politico economico di riferimento che, nel ritmo incalzante delle notizie di attualità, raramente concede lo spazio per tornare a ricostruire le motivazioni originarie delle organizzazioni e per indagare come esse permangano o si trasformino al mutare della realtà.
Il 9 e 10 dicembre 2020, nel pieno della seconda ondata della pandemia, quasi duecento persone – tra cui molti giovani – avevano seguito a distanza l’appuntamento dedicato alla ricerca storica sui temi sindacali che annualmente la Cisl organizza nel suo Centro Studi di Firenze.
Due giornate di studio di cui il volume registra gli atti, integrati e arricchiti. La riflessione storiografica, ma anche l’attenzione alla memoria, sono parte della missione di questo luogo fin dagli esordi, per dare maggiore concretezza alla funzione emancipatrice della formazione contenuta nello Statuto della Confederazione e alla visione più generale di sindacato come comunità educante, costruita su fondamenta riconoscibili, ma al contempo aperta al respiro del mondo.
Il volume nasce dall’idea di verificare come la Cisl abbia saputo mantenere e consolidare nel tempo l’originalità della propria identità culturale declinando la vocazione internazionale in un dialogo continuo con le esperienze più innovative del sindacalismo mondiale.
Si tratta di una finestra sulle connessioni, sulle influenze e sulle suggestioni che, dai più lontani angoli del globo hanno raggiunto, talvolta toccato, talaltra coinvolto, non soltanto i dirigenti nazionali della Cisl, ma hanno sollecitato una risposta vivace e intraprendente da parte delle categorie e delle unioni sindacali, anche a livello provinciale.
Settant’anni al termine dei quali è ancora possibile interrogarsi sulle caratteristiche costitutive e generative della cultura sindacale della Cisl e sulle scelte e le condizioni che hanno portato a questa «splendida anomalia».
E’ proprio per questo che il volume si intitola: «Dobbiamo creare tutto dal nuovo», riprendendo un passo dalla relazione di Giulio Pastore al primo Congresso confederale della Cisl, per rimarcare il messaggio di speranza e di responsabilità lanciato durante quella che era ancora una fase irta di difficoltà e di incognite per la nuova confederazione e il modello del sindacalismo libero.
Pastore affermava: «Non abbiamo niente dietro di noi. Non partiti, non movimenti ideologici; non abbiamo neanche una tradizione, perché non esiste in Italia la tradizione del sindacalismo nella formula da noi enunciata».
Questa frase ribadisce, con grande forza dialettica e simbolica, come costruire la Cisl, assumersi il rischio di mettere in atto un’esperienza inedita nel panorama politico-sindacale nazionale e programmatico-organizzativo a livello mondiale, sia stato un atto di grande innovazione edificato sui pilastri della realtà, della competenza, della democraticità.
La formazione e la dimensione internazionale saranno tra i connotati maggiormente distintivi e innovativi della storia e del divenire della confederazione, a partire dalla scelta europeista e dalla collocazione nella Confederazione internazionale dei sindacati liberi.
Si delineerà, nei decenni, un percorso ricchissimo di influenze, ispirazioni, scambi, rapporti, reciprocità che il volume raccoglie, scavalcando i confini geografici e affiancando fondamenti, incontri ed esperienze.
Il viaggio si avvia dopo aver riscoperto, con il prezioso tramite di Mario Romani, “ideologo” della Cisl, l’importante fonte della scuola delle relazioni industriali del Wisconsin. Si attraversano poi due figure fondamentali del pensiero e della filosofia contemporanea come Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier; riferimenti non solo a livello teorico, ma con ricadute tangibili sulla formazione dei sindacalisti cislini fin dai primi anni Cinquanta, a partire dai luoghi di lavoro, dalla fabbrica. Non mancano gli incontri con le esperienze sindacali d’oltralpe e d’oltreoceano, mentre si vagliano e si confrontano i diversi, possibili significati di termini distintivi dell’approccio della Cisl: la partecipazione, il rapporto tra legge e contratto, l’aconfessionalità.
E’ possibile viaggiare non solo tramite le parole, ma anche attraverso le immagini: manifesti e fotografie trasportano nei sogni e nell’anima europea di Simone Weil e Sophie Scholl, così come nei digiuni e nelle marce nel deserto nordamericano di Cesar Chavez e dei suoi braccianti. Proseguendo nel solco delle esperienze si passa accanto all’azione di comunità e nonviolenta di Saul Alinsky e di Dorothy Day, per poi camminare con Paulo Freire e ricostruire le grandi mobilitazioni sindacali dal basso per la democrazia e la libertà in Brasile come in Cile, in Sudafrica come in Polonia.
Questo viaggio globale, questo riconoscere il sindacato come un «fatto nel mondo» e in un mondo interdipendente, non può che partire per poi ritornare a Firenze, città europea e globale di pace. Un luogo in cui Giorgio La Pira, insieme a Giulio Pastore, ha posato le prime pietre dei nuovi padiglioni del Centro Studi Cisl nel 1955. Mura che hanno accolto sindacalisti di ogni provenienza, anche dai territori africani e asiatici ancora in attesa di indipendenza o da nazioni, in Europa e nel mondo, ancora prive di democrazia e libertà.
Firenze, dunque, come finestra sul mondo e nel mondo, archetipo, laboratorio, promessa, compimento di un sindacalismo democratico e libero. Un sindacalismo forgiato dall’incontro tra i fondamenti culturali dell’intuizione cislina e le positive contaminazioni vissute attraverso l’azione sindacale concreta, giorno dopo giorno.
“Dobbiamo creare tutto dal nuovo”, prova a consegnare ai sindacalisti di oggi e a quelli di domani l’origine e il cammino di un’anomalia, quella della Cisl, che conta di accompagnare le trasformazioni del lavoro e della società per i prossimi settant’anni e oltre. Un cammino che procede, appunto, attraverso l’etica del viandante, non con la superbia del sedentario, di colui che affastella medaglie e musei.
Il viandante costruisce, crea, ancora oggi, «tutto dal nuovo», senza mai dimenticare le proprie origini, ma nemmeno l’orizzonte ideale e concreto del proprio cammino. È proprio quanto ci ha insegnato e consegnato, non solo attraverso una frase, ma grazie a tutta una vita, Giulio Pastore. E’ quanto prova a raccontare, a più voci, questo volume collettivo.

 

 

Adriana Coppola, Francesco Lauria (a cura di): Dobbiamo creare tutto dal nuovo. Il divenire della Cisl: fondamenti, incontri, esperienze, (Edizioni Lavoro, 2021).
Prefazione di Luigi Sbarra. Scritti di: G. Acocella, G. Andriani, E. Bucci, A. Carera, A. Coppola, A. Cuevas, M. Filippa, L. Filippi, D. Fumarola, E. Gabaglio, G. Gallo, A. Guerzoni, G. Iuliano, F. Lauria, B. Manghi, M. Pitteri, F. Scrima.

LA SCUOLA È VIVA. W LA SCUOLA

Come i presbiti. La distanza e la presenza

di Luna Renda

Pere Borrell del Caso, In fuga dalla critica, 1874

Per fortuna questa pandemia sta passando”, “per fortuna presto si tornerà alla scuola in presenza”, dicono in tanti, ma la felicità non andrebbe mai confusa con la fortuna. La felicità ha a che fare con la consapevolezza e la piena realizzazione. Ma se affidiamo all’idea di fortuna il ritorno ad un improvvisato passato, coltiviamo l’illusione che i comportamenti di prima non abbiano determinato lo stato di cose successivo e soprattutto rischiamo di fare in modo che quest’ultimo non ci insegni nulla. L’allontanamento fisico dalla scuola, sia che si manifesti palesemente con un abbandono, o anche solo con una telecamera spenta è o non è conseguenza di quella che era solo e soltanto un’illusione di presenza? Proviamo a pensarci.
In presenza: cosa vuol dire esattamente? In questo eccesso di distanza molti hanno faticato a verificare, controllare, annotare la presenza degli alunni, a sentirli con le proprie orecchie e verificarli con i propri occhi. I docenti si sono adirati perché gli allievi chiudevano la telecamera, oppure non rispondevano “presente”. Ma quando uno studente è presente? Se porta tutti i libri? Se ha fatto i compiti? La disattenzione di un allievo, ad esempio, è qualificabile come distanza, oppure è una presenza differente? E ci siamo mai chiesti, viceversa, se nella scuola in presenza si percepiva cosa fosse la distanza? E ancora, rispondere “presente”, significa realmente esserlo?
Neanche i docenti possono sottrarsi a questo esame: quand’è che un docente c’è, è presente in classe? Quando la sua presenza si fa sentire? Se alza la voce, se si alza in piedi? Se parla con enfasi? Se uno studente usa esattamente le sue parole? La scuola (forse) presto tornerà ad essere quella di prima, ma non dovremmo fare l’errore di non cogliere quello che la distanza ci ha insegnato.
Molti in quei giorni e nei mesi successivi dalla scuola hanno pensato di fuggire, proprio come nel trompe-l’œil di Pere Borrel del Caso; per la verità hanno quasi sperato che non riaprisse, finalmente liberati.
Come si diceva in uno degli appuntamenti de La scuola e i filosofi del prof. Giuseppe Ferraro, ai quali Amica Sofia ha preso parte, i ragazzi della Dad hanno imparato troppo in fretta a dire “prima”: “prima era diverso”, “prima era in un altro modo”. Hanno maturato precocemente l’orizzonte temporale del prima. Se per noi alla loro età valeva solo “adesso”, e al massimo “poi”, per loro il mondo, oggi, è già altro rispetto a quello che avevano creduto e vissuto. Ma se la Psiche, come diceva Freud, è lo spazio tra la mancanza e il desiderio, è lì, forse, che dobbiamo andare a stanarli per accompagnarli nella costruzione della loro interiorità, proprio in quella prateria sconfinata che è assenza, dubbio, incertezza, desiderio, voglia di scappare.
Scopriremmo che sia in presenza che a distanza c’è uno schermo da rompere, un muro da infrangere, un desiderio da intercettare. Che scuola non è trasferire nozioni su una platea che con la testa se ne sta altrove, ma è prima di tutto agnizione, riconoscimento di anime, di voci e di volti e come potevamo pretendere che si materializzasse a distanza una vicinanza che non esisteva neanche quando eravamo fisicamente a scuola?

La scuola che mi porto dentro dopo la pandemia è iniziata la sera del 5 marzo del 2020, data della proclamazione del lockdown nazionale, dovuto allo stato di emergenza Covid-19. Quella sera, alle ore 20:00, noi, io e la mia classe, eravamo già connessi. Le nostre prove generali avevano funzionato, il giorno successivo avremmo fatto lezione on line, e on line avrebbe trovato continuità anche l’ora di filosofia. La filosofia è quella cosa che ci ha trattenuti e fatto rimanere, proprio perché sempre e di per sé filosofia è quello che rimane, che arriva dopo, che chiarisce le idee, come la nottola di Minerva. Mai come in quel periodo la scuola avrebbe dovuto avvalersi della filosofia per recuperare la presenza nella distanza. Tutti, anche i docenti, ne avrebbero certamente tratto giovamento e molti studenti avrebbero scoperto di voler ritornare in una maniera più fiera e consapevole.
La straordinaria abilità immaginifica dei bambini (1), associata alla capacità di far oscillare i significati e la funzione degli oggetti (perché si sa che per loro un manico di scopa può trasformarsi in un nobile destriero) ha fatto sì che il computer, che per noi docenti è stato da subito preoccupazione, problema, impedimento, complicazione, per loro diventasse finestra, occasione, seppur nostalgica e a tratti sofferente. Quella che si è generata naturalmente è stata una zona di conforto, una stanza, una strada lungo la quale correre per salvarsi, una delle tante eterotopie che i bambini si costruiscono naturalmente e dai quali noi adulti siamo soliti richiamarli perché ritornino alla realtà. Non sono luoghi come gli altri, e, aggiungerei, sono migliori degli altri, perché liberano l’immaginazione e palesano la realtà angusta degli spazi convenzionali, offrono l’occasione di una piccola rivoluzione, in quanto negano, in un’ottica di sostanziale discontinuità, l’idea che esista una sola via, insinuando un dubbio ragionevole e metodico.
Quella sera ci preparavamo a vivere in un altro luogo, fuori dalle mura, dalle porte delle aule. Non sapevamo cosa sarebbe accaduto. Eppure avevamo la certezza di esserci. Di trovarci in una paradossale prossimità e che la filosofia, ci stava aiutando ad accorciare le distanze.
Ci siamo discostati per avere una nuova prospettiva, siamo saliti con i piedi su un tavolo per guardare un ambiente dall’alto, abbiamo nuotato a largo per rimirare la costa, abbiamo raggiunto un punto panoramico per scrutare la città, abbiamo fatto come i presbiti, che se allontanano il foglio vedono meglio.

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(1) M. Foucault dice che “i bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine – il giovedì pomeriggio – il grande letto dei genitori.” (M. Foucault, Utopie Eterotopie, Cronopio, 2006, pag. 43).

Luna Renda, docente nella scuola secondaria di primo grado, è responsabile nazionale per la formazione di Amica Sofia (www.amicasofia.it) e redattrice della rivista Amica Sofia Magazine (editore Rubbettino), dove è stata pubblicata una precedente versione di questo articolo.

HOMBRE VERTICAL

Una pagina di diario

a cura di Emidio Pichelan

Per questo mese, l'hombre cede volentieri il proprio spazio a una mujer vertical lasciando la parola a Laura, sua giovane e abituale corrispondente, e a ciò che scrive nel suo diario. Un invito appassionato, quasi un grido, una provocazione che induce a riflettere sulla scuola, su come la si vive, su come la si fa.

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Bergamo, 11 gennaio 2022

Caro Diario,
Non ne posso proprio più. Oggi, domani e dopodomani: sempre, sempre, sempre. Ho gli occhi fuori dalle orbite e il mio cervello sta letteralmente friggendo. Devo infatti calmarmi subito se no finirà che non capirò nemmeno che cosa scrivo. Credo che tu a questo punto ti starai impazientemente chiedendo: “Che cosa le sarà successo?”. Per risponderti devo farti due premesse. la prima: non è morto nessuno (anche se i miei nervi ci sono andati vicini); la seconda: questo testo sarà pieno zeppo di errori ortografici il che è alquanto scontato, visto che sto scrivendo al buio, per essere più precisi, sotto la fioca luce della mia torcia. Ti scrivo di notte e, soprattutto, quasi completamente al buio perché non voglio che mia mamma mi scopra a quest’ora della notte sveglia e per dipiù intenta a scrivere il mio Diario segreto. Mia mamma non sa che ho un diario. Non so se hai notato, caro Diario, che nella frase precedente ho usato la parola notte e non sera. Ovviamente non è stato un errore ma l’ho scritto di proposito, perché devi sapere che oggi per finire tutti i compiti per mercoledì ho studiato e ripassato fino alle dieci di sera, orario a cui io vado abitualmente a letto. Conseguenze: non mi ricordo quasi più come mi chiamo e mi ritrovo all’una di notte a scriverti clandestinamente.
So che probabilmente tu lo reputi un argomento noioso e da adolescente ma vorrei esprimerti le mie opinioni sul tema dei compiti, verifiche e interrogazioni, anche perché il caso vuole che io sia un’adolescente che trova la maggior parte dei compiti noiosa e priva di senso. Devo proprio dirti che non trovo motivo per il quale i professori debbano bombardarci continuamente di verifiche e interrogazioni tutt’altro che facili. Ho passato ore e ore a pormi questa domanda e ho trovato due risposte plausibili: o i professori sono talmente cattivi da darci di proposito una valanga di compiti oppure non hanno la percezione del limite. In entrambi i casi mi duole osservare quanto squilibrata possa essere la natura umana. Mi irrita ancor di più il fatto che di continuo mia mamma e mio padre continuano a ripetere: “Laura se potessi tornare io alla tua età…”. Come puoi notare non finiscono la frase, forse perché hanno rispetto dei miei “torturatissimi” nervi, ma credo che alludano sempre a dire che si godrebbero la gioventù, oppure che studierebbero molto meno e starebbero di più all’aria aperta. Se concludessero la frase io direi ad entrambi che piacerebbe anche a me stare di più all’aria aperta ma che non mi è sfortunatamente concesso perché devo prepararmi al meglio possibile per le verifiche e le interrogazioni. Probabilmente dopo aver risposto ai miei genitori con queste parole loro mi guarderebbero male e direbbero che la colpa è mia, perché sono lenta a fare i compiti, e non dei professori che ce ne danno troppi, ilche potrebbe essere molto probabile ma non è certo la cosa migliore da dire ad una persona che si sta consumando per fare tutto il possibile per sbrigarsi.
Un altro punto su cui ho dovuto riflettere parecchio prima di riuscire a capire che poteva essere vero è il fatto che i professori, a loro volta, sono stati degli alunni. Questo pensiero, che all’apparenza può sembrare banale, mi porta alla conclusione che i professori probabilmente sono stati martiri come noi. Ma allora perché farci patire le stesse pene che hanno subito loro? Questa è una di quelle domande a cui può rispondere solamente un professore.
L’ultima domanda che vorrei porti è: “Colui che ha reso la scuola un’istituzione non ha pensato che potesse essere illegale?” Tranquillo Diario non sto delirando (almeno non credo) ma sto cercando di dirti che nell’articolo UNO della Costituzione Italiana si dice che l’Italia è una “REPUBBLICA DEMOCRATICA ecc. ecc.” Ho scritto in stampatello “repubblica” e “democratica” perché la scuola dovrebbe invece essere definita come un’”istituzione monarchica basata su regole proprie”.
Dico “Monarchica” perché in classe solo il professore comanda e noi invece dobbiamo obbedirgli senza dire una parola: e poi ci definiamo una democrazia?!
Devo supporre che colui che ha reso la scuola un’istituzione legale fosse già morto quando è stata scritta la Costituzione Italiana.
Caro Diario, mi duole molto ammettere che per quanto siano giuste le mie parole non valgono proprio niente, poiché credo che non sarà per i lamenti di un’adolescente che aboliranno la scuola o perlomeno i compiti.
La cosa che mi fa soffrire di più è che sicuramente anche io tra trent’anni mi ritroverò a rammentare a mia figlia quanto sia stata bella ed entusiasmante la mia adolescenza.
Adesso però devo andare a dormire perché sto morendo di sonno e non voglio certo vanificare i miei sforzi pomeridiani solo perché ho dormito male.
A domani,

Laura

STORIA CONTEMPORANEA

Il fascismo: democrazia e antidemocrazia

di Paolo Acanfora

L’atteggiamento del fascismo nei confronti della democrazia sembrerebbe una questione ovvia, evidente, lapalissiana. È a tutti chiaro che il fascismo, come d’altronde qualsiasi altro regime dittatoriale, non possa che essere un fenomeno antidemocratico. Un sistema politico fondato sulla negazione dei diritti individuali come la libertà di pensiero, la libertà di stampa, la libertà di associazione, la libertà di culto, etc. si pone inequivocabilmente nella categoria dei sistemi antidemocratici.
È un tema però che merita più attenzione di quanto non sembri a prima vista.
Dopo una fase iniziale di apparente istituzionalizzazione, il governo Mussolini – costituito seguendo pienamente le regole previste dallo Statuto albertino – ha intrapreso un processo di progressivo svuotamento dello Stato liberale che, nel giro di quattro anni, ha portato alla instaurazione del regime a partito unico. La svolta arrivata nel 1926 non fu, naturalmente, né inaspettata né fulminea. Si trattò, al contrario, di un percorso che ebbe diverse tappe e che iniziò subito con la scelta di costituire nel dicembre del 1922 (a poche settimane, quindi, dalla formazione del governo Mussolini) il Gran Consiglio del Fascismo, organo di partito ma alle dirette dipendenze del capo del governo, incaricato di partecipare alla elaborazione delle politiche pubbliche in qualsiasi ambito al fine di avviare la fascistizzazione dello Stato. Ancora poche settimane e già nel gennaio del 1923 veniva creata la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, un organismo singolare, istituito come strumento di difesa di una sola parte politica (il Pnf), che si affiancava alle forze dell’ordine, sino ad integrarsi con esse nel 1924. La Milizia inquadrava gli squadristi, la parte intransigente del fascismo, irriducibile a qualsiasi processo di normalizzazione. Un organo dello Stato che non giurava fedeltà al Re e che dipendeva direttamente da Mussolini.
Due istituzioni impossibili da concepire in qualsiasi Stato liberale.
Si tratta di due esempi che ci permettono di capire quale fosse, sin dalle origini, il progetto mussoliniano e definiscono l’avvio di quel processo che culminerà con il discorso del 3 gennaio del 1925 ad una Camera dei deputati priva dell’opposizione, radunatasi sull’Aventino per delegittimare una maggioranza ed un governo responsabili delle violenze nella società, dell’alterazione delle elezioni del 1923 e dell’omicidio di Giacomo Matteotti (segretario del partito socialista unitario). In quel discorso Mussolini – dopo molti tentennamenti – deciderà di forzare la mano e di avviare la definitiva fascistizzazione delle istituzioni pienamente realizzatasi tra il 1925 e il 1926. Si chiudeva così la fase democratica liberale della storia d’Italia.
Questo velocissimo e sintetico affresco delle prime fasi del regime fascista ci aiuta a mettere a fuoco qualche elemento generale, utile a capire le dinamiche politiche in un regime democratico.
Innanzitutto, il crollo di una democrazia può avvenire seguendo le regole della democrazia. La nomina di Benito Mussolini a capo del governo (così come quella di Hitler a cancelliere nel 1933) è avvenuta rispettando le norme costituzionali e le procedure formali previste. Questo ci dice inequivocabilmente che la democrazia formale (fondamentale e necessaria, naturalmente) non basta da sola ad arginare l’impatto delle forze antidemocratiche. Per evitarne il collasso, occorre necessariamente una solida cultura democratica radicata nella società civile e politica. Senza di essa, le istituzioni rimangono inevitabilmente fragili e vulnerabili.
Seconda considerazione. La normalizzazione di forze antisistema è un processo delicato e complesso, difficile da prevedere nei suoi esiti. La classe dirigente liberale – anche tra gli antifascisti più convinti, come nel caso di Benedetto Croce – si era illusa di utilizzare il fascismo come strumento di normalizzazione dell’ordine pubblico. L’urgenza di riportare ordine in una società postbellica devastata dalla moltiplicazione degli scioperi e dai conati rivoluzionari promossi dal massimalismo socialista aveva spinto a vedere in esso una forza utilizzabile a difesa delle istituzioni. Una forza che, invece, ha finito per distruggere dall’interno quelle stesse istituzioni, cancellando un’intera classe dirigente – e ancor più – la cultura liberale nel paese.
Terzo aspetto, connesso ai primi due considerati. La democrazia non è qualcosa di acquisito una volta per tutte. Può sembrare una banalità ma per la democrazia vale quanto il filosofo e storico francese Ernest Renan aveva affermato per la nazione: essa deve essere considerata dalla popolazione alla stregua di un “plebiscito di tutti i giorni”. Ha bisogno cioè di essere confermata nei comportamenti quotidiani, esercitati in qualsiasi ambito sociale. È l’azione concreta dei singoli cittadini, delle associazioni, delle classi dirigenti, dell’opinione pubblica a confermare solidamente le basi sociali, politiche ed istituzionali della democrazia.
Arrivati a questo punto, si può riprendere la questione iniziale. Il fascismo fu un movimento e un regime decisamente antidemocratico ma nel senso della democrazia liberale. Mussolini non è stato semplicemente un capo di governo, era il Duce (così come Hitler non fu un semplice cancelliere ma il Fuhrer del Reich). Ed il Duce ha rappresentato il capo carismatico, il condottiero secondo l’etimologia latina, la guida infallibile delle moderne masse. Egli aspirava ad incarnare nella sua persona la volontà di un intero popolo, la “volontà generale”, unica ed indivisibile. In questo senso, sulla base dei risultati plebiscitari delle elezioni (a lista unica, ovviamente), Mussolini rivendicava la piena democraticità del suo ruolo e della sua fonte di legittimazione politica: il popolo. In questo senso, il fascismo è stato definito una “democrazia totalitaria”, una forma democratica radicalmente opposta a quella liberale.
Da qui un’ultima considerazione. Non basta il consenso, non è sufficiente ritenersi espressione della volontà popolare per acquisire reali credenziali democratiche. La nostra idea di democrazia, quella della tradizione occidentale, è inevitabilmente fondata su una concezione istituzionale, sociale e politica di matrice liberale (poi integrata, arricchita e largamente migliorata nel corso della storia da altre matrici cultural-politiche). La democrazia, in sintesi, deve essere difesa e tutelata anche dai pericoli espressi dalla e nella maggioranza – sia essa tirannica o meno.

UN AUTORE

DANIELE MENCARELLI
Sempre raccontare

di Leonarda Tola

Ho scoperto i libri di Daniele Mencarelli (poesie e romanzi) non per la considerazione dovuta a un autore con cui si condivide la collaborazione sulla nostra Agenda Mese. A fare la differenza e suscitare interesse sono stati la sua storia di vita e il percorso letterario. Nato nel 1974, padre conducente Atac e madre sempre al suo fianco, a dieci anni si trasferisce ad Ariccia nei Castelli Romani. La scuola e gli amici, una famiglia del centro-sud, terzo dopo un fratello e una sorella, un nonno sardo. Ma Daniele a casa è diverso dagli altri due figli. Lo sa la madre che è la prima lettrice delle poesie scarabocchiate su quaderni e fogli sparsi, custode vigile della sua crescita adolescenziale, drammaticamente esposta a fatiche e fragilità. Daniele scopre e cura la scrittura come mezzo di espressione del suo universo mentale, a colori o nero d’inchiostro. Ha urgenza di dare concretezza di alfabeto a una sensibilità’ che lo domina e travolge per l’empatia che si fa ogni volta ferita aperta nella compartecipazione al dolore degli altri e del mondo. Cerca e trova le parole davanti a una pagina bianca e quando accade il miracolo dell’invenzione-scoperta della parola, quella e quella soltanto, si innesta il circuito armonioso tra l’interiorità segreta e la cosa visibile e reale che è la lingua; è questa la strada privilegiata verso la libertà’, la risposta all’angoscia che lo tortura tra niente e tutto, l’eco della salvezza nelle domande di senso su Dio, sulla morte e il suo mistero. Mencarelli è poeta e scrittore che dice di misurarsi con “una scommessa, sempre la stessa: dare corpo a uno stato di autenticità. La parola è un mistero, ha a che fare con forze sconosciute, sa farsi carico della tensione umana e sa restituirla, fissarla su un foglio all’infinito, disponibile nei secoli per coloro che vorranno leggerla. Chi scrive aspira a questa forza, a questa tensione”. Così si legge in La casa degli sguardi (Mondadori 2018, ristampato nel 2021).
Il libro è il racconto del tempo trascorso all’ospedale pediatrico di Roma Bambino Gesù dove viene assunto come operaio in una cooperativa di servizi. Un incarico essenziale e durissimo puntualizzato nel racconto della crudezza della fatica alle volte sovrumana sua e dei compagni di squadra con i quali impara a stabilire schiette relazioni di amicizia e di aiuto reciproco. L’impatto, al limite della sopportazione, è con quella realtà singolare e diversa di pazienti che sono i bambini affetti da malattie gravi e impronunciabili: “Un urlo mai sentito in tutta la mia vita, non per la forza e la durata, ma per la quantità di dolore che si porta dentro. Un urlo di pochi anni”; di bambino o bambina, spasimo avvertito dal giovane operaio come malessere nel corpo e nell’anima; uno stato di afflizione che chiama in causa il cielo con la domanda sul dolore innocente e la sua insensatezza. È proprio in quella casa di sofferenza allo stato nascente che Daniele affina gli sguardi per vedere e apre il cuore per sentire.

Non c’è notte che non chiami
con la sua voce dura di nocche,
tutto occhi, ardente il sorriso,
§dalla sua finestra immobile
continua a chiedere il bene
mentre anni di fuori scorrono
e il tempo scrosta la poca giovinezza
rimasta su questo viso invecchiato,
tu non conosci calendario
né altro che essere bambino,
malato aggrappato ai suoi disegni
con cui librarsi dal dolore,
Toctoc, Alfredo che un mattino
hai bussato per entrare
e dentro per sempre sei rimasto,
continua a farmi casa del tuo sguardo,
usami per restare vivo nel ricordo"
.

(Inedito 2018)

In prosa e in versi, a cominciare dalla raccolta di poesie Bambino Gesù (inizialmente stampata dalle Tipografie Vaticane per iniziativa del presidente dell’ospedale pediatrico), Mencarelli con scrittura incisiva mette a nudo la sua indifesa permeabilità alla vita che si mostra nelle trame lacerate del patimento, oppure straziata negli sbandamenti e nelle fughe; anche capace di togliere il velo, avvistare e nutrirsi della bellezza e della bontà del creato e delle creature.
Ormai scrittore affermato ha pubblicato il romanzo Tutto chiede salvezza (Mondadori 2021): “Daniele, in seguito a una violenta esplosione di rabbia, viene sottoposto a un TSO :trattamento sanitario obbligatorio”, si legge nella seconda di copertina. Mencarelli, fedele all’autenticità che è il motore primo della sua creatività, scrive un diario avvincente: dal martedì al lunedì, sette giorni di caldo opprimente in ospedale con cinque compagni di stanza. Il libro intriso di verità e umanità è un viaggio breve nella malattia mentale di un ventenne che ha occhi per guardare e parole per dire: rispecchiandosi negli altri ci rimanda i volti e le ombre di Mario, Gianluca, Giorgio, Madonnina, Alessandro incontrati in un arduo crocevia della vita e rimasti per sempre.
L’ultima opera di Mencarelli è il romanzo Sempre tornare (Mondadori ottobre 2021). Estate 1991, racconta il viaggio in autostop per città e borghi d’Italia di un diciassettenne senza soldi né documenti. Un apprendistato tra coraggio e incoscienza dove una nota anticipa quello che sarà lo spartito della vita: essere se stessi e attesa dell’incontro.
Tanta robba. Per dirla nel romanesco irresistibile, vissuto e narrato di un autentico scrittore.

AUTOBIOGRAFIE SCOLASTICHE

Amadou Hampâté Bâ

di Mario Bertin

Amadou Hampâté Bâ (1901-1991) è stato uno scrittore, filosofo e antropologo del Mali, allievo di Tierno Bokar, mistico Sufi e maestro coranico famoso per il suo messaggio di tolleranza religiosa e amore universale.
Hampâté Bâ occupò ruoli importanti all’interno dell’amministrazione coloniale francese nella regione dell’Alto Volta (oggi Burkina Faso), conducendo ricerche sulle tradizioni orali africane, che gli valsero la nomina di membro esecutivo dell’Unesco. Tra le sue opere pubblicate in italiano, segnaliamo il suo capolavoro narrativo L’interprete briccone (Edizioni Lavoro, 1988).

“Io sono un diplomato della grande università della Parola insegnata all’ombra dei baobab”.

“Io sono contemporaneamente religioso, poeta peul (dell’Africa Occidentale. Ndt), tradizionalista, un iniziato dei saperi segreti peul e bambara, storico, linguista, etnologo, sociologo, teologo, mistico musulmano, aritmologo e aritmosofo. Mi piace ridere e far ridere”.

“Se cercate un uomo felice, quello sono io. Danzo con i buffoni e parlo con i vagabondi”.

“I miei sforzi sono modesti e non pretendo, da solo, di far parlare tra loro la Croce e la Mezzaluna. Ma far sì che si parlino uomini di buona volontà appartenenti all’una e all’altra, questo è possibile. Peraltro, i miei modesti tentativi hanno già conosciuto qualche risultato. È così che, tra l’altro, nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1961, ho potuto, dopo molteplici peripezie, riunire sul monte Sion, a Gerusalemme, un prete e un rabbino e che, tutti tre, abbiamo pregato insieme per la pace e l’intesa tra li uomini, dopo che ciascuno aveva recitato il testo più sacro della sua religione.
Personalmente, considero il giudaismo, l’islam e il cattolicesimo come tre fratelli di una famiglia poligama, in cui c’è un solo padre, ma in cui ciascuna madre ha allevato il figlio secondo le proprie convinzioni”.

(I testi citati sono tratti da: Amadou Hampâté Bâ, Sur les traces d’ Amkoullel l’enfant peul, Actes Sud, Arles 1998)

Alla scuola della natura

Distinguere il vero dal falso
Un giorno un allievo andò dal suo maestro. Gli chiese quale era l’insegnamento che veniva dalle opere e dalle parole pronunciate da Maometto nel corso della sua vita da profeta.
Il maestro gli insegnò per sette anni quale era tale insegnamento. Arrivati alla fine del grosso volume in cui tali opere e tali detti erano contenuti, l’allievo che si aspettava di ricevere il suo idjaza, vale a dire il diploma di fine corso, si sentì dire:
- Finalmente! Domani mattina cominceremo lo studio delle opere e dei detti di Maometto…
- Al culmine dello stupore, l’allievo esclamò:
- Maestro! Io pensavo di avere terminato lo studio delle opere e dei detti di Maometto, e tu invece sembri dirmi il contrario.
- Certo! Tu hai terminato lo studio delle opere e dei detti del Profeta, ma soltanto dei falsi atti e dei falsi detti.
- E perché, maestro, mi hai fatto perdere tanti anni preziosi per apprendere delle false opere e delle false massime?
- È stato per insegnarti a distinguere il vero dal falso.

All’ascolto di Tierno Bokar
L’ho sempre detto: tutto quello che sono, lo devo a lui. È lui che “mi ha aperto gli occhi”, come si usa dire nelle iniziazioni africane, e che mi ha insegnato a leggere il grande libro della natura, degli uomini e della vita, riconducendo ogni cosa all’unità primitiva. È a lui che devo la mia formazione, la mia maniera di pensare e di comportarmi, e di “quell’ascolto dell’altro”, che è forse la sua migliore eredità e la migliore garanzia di pace nei rapporti con gli altri.

Dalla morte di Tierno Kounta, non ebbi più un maestro di scuola coranica; così mi occupai più o meno di ripassare le sue lezioni. In assenza di un marabutto capace di continuare la mia formazione, mio padre Tidjane Thiam prese su di sé tale incombenza. Sfortunatamente, abituato ad essere implacabile con sé stesso, fu molto duro con me e, a dire il vero, poco efficace; riuscì soltanto a togliermi il gusto dello studio. Mia madre, condizionata dalle regole peules sul pudore, che proibivano di ostentare i propri sentimenti nei confronti dei figli, non poteva lamentarsi con il marito. Così fu la coesposa Diaraw Aguibou ad occuparsi di me. Difese strenuamente la mia causa e ottenne da mio padre che rinunciasse a prendersi cura della mia formazione in attesa di trovare un valido maestro – ciò che succederà soltanto al nostro ritorno a Bandiagara, quando venni affidato a Tierno Bokar.
Liberato, ne approfittai per andare a giocare con gli amici, ma passai anche molto tempo con Koullel e con Danfo Siné, che venne spesso a cercarmi per condurmi con sé.

Le mie giornate non cambiarono molto. Nielé mi svegliava prima del sorgere del sole. Mi lavavo, facevo la preghiera del mattino, poi correvo a scuola, dove mi attendeva la tavoletta che riportava il testo coranico scelto la sera prima. Mi mettevo in un angolo e lo recitavo a voce alta fino a impararlo a memoria. Ogni alunno ripeteva la sua lezione urlandola a squarciagola senza preoccupasi degli altri in un chiasso indescrivibile, che, curiosamente, non dava fastidio a nessuno. Verso le sette, se avevo mandato bene a memoria il mio testo, prendevo la mia tavoletta e mi recavo da Tierno, che aspettava abitualmente nel vestibolo della sua abitazione, o più raramente nella sua camera. “Moodi! (maestro), gli dicevo, ho imparato la mia lezione”. Mi accucciavo accanto a lui e recitavo il mio testo. Se era soddisfatto, potevo andare a lavare la tavoletta per scrivervi nuovi versetti, seguendo le sue indicazioni. Se non lo era, conservavo la lezione del giorno prima per l’indomani, ma in questo caso accumulavo un giorno di ritardo sul tempo che mi era stato fissato per l’apprendimento del Corano – periodo che era normalmente di sette anni, sette mesi e sette giorni. Ma certi alunni più dotati, come il mio fratello maggiore Hammadou potevo terminarlo molto prima. Ogni lezione non appresa era punita da Tierno con alcuni leggeri colpi di liana o – castigo più doloroso – con una tirata di orecchi. Ma ciò sembrava a me affatto dolce rispetto al trattamento inferto a Bougouni da parte di mio padre Tidjani e di quello praticato da un gran numero di maestri di scuole coraniche dell’epoca.
Dopo aver copiato un nuovo testo lo presentavo a Tierno. Egli lo correggeva e lo rileggeva ad alta voce, mentre io lo seguivo con la punta dell’indice. Tornato al mio angolo, lo ripetevo da dieci a quindici volte. Si facevano così le otto del mattino. Tierno allora mi dava il permesso di tornare a casa.

Edizioni Lavoro, 1988

Un libro non basterebbe a dire chi era Tierno Bokar. Dividere la sua vita, il suo messaggio e il suo insegnamento in capitoli distinti, sarebbe un tentativo forzatamente artificioso e imperfetto perché un uomo come lui era un tutto. Tutto in lui era insegnamento: la sua parola, le sue azioni, il suo gesto più insignificante e perfino i suoi silenzi, che noi amavamo condividere, tanto erano piacevoli. Io tuttavia, malgrado le difficoltà, mi sentivo obbligato a trasmettere agli altri ciò che da lui avevo ricevuto e che ha segnato tutta la mia vita. 

ZIBALDONE MINIMO

Concentrazione

di Gianni Gasparini

La concentrazione ci parla etimologicamente dell’avere un centro, un punto in cui si raccolgono e si condensano pensieri e sentimenti. La virtù della concentrazione – dato che tale mi sembra – è tanto più apprezzabile quanto più difficoltosa e ostacolata ne è oggi la realizzazione. Nei nostri sistemi abbiamo a disposizione una molteplicità straordinaria e potente di strumenti e protesi che ci permettono di sviluppare contemporaneamente esperienze diverse, di partecipare ad avvenimenti che hanno luogo in spazi lontanissimi, di spostarci velocemente attraverso il pianeta. Nessuna generazione umana ha conosciuto queste possibilità che sono effettivamente eccezionali e oggi alla portata di moltissime persone attraverso internet, il computer, lo smartphone con le sue enormi risorse racchiuse in un oggetto portatile.
La nostra vita quotidiana è segnata dal multitasking, lo svolgimento di una serie di attività che facciamo contemporaneamente. Peraltro, dobbiamo riconoscere che esse vengono continuamente interrotte – pensiamo agli stimoli incessanti di telefonate, e-mail, sms, WhatsApp, tweets e quant’altro che si accavallano – e vengono spesso lasciate incompiute, contribuendo a darci la sensazione sgradevole di essere in affanno, in ritardo o in difetto rispetto a ciò che ci viene sollecitato o che potremmo fare. L’accumulo di attività diventa un agglutinamento eterogeneo come quello che appare sullo schermo del computer o dello smartphone, invitandoci a reagire o rispondere nel più breve tempo possibile, prima che altri messaggi o richieste si aggiungano a quelli inevasi. Il risultato è spesso una dispersione e dispersività affannosa e ansiogena che ostacola la possibilità di svolgere le singole azioni e di portarle a termine.
Al contrario, la nostra vita e la nostra attività normale hanno bisogno di concentrazione. Per svolgere i compiti più semplici della vita quotidiana dobbiamo concentrarci su ciò che stiamo facendo: dal preparare una colazione o un pasto in casa al guidare l’automobile, dal leggere un libro allo scrivere a un amico per e-mail, dal pregare all’osservare un’opera d’arte.
Per i bambini e i ragazzi è importante concentrarsi sia nel gioco che a scuola: la concentrazione, come sappiamo, è fondamentale per l’apprendimento. Un’attività lavorativa o professionale priva di concentrazione è inimmaginabile, specialmente se ha a che fare con il servizio verso altre persone: penso a un vigile urbano o a un poliziotto in servizio, a un medico in ospedale o in sala operatoria, a un insegnante che stia svolgendo una lezione. Ma anche a un atleta prima della gara, a uno scrittore impegnato nella silenziosa sfida di un nuovo racconto che sta nascendo, a un calciatore che sta per tirare il calcio di rigore.
Sono oramai pochi i luoghi pubblici dove si preserva questo prezioso tesoro tramandatoci dalla nostra cultura che è la concentrazione: penso soprattutto alle biblioteche, dove ancora si deve osservare la regola del silenzio, ed anche alle chiese e ai luoghi di culto nelle ore silenziose in cui sono aperte a tutti senza che vi si svolgano i riti religiosi. E poi ci sono, nelle aree urbane, parchi e giardini in cui è ancora possibile – in certe ore del giorno – passeggiare in silenzio o sedersi su una panchina a leggere, a scrivere, a meditare. O semplicemente a guardare i movimenti di un’anatra che si muove nello stagno.