Marzo 2021

In questa pagina:
Cose da fare: «Ex malo, bonum» (Maddalena Gissi)
Con altro sguardo: La frana di Camogli e le bare in mare (Daniele Mencarelli)
Storia contemporanea: L'età giolittiana (Paolo Acanfora)
Scuola è: Lavoratori invisibili (Elio Formosa)
Hombre vertical: Che c’entra l’umiltà con l’attenzione e la fraternità? (Emidio Pichelan)
La poesia dei luoghi: Un luogo nelle Prealpi lombarde (Gianni Gasparini)
Letture: Al danno c’è riparo. Una bella storia (Leonarda Tola)
Sul filo del tempo: Marzo è matto (Mario Bertin)
Versante didattica: Linee pedagogiche per il sistema integrato “zerosei” (Donato De Silvestri)
Un anno con Pinocchio: La scuola di Pinocchio (Gianni Gasparini)
Dai territori: Giovanni Vannucci. In memoriam
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COSE DA FARE

«Ex malo, bonum»

di Maddalena Gissi

S.Agostino di Ippona

«Ex malo, bonum»: così, nel corso di una trasmissione televisiva, Romano Prodi commentava – citando S. Agostino - l’incarico da poco conferito al professor Mario Draghi perché tentasse di costituire un nuovo governo, dopo le dimissioni di Giuseppe Conte e il fallimento del tentativo di dar vita a un Conte ter, ipotesi su cui era in corso il mandato esplorativo affidato al Presidente della Camera Roberto Fico nel momento in cui scrivevo le mie riflessioni sull’Agenda del mese scorso. Non nascondevo, in quelle note, la mia preoccupazione per una crisi esplosa in piena pandemia, senza che se ne cogliessero in modo chiaro le motivazioni e nella più totale incertezza di prospettive.
Il fatto che solo da pochi giorni si sia completata la nuova squadra di governo ci dà intanto la misura del tempo che la soluzione della crisi ha richiesto: più o meno un mese, nel quale tanti dei problemi che ci affliggono non si sono certo risolti, né dissolti. A partire da una pandemia che non accenna a dare tregua. La coincidenza è senz’altro casuale, ma è un dato di fatto che il periodo nel quale si è dovuto lavorare per ridare al Paese un governo è lo stesso nel quale abbiamo visto ridimensionarsi le previsioni sulla fornitura delle dosi di vaccino di cui c’è bisogno per una campagna di immunizzazione la cui efficacia dipende strettamente dalla diffusione massiccia e dalla rapidità degli interventi.
Forse è troppo sperare che il nuovo Governo riesca a colmare in poco tempo i vuoti nell’approvvigionamento delle dosi e a recuperare i conseguenti ritardi nella gestione della campagna vaccinale: ma credo che questa sia annotata come una delle più urgenti “cose da fare” nell’agenda di Mario Draghi. La sua autorevolezza, universalmente riconosciuta e ispiratrice del commento di Prodi, è il vero punto di forza di questo Governo. C’è da augurarsi che le ragioni di una necessaria condivisione di responsabilità riescano a prevalere sulle dinamiche latenti in una maggioranza ancor più variegata di quelle che l’hanno preceduta in questa tormentata Legislatura.
Non è di poca rilevanza il fatto che nel suo giro di consultazioni prima di sciogliere la riserva sul suo incarico il professor Draghi abbia voluto incontrare, oltre alle forze politiche, anche le forze sociali: una scelta inusuale e certo non casuale, che considero un bel segnale rispetto a un’esigenza cui facevo riferimento il mese scorso, quando auspicavo “un contesto che valorizzi le relazioni sindacali come fattore importante di supporto ad azioni di buon governo”.

Il cambio di Governo ha portato con sé un nuovo avvicendamento al Ministero dell’Istruzione, alla cui guida è stato chiamato il professor Patrizio Bianchi. Si è occupato di scuola, oltre che nel suo nutrito curriculum di studi e ricerche, nella pregressa esperienza come assessore regionale in Emilia Romagna e, più di recente, nel ruolo di coordinatore della task force chiamata, nell’aprile del 2020, a delineare un piano per il ritorno in sicurezza alle attività scolastiche in presenza.
Lo abbiamo incontrato pochi giorni fa, un utile momento di confronto su obiettivi e priorità; dal reciproco ascolto sono emerse anche significative convergenze, soprattutto sul valore riconosciuto alle relazioni sindacali e al dialogo, che Bianchi afferma di voler rendere sistematico. Trovo questo atteggiamento molto in linea col segnale di attenzione cui ho fatto accenno parlando dell’incontro di Draghi con le parti sociali. È presto per dare valutazioni che, come nostro costume, discenderanno dal concreto operare e dalle scelte che verranno fatte in un contesto dove non mancano problemi in attesa di soluzione. Quelli spinosi e talvolta imprevedibili generati dall’emergenza pandemica (dal continuo alternarsi di decisioni sulle modalità operative delle scuole, alla gestione molto confusa e fin qui disomogenea del piano vaccinale), più quelli che si trascinano da tempo e che la crisi indotta dalla pandemia ha reso ancor più evidenti (forti squilibri fra aree territoriali, alto tasso di dispersione scolastica, fatiscenza di molte strutture edilizie, abnorme diffusione del lavoro precario).
Intanto, mentre entra nel vivo la fase in cui si dovrebbero mettere le fondamenta per un buon avvio del prossimo anno scolastico, affrontando quel complesso di questioni (la prima è quella della mobilità) che in quanto ricorrenti potremmo considerare “ordinaria amministrazione”, dovremmo porre la massima attenzione sulla programmazione degli interventi su cui investire la quota riservata a istruzione e formazione nell’ambito delle ingenti risorse a disposizione del Recovery Plan. Uno specifico tavolo di confronto sarà attivato nei prossimi giorni su questo tema: il tempo a disposizione non è molto, visto l’approssimarsi della scadenza (30 aprile 2021) entro cui il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), dopo l’approvazione del Parlamento, dovrà essere presentato alla Commissione Europea. Tra le cose da fare, questa rappresenta oggi per noi un’assoluta priorità, consapevoli che è quello il passaggio nel quale dovremo dimostrare che questa crisi, con tutte le difficoltà e le sofferenze indotte, può essere trasformata in un’opportunità di rinnovamento, di cambiamento positivo e di crescita.

CON ALTRO SGUARDO

Con questo numero Daniele Mencarelli inizia la sua collaborazione con la nostra Agenda mese. Poeta e scrittore, nato a Roma nel 1974, ha pubblicato nel 2019 per Pequod la raccolta di versi Tempo circolare (Poesie 2019-1997). Il suo primo romanzo è stato La casa degli sguardi (Mondadori 2018); con l’ultimo, Tutto chiede salvezza (Mondadori 2020), ha ottenuto l'anno scorso il Premio Strega giovani.

La frana di Camogli e le bare in mare

di Daniele Mencarelli

Il nostro è un Paese delicato.
Lo è sempre stato. Siamo crocevia di culture e popoli, di lingue e storie. È la nostra natura profonda. A tutti i livelli possibili. Il nostro fazzoletto di terra poggia su placche tettoniche contrapposte, in perenne scontro l’una sull’altra, come non bastasse, la nostra formazione idrogeologica è delicata quanto unica. Siamo affacciati sul mare e al tempo stesso attraversati da due catene montuose.
Da ogni punto di vista possibile, il nostro Paese chiede attenzioni. Sembra quasi volerci ricordare che tanta bellezza, di ogni tipo umanamente concepibile, richiede l’impegno di un innamorato che non abbassa mai la guardia.
Ultimo squillo, solo in ordine di tempo, la frana al cimitero di Camogli. Lo scorso 22 febbraio.
Un costone intero è precipitato in mare, e con lui tutto ciò che l’uomo vi aveva costruito sopra. Un cimitero, appunto, e il suo sommesso bagaglio.
Oltre trecento bare sono finite nel Mar Ligure, ancora oggi, a distanza di una decina di giorni, procede il recupero delle salme.
Le fotografie subito rimbalzate dal luogo della frana sono terribili. Lasciano sgomenti.
Non occorre grande sforzo di immaginazione nell’immedesimarsi in tutti quei familiari che hanno visto un loro caro defunto finire in acqua. Con tutto quel che ne consegue. Ma quelle fotografie, che avranno senz’altro fatto il giro del mondo, propongono anche altre chiavi di lettura. Il dolore delle famiglie coinvolte è per certi aspetti la prima delle interpretazioni possibili.
Quelle immagini assumono a tutti gli effetti il valore di un monito, emblematico e sinistro, si spera non profetico.
Stanno a dirci che una terra che non viene curata, onorata, è una terra che reagisce, silenziosamente, spesso drammaticamente. Quelle bare galleggianti ci dicono che la nostra storia, il nostro passato, non bastano a garantirci un patto eterno con i luoghi della nostra vita.
Solo l’amore, fatto di gesti e attenzioni, può garantire una relazione salda con il nostro Paese. Il vero problema è proprio questo.
Da quanto non ci relazioniamo al Paese con amore?
Sotto tutti i punti di vista. Siamo come quegli innamorati che finiscono per cedere alla consuetudine, la pigrizia. In altre parole, al disamore.
Che sia dentro una scuola di periferia, o in un’aula di tribunale di provincia, o lungo un sentiero di montagna abbondonato a se stesso.
La sostanza non cambia.
Da decenni non curiamo il nostro territorio, quello che abbiamo ricevuto in dote dai nostri genitori e che dovremo passare ai nostri figli.
Quello che sappiamo fare è di reagire alle emergenze, le calamità, studiare e approvare piani d’emergenza che hanno più o meno l’effetto di un cerotto su una ferita che chiede ben altra attenzione.
Reagiamo con prontezza, ma non sappiamo pianificare, e quando lo facciamo i nostri progetti naufragano in un sistema di veti e responsabilità senza fine.
Il nostro Paese ci chiede di cambiare, da tanto tempo, forse è il momento di iniziare a provarci seriamente.

STORIA CONTEMPORANEA

A partire da questo mese, con sintetici interventi si vuole proporre una rilettura di alcuni avvenimenti o temi della storia italiana ed internazionale che si ritengono particolarmente rilevanti ai fini della comprensione della nostra storia contemporanea. Si tratta di una serie di contributi occasionati da anniversari a cadenza decennale. Si partirà dal 1901 sino ad arrivare al 2011. 

1901 – L’AVVIO DELL’ETÀ GIOLITTIANA
Il riconoscimento delle dinamiche sociali

di Paolo Acanfora

Convenzionalmente la cosiddetta età giolittiana viene fatta iniziare dal 1901. È, per certi versi, una data curiosa, perché non corrisponde al primo governo Giolitti – che fu, invece, in carica dal maggio del 1892 al dicembre del 1893. Ancora di più, il governo nazionale del 1901 non fu neanche guidato dal politico piemontese, perché alla presidenza del Consiglio vi era il ben più anziano Giuseppe Zanardelli. Qual è allora il motivo di questo inedito termine a quo?
Innanzitutto, la scelta di Zanardelli – patriota lombardo che aveva attivamente partecipato alle lotte risorgimentali – era avvenuta nella prospettiva di una transizione politica ed istituzionale apertasi dopo la morte di Umberto I. L’assassinio del Re, avvenuto il 29 luglio 1900 per mano dell’anarchico Gaetano Bresci (come vendetta per i morti dei moti del 1898), aveva infatti aperto una grave crisi che occorreva chiudere velocemente. Dopo il breve passaggio del governo di Giuseppe Saracco (giugno 1900-febbraio 1901), l’incarico a Zanardelli avrebbe dovuto traghettare il paese verso un ritorno alla normalità politica e sociale senza passare per una dura fase repressiva, che pure veniva sostenuta da alcuni settori della società e della politica nazionale. L’idea era di portare avanti una nuova svolta liberale che aprisse scenari inediti anche nel rapporto con la classi popolari, mirando ad una complessiva modernizzazione del paese.
In questo contesto quale fu il ruolo di Giolitti? Nominato ministro dell’Interno, la sua influenza fu tale che questo esecutivo è stato ribattezzato dalla storiografia come il governo Zanardelli/Giolitti. L’anziano politico lombardo aveva nel più giovane collega uno straordinario interprete di quella svolta liberale che aveva dato origine al nuovo ministero. Ancor più di Zanardelli fu, infatti, Giolitti a dare sostanza alla nuova fase che avrebbe caratterizzato la storia italiana sino alla vigilia della I guerra mondiale. Da questo momento in avanti, sarà il politico di Mondovì a guidare con continuità il paese e a promuovere una politica riformista attenta ai nuovi protagonismi sociali. Non si sta parlando di una fase riformistica come altre nella storia nazionale ma di una vera e propria svolta, fondata sulla profonda ed urgente convinzione di doversi adeguare ad una nuova realtà che si era ormai affacciata in modo irreversibile. La forza delle masse popolari, il crescente ruolo dei suoi rappresentanti politici e sociali, non potevano essere più ignorate né tantomeno combattute con i vecchi strumenti.
Se si dovesse indicare un punto fondamentale della politica giolittiana, dovremmo far riferimento innanzitutto alla sua apertura a due soggetti popolari rimasti, per diverse ragioni, esclusi o marginali nel processo di unificazione italiana: i socialisti ed i cattolici. L’apertura alle forze popolari non rispondeva solamente ad esigenze tattiche (che pure, inevitabilmente, sono state sempre presenti nella visione parlamentarista giolittiana) ma all’esigenza imprescindibile di allargare le basi di consenso dello Stato italiano. Portare pienamente dentro l’area della rappresentanza politica e sociale soggetti che ne erano esclusi (o marginali) significava innanzitutto legittimare agli occhi di ampi strati del popolo italiano le istituzioni unitarie, non più da considerarsi nemiche per il loro orientamento anticlericale o classista. Per rispondere all’esigenza di integrare le masse nello Stato, Giolitti cercò, dunque, da una parte di aprire alla partecipazione dei socialisti riformisti al governo nazionale (isolando così i gruppi estremisti), dall’altra di assumere un atteggiamento di neutralità nei conflitti sociali. L’imparzialità del governo nelle tensioni tra le classi era una novità assoluta che sottolineava il cambiamento di visione: le élite politiche non sono ipso facto identificabili con i ceti imprenditoriali. Alle dinamiche sociali doveva essere riconosciuta una propria autonomia. Non è un caso, naturalmente, che la nascita della Confederazione generale del Lavoro (1906) avvenne proprio dentro l’età giolittiana.
Chiaramente, il rapporto con i socialisti fu assai turbolento. Le diverse anime del partito avevano assunto posizioni differenti e gli stessi riformisti si rifiutarono di entrare a far parte di un governo “borghese” (come pure era avvenuto, ad esempio, in Francia). Ma anche dal punto di vista liberale, il dialogo con i socialisti non significava, ovviamente, la ricerca di un’alleanza. Tutt’altro. Quando fu introdotta la riforma che portò al suffragio universale maschile (1912), in vista delle elezioni dell’anno successivo, Giolitti mise in piedi un non facile accordo con i cattolici (il cosiddetto Patto Gentiloni) in funzione antisocialista. Un patto che prevedeva l’impegno da parte di candidati liberali a sostenere alcuni punti programmatici sui quali era alta la sensibilità della Chiesa, in cambio dei voti dell’elettorato cattolico, ancora privo di un proprio partito di riferimento. Il tentativo era, insomma, di muoversi dentro un’area di reciproca legittimazione.
Questa democratizzazione delle istituzioni liberali avveniva in un clima fibrillante. Nel 1911 l’Italia giolittiana si era lanciata in una nuova avventura coloniale, giungendo alla conquista militare della Libia, sapientemente preparata sul piano diplomatico. L’acceso nazionalismo che l’aveva accompagnata non si placò, naturalmente, con la fine delle operazioni. In linea con il resto delle nazioni europee, l’Italia stava vivendo fratture profonde tra socialisti riformisti e rivoluzionari, tra cattolici transigenti ed intransigenti, tra nazionalisti imperialisti e liberal-democratici. Fratture che preparavano nuove stagioni tanto sul piano nazionale quanto su quello internazionale. Lo scoppio della guerra mondiale nel 1914 cambiò radicalmente lo scenario: nulla più sarebbe rimasto lo stesso.

SCUOLA È

Lavoratori invisibili

di Elio Formosa

Tra i fumetti che un tempo facevano compagnia ai ragazzi ce ne era uno che, soprattutto in virtù del titolo, ebbe scarsa notorietà: l’uomo invisibile. Maggiore successo, ma solo di pubblico e non di critica, ebbero i film su questo particolare soggetto che esisteva, parlava e vedeva, insomma disponeva di tutti i cinque sensi, ma che, tuttavia, nessuno vedeva. Per essere visto doveva fasciarsi da capo a piedi, lasciando liberi solo gli occhi per vedere. In tal travestimento faceva tanta paura che i più lo prendevano a pistolettate o, nella migliore delle situazioni, scioglievano i cani.
La nostra economia nel suo complesso e nella sua complessità, conosce il fenomeno dell’uomo invisibile, a dire il vero sarebbe più opportuno parlare degli uomini invisibili, che uomini non sono ovviamente, ma sono interi settori. È, tuttavia, una invisibilità parziale, perché alcuni beneficiano della loro presenza, altri fanno di tutto per non vederli e se proprio non possono farne a meno ne sviliscono il valore.
Vanno annoverati tra i settori “invisibili” quelli dell’Educazione e dell’Istruzione non statale e quello della Formazione Professionale che, se sommati, fanno oltre 25.000 istituzioni, divise tra Nidi e micro nidi, Scuole dell’infanzia, Scuole primarie, Scuole di primo e di secondo grado, Centri di formazione professionale e oltre 200.000 addetti tra educatori, docenti e personale Ata.
Nel numero, che certo non è invisibile, non abbiamo compreso le Accademie, le Scuole di danza, le Università, i Convitti, i Conservatori, le ludoteche, le Scuole per interpreti e traduttori, le Scuole speciali per minori, gli Istituti di ricerca, le scuole internazionali e ancora altre istituzioni. Il comune denominatore che li lega assieme è la precarietà dei rapporti di lavoro e la instabilità delle istituzioni educative e scolastiche. Tuttavia il tema dell’istruzione non statale, sebbene occupi un così alto numero di lavoratori, i quali non hanno gli stessi diritti e le stesse tutele di tutti gli altri operatori della scuola, rimane un argomento ad alta tensione. Chi affronta il tema rischia, suo malgrado, di inciampare nella annosa e non ancora risolta questione dei cosiddetti diplomifici e dei contratti di sottotutela, firmati con grande disinvoltura da fantomatiche ed estemporanee organizzazioni sindacali, pronte a tutto pur di avere una manciata di iscritti. Situazioni, queste, che trascinano al ribasso un settore intero che, per merito dei suoi lavoratori, dei sacrifici che affrontano e spesso delle angherie che sopportano, non merita di essere gettato tra le fiamme dell’inferno o lasciato nel limbo dell’indifferenza e delle calunnie senza nome.
La scuola non statale non è solo un argomento difficile da affrontare perché complesso e non riconducibile ad una matrice unica e identitaria, è difficile soprattutto perché investe e tocca alcuni punti, nervi scoperti, che ancora oggi sono causa ed effetto di divisioni e conflitti, soprattutto di natura ideologica tra i fautori della scuola statale e quelli, meno numerosi, della scuola pubblica non statale.
È un duello perdurante, inutile e risibile; comunque poco serio, che si combatte oggi come cento anni fa con le stesse armi e gli stessi argomenti e che non trova sosta, pace e soprattutto un vincitore. È un duello che richiama anche il principio della convenienza e dell’opportunismo, perché non tutta la scuola non statale, pubblica e paritaria, cade sotto gli strali dei suoi detrattori. Ad esempio l’offerta educativa e scolastica pubblica, ma privata, 0-6 anni, è una necessità che viene tollerata, accettata e spesso anche valorizzata, così come quella, ma solo in parte, della scuola primaria, perché in molte regioni l’offerta pubblica non copre l’intera domanda, o non risponde pienamente alle esigenze delle famiglie. In queste situazioni, l’applicazione del principio della sussidiarietà, sin qui poco esplorato e poco declinato per ragioni di convenienza, accompagnato da risorse pubbliche mette a tacere tutte le coscienze antagoniste e ribelli. La scuola primaria e quella di primo e secondo grado ricade tutta e senza sconti sotto le feroci critiche di chi non la tollera e la vorrebbe chiudere. L’elenco dei pro e dei contro è tanto lungo e tanto diversificato quanto paradossale e rischioso. Le conseguenze di questo scontro senza fine, privo di senso, di contenuti e di orizzonti, sta tutto nella chiusura definitiva delle migliori esperienze educative e scolastiche non statali e nella perdita di migliaia di posti di lavoro. A rimanere in piedi saranno solo quelle istituzioni private che, invisibili ai più, rilasciano titoli di studio a caro prezzo e che hanno poco o niente di educativo e scolastico.

HOMBRE VERTICAL

Che c’entra l’umiltà con l’attenzione e la fraternità?

di Emidio Pichelan

Mentre l’Europa era in preda alle convulsioni della Grande Guerra, il grande e mite Antonio Machado, allora un maestro mal vestido, enjuto y seco, malvestito asciutto e magro, soleva passeggiare per i campi di Castiglia. Perdía la vida, come scrive nell’introduzione di “Campos de Castilla” (1917), guardando le cicogne in cima alle torri, le file dei pioppi lungo il Duero, i contadini in sella a los burros, agli asini strapazzati dagli anni e dalle fatiche, meditando sobre los enigmas del hombre y del mundo. Obiettivo di tanto andare e di tanto riflettere: scrivere il romanzo dell’infinito umano, il poema degli enigmi dell’uomo e del mondo.
Le umane vite sono un enigma, come il cuore degli uomini; lo si vede soprattutto nelle circostanze più improbabili. “Il sergente nella neve” di M. Rigoni Stern è in ritirata dalla sconclusionata spedizione militare italiana in Russia, tallonato dai patrioti russi e dal generale inverno ben noto alle velleità napoleoniche: l’orizzonte infinito d’un biancore accecante, la ritirata sembra perdersi nel nulla mentre a finire sono le forze fisiche. Ed ecco dal niente apparire un’isba: la salvezza in un mare di disperazione. Il nostro eroe si avvicina, apre la porta quasi con vergogna, non deve dire niente: una giovanissima mamma gli porge, con un sorriso, una preziosissima scodella di latte e di miglio. Un’ancora umana quando il cuore, come dice il poeta, aveva il diritto di affogare nella paura.
Qualche anno appena prima, in un boschetto non lontano da Gerona, città catalana non lontana dal confine francese, il soldato repubblicano Miralles (“specchio” in catalano) si imbatte in Rafael Sánchez Mazas, l’ideologo franchista in fuga dal plotone di esecuzione. I due si guardano negli occhi, si rispecchiano reciprocamente nelle sorde vibrazioni di vita e di morte e di compassione che affollano le menti e i cuori nei momenti topici. È il momento cruciale di “Los soldados de Salamina”, il libro che ha dato fama e gloria a Javier Cercas. Miralles abbassa il fucile, volge lo sguardo altrove e lascia andare l’ideologo franchista.
La prima lezione impartita dalla pandemia è di umiltà, più che mai necessaria in un annus horribilis come quello lasciato alle spalle (ma non la partita è tutt’altro che finita). Ce ne sono stati altri anni horribiles ma, disabituati a far tesoro della memoria e dell’esperienza, abbiamo preferito credere – quanto ciecamente? - al progresso lineare ed esponenziale. Dunque, un bagno nell’umiltà – la cosa più realistica e più nelle nostre disponibilità - è quanto mai salutare. A iniziare dalla politica: “così [com’è] non è più una sana discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune, bensì solo ricette effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace. In questo gioco meschino della squalificazione, il dibattito viene manipolato per mantenere lo stato di controversie e contrapposizioni” (Enciclica “Fratelli tutti”).
È suonata la campanella di un umile realismo. È l’ora dell’approccio francescano al nuovo mondo che dobbiamo costruire. Affidandoci a quell’umiltà di cui scriveva Simone Weil (ne abbiamo parlato altre volte): “l’umiltà è soprattutto una qualità dell’attenzione”. Dove l’attenzione si intende lo sguardo verso l’altro. Può essere di riconoscimento o di rifiuto; per i buoni samaritani non può che essere di riconoscimento. Anzi, per iniziare ad addentrarci nel nuovo mondo tratteggiato dal primo Papa capace di riassumere in sé lo slancio francescano con il discernimento ignaziano, nel mondo vivificato dall’amicizia sociale.

LA POESIA DEI LUOGHI

Un luogo nelle Prealpi lombarde

di Gianni Gasparini

Le Prealpi lombarde circondano diversi laghi prealpini. Penso in particolare al Lario, alla sua caratteristica forma a forcella con i due rami di Como e di Lecco che si dipartono all’altezza di Bellagio, a quel triangolo lariano che comprende l’area di monti non molto alti che stanno tra le due città. Il ramo di Lecco del Lago, come è noto, è quello in cui è ambientata la vicenda manzoniana dei Promessi sposi, il cui incipit è appunto “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti...”.
Mi concentro su un luogo singolo nel triangolo lariano e scelgo Civate, antica cittadina non distante da Lecco la quale si specchia nel modesto lago di Annone disteso ai piedi del Monte Barro e del Monte Cornizzolo. Civate si trova allo sbocco della valle dell’Oro, nome favoloso che deriva da una deformazione del latino vallis deae orum o valle della dea delle sorgenti.
Il gioiello di Civate è l’abbazia di San Pietro al Monte Pedale, l’antico nome del Cornizzolo. Sui suoi fianchi venne edificata mille anni fa una costruzione che, sostituendo quella dell’VIII secolo attribuita al re Desiderio, si è conservata ottimamente con i suoi straordinari affreschi dell’Apocalisse e gli stucchi del ciborio che richiamano quelli della basilica di Sant’Ambrogio a Milano. L’abbazia, preceduta da un ampio spazio a prato, sovrasta la costruzione staccata di un cospicuo battistero dedicato a San Benedetto. Non è frequente trovare come a San Pietro un connubio così felice tra ambiente naturale e costruzione architettonica: la posizione dell’abbazia beneficia di un paesaggio naturale intatto a cui si unisce una vista molto estesa sui piccoli laghi sottostanti e sulle Grigne, cime tra le più alte delle Prealpi.
Ma la rarità di San Pietro sta nel fatto che per raggiungerlo occorre anche oggi, in una zona fortemente antropizzata come quella di Lecco, andarci a piedi. Per recarsi all’abbazia l’unico mezzo è il camminare come un tempo, salendo a piedi per circa un’ora sul sentiero che si arrampica nel bosco di castagni, carpini e altre essenze. Questo fattore ha certamente contribuito a mantenere il fascino di un luogo che conobbe per secoli la presenza dei monaci benedettini.
Parecchi anni fa venne organizzato qui un concerto di musica antica di un ensemble francese, che eseguì una scelta delle Cantigas de Santa Maria e un repertorio di canti trovadorici medievali. Ne serbo un ricordo incantato: quella volta si fece ricorso all’elicottero per trasportare il complesso dei musicisti con i loro strumenti nel luogo antistante San Pietro. All’evento memorabile, che grazie alla potenza della musica ai primi secoli dell’abbazia, poterono assistere cinque o seicento persone.
La bellezza e singolarità di Civate e San Pietro consiste, non da ultimo, nelle fioriture che in tutte le stagioni dell’anno il bosco presenta. Il periodo più ricco e significativo è l’inter-stagione tra inverno e primavera, quando la neve si scioglie e i fiori, ben prima di quando accada nelle Alpi, fanno il loro ingresso nel bosco e nel sottobosco. La vista è attratta dalle corolle bianche degli ellebori, le rose di Natale che qui fioriscono a centinaia e permangono parecchi mesi, da dicembre fino alla primavera inoltrata. Da lontano gli ellebori assomigliano a pezzi di carta sparsi disordinatamente nel bosco, ma poi via via che ci si avvicina se ne ammirano la grazia e i gradi diversi di fioritura, che incidono sulle sfumature di colore delle corolle. Ma sono soprattutto i piccoli fiori nuovi, quelli che testimoniano e annunciano il ciclo del ricominciamento annuale, a colpire chi sappia osservare con attenzione, indagando volta a volta sui margini del sentiero, a lato del torrente o sui pendii del monte. Ecco allora le primule, toccanti nella loro inerme piccolezza che si fa strada tra verdi foglioline ed esili steli bianco-gialli; e poi le pervinche dall’inconfondibile color viola e dal “segno del cinque” che esse riproducono nella propria struttura pentagonale; e poi gli anemoni a profusione (l’erba trinità o Hepatica nobilis) che inondano gli angoli ombrosi con i loro tre colori alternati – viola, rosa e bianco – e si distinguono per la precoce fioritura che precede la nascita delle caratteristiche foglie trilobate; e ancora le scille viola, le potentille gialle, le pulmonarie dalle tinte oscillanti tra il blu e il rosa, le violette odorose e altri vegetali ospiti delle Prealpi. E spiccano ai margini del bosco, per il loro rosso vivo, le bacche persistenti sugli arbusti di pungitopo e di agrifoglio.
Su tutti poi, emblematico anche per il nome, spicca per la sua misurata bellezza il bucaneve (Leucojum vernum), che con la sua elegante campanellina bordata di giallo e di verde rallegra il cammino, annunciando l’eterno ritorno del tempo e l’imminenza di una nuova stagione.

LETTURE

Al danno c’è riparo. Una bella storia

di Leonarda Tola

L’ultimo libro di Mariapia Veladiano “Adesso che sei qui” (Guanda, gennaio 2021) racconta quella parte di mondo che aspetta di essere riparato attraverso un cambio di sguardo: dove la crepa si apre, riparare è possibile, anzi è bello e attraverso la scrittura si traccia il sentiero su cui è possibile incamminarsi. Il mondo della scrittrice, voce affermata della narrativa italiana, per vocazione e mestiere è la scuola: la scuola è il suo “tuffo nella vita”, attenzione diretta ad ogni scolaro/studente con la volontà di imparare a riconoscerne la diversità, rispettandola e amandola. Il libro tuttavia non è una storia di scuola ma una storia d’amore: tra una zia e una nipote, allevata come figlia. A lieto fine, nonostante tutto: il tutto di dolore, perdita, smarrimento, paura che è la malattia di Alzheimer. Protagonista incontrastata l’amata zia Camilla che dalla prima riga (Un giorno di agosto) ci appare in quello che, della malattia, “chiamano esordio”, come il debutto di un artista: sotto un sole infuocato la zia settantaseienne passeggia nella piazza del paese, elegante e impeccabile com’è nella sua natura, ma confusamente vestita con guanti, sciarpa di lana e cappotto.
L’esordio non è quando la malattia si mostra al mondo. È quando il mondo la vede”. Da questo inizio e per 56 brevi capitoli anche introdotti da annotazioni tratteggiate in corsivo, siamo trasportati dentro questa malattia e il suo mistero: essa stessa quasi un romanzo che apre a sorprese, inaspettati attraversamenti e svolte dove il dire e il fare, il nascondersi e il mutare di zia Camilla sono stazioni con cadute e conquiste sulla via di una vita altra. La risposta alla progressione inesorabile della malattia (regressioni) trova il passo esperto del saper raccontare che inchioda alla pagina. Che cosa ci può essere di avvincente nell’ordito senza trama di una quotidianità ingarbugliata dal declino mentale dentro la nebbia della smemoratezza e dell’oblio?
Ciò che accade in questo racconto di prezioso accudimento (il moderno caregiving) è l’accumulo di sentimenti, reazioni, parole e gesti nelle tante persone coinvolte in un crescendo di compartecipazione, cordialità e inattesa allegria; quasi sprazzi di felicità. Reciprocità del dare e dell’avere nelle giuste relazioni che disinnescano il disadattamento affettivo e creano armonia. Innanzitutto la nipote Andreina, insegnante, anima della storia, spinta da premura amorosa, artefice del capolavoro di cura: la zia Camilla protetta a casa sua, vicina alle sue rose, circondata dalle cose che ha sempre custodito e amato.
Zia Camilla ci ha permesso di diventare tutti migliori”: i parenti, le “governanti” eritree e algerine (proibito da Camilla chiamarle badanti), le ragazze del “Progetto Alzheimer”. Un microcosmo rappresentativo è convocato ad interagire: figure ben delineate che diventano personaggi con vita propria, luoghi evocati di un paesaggio dell’anima tra l’Adige e il lago di Garda. Da qui i pezzi autentici dell’autentico talento narrativo della Veladiano.
Un valore in più nel romanzo è il parallelismo ricorrente tra la cura del malato mentale e il compito della scuola di fronte al disagio infantile e giovanile. Nell’esperienza di Andreina le due realtà sono ravvicinate nell’opzione educativa e di cura che va incontro ai bisogni, “aggiusta” e risana. Non manca la dimensione sociale con la parte assegnata al “Progetto Alzheimer” del Trentino che segnala l’importanza della presa in carico da parte delle istituzioni dell’assistenza al malato. Da soli non si può. Serve aiuto. Vale sempre l’avvertenza di Don Milani: “Politica è uscire insieme dai problemi, uscirne da soli è solo avarizia”.
A chi tocca” la temuta malattia? Studiarla dimostra che nessuno può dirsi al sicuro. Un libro sulla fragilità: un’esplorazione a partire dalla punta dell’iceberg che è la malattia mentale per svelare la profondità della fragilità che, “con tutto il suo disordine, è la verità della nostra vita”. Di ogni vita: da maneggiare con ogni cura.

SUL FILO DEL TEMPO

Marzo è matto

di Mario Bertin

Il mese di marzo, nella tradizione occidentale, è legato alla follia. Forse a causa della sua instabilità climatica, a cavalcioni com’è tra inverno e primavera, e del fatto che “non ha un dì come l’altro”. Secondo un antico proverbio, “Marzo è pazzerello guarda il sole e prendi l’ombrello”. Così lo canta anche Giovanni Pascoli:

Marzo è matto.
Ormai che si è fatto questo nome,
chi glielo leva più?
Eppure vorrei vedere un altro al posto suo,
così a cavalcioni fra inverno ed estate
fra caldo e freddo
e, da una parte, lo tira il vento di febbraio,
dall’altra, il cielo d’aprile gli fa l’occhiolino.
E quel povero marzo corre di qui e di là,
aiuta le gemme a schiudersi
spazza il cielo dalle nuvole,
si da da fare da tutte le parti…
Si capisce che qualche volta,
gli vengono le bizze e fa il matto.
Troppe esigenze per questo povero mese!

E la poesia francese non è da meno. Scrive Alfred de Musset che marzo “mostra il sorriso tra il pianto”. In cielo si alternano sole e nuvole sereno e pioggia. D’altronde non si deve dimenticare che il suo nome deriva da Marte, il dio romano della guerra, perché la stagione delle guerre cominciava proprio allora, quando l’inverno volgeva alla fine. È noto a tutti che le guerre sono delle follie.
Allo stesso modo sono matti gli uomini. Matto si dice chi è nel suo agire imprevedibile. E questa imprevedibilità ha i suoi lati negativi, ma anche spesso i suoi lati positivi. E apprendiamo dall’Enrico IV di Pirandello che “tutti siamo pazzi e che la pazzia è una scelta quasi obbligata dalla necessità di avere un posto in un mondo che non è fatto per noi”. Da questo punto di vista, è esemplare quanto ci dice Shakespeare nel suo Re Lear. Attraverso la figura del Matto, che lo accompagna, il vecchio re – che ha alienato l’intero suo patrimonio a favore delle sue due figlie, avide “volpi” e adulatrici – comprenderà i propri errori e ritroverà la radice della natura umana. Il matto, conclude, “è un re. Un re”. Il Matto lo corregge: matto è chi crede alla mansuetudine del lupo, al giuramento d’una puttana”. Matto è colui che sa adeguarsi a come va il mondo, che è l’unica saggezza possibile.
Proponiamo qui di seguito un brano tratto dai dialoghi che si svolgono tra il Re Lear e il suo “Matto”, il quale si rivolge a lui con l’appellativo di “zietto”.

“Cialtrone il matto mai non sarà”

MATTO (a Lear) Compare, voglio insegnarti una cosetta...
LEAR Dilla.
MATTO

Abbi piú di quel che mostri
Parla men di quel che sai
Presta men di quel che hai
Va' a cavallo piú che a piè.
Studia piú di quel che sai
Punta men di quel che vinci
Pianta il vino e le puttane
Resta a bada del bestiame
E cosí con tre per cinque
Farai piú di venticinque.

KENT Questo non val niente, Matto.
MATTO Quanto il fiato di un difensore di ufficio, che non si paga, come difatti voi non mi avete pagato il fiato a me. Zietto, dal nulla non sapreste cavare qualche cosa?
LEAR Eh no, amico. Nulla dal nulla si ricava.
MATTO (a Kent) Diglielo tu, per piacere, che altrettanto ricava lui, ora, dalle sue terre; se glielo dice un matto, non ci crede.
LEAR Un Matto amaro.
MATTO Lo sai, zietto, la differenza tra un Matto amaro e un Matto dolce?
LEAR No, giovanotto. Dimmela tu.
MATTO

Chi ti diede quel consiglio
Di dar via le terre tue
Mettilo accanto a me
Proprio di fronte a te:
Avrai messo a faccia a faccia
Matto dolce e Matto amaro
L'amaro di qua, da buffone,
Il dolce di là, da padrone.

LEAR Dài del matto a me, ragazzo?
MATTO Tutti gli altri titoli li hai dati via. Ma con questo ci sei nato.

(Re Lear, Atto primo, Scena quarta)

 

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I testi sono ripresi da: William Shakespeare, Teatro (traduzione di Cesare Vico Lodovici), Einaudi, Torino 1964

VERSANTE DIDATTICA

Linee pedagogiche per il sistema integrato “zerosei”

Stimoli di riflessione anche per i docenti
di ogni ordine e grado

di Donato De Silvestri

La Commissione, presieduta da Giancarlo Cerini, ha recentemente resa nota la bozza del documento che, ai sensi dell’art. 10 del DL 65/2017, definisce le linee pedagogiche per il cosiddetto Sistema Integrato da 0 a 6 anni. Il Decreto prevede importanti cambiamenti che mirano a dare la giusta dignità e un’organica struttura a un’età focale per lo sviluppo, tradizionalmente poco riconosciuta e non sufficientemente valorizzata, che ci auguriamo trovi la giusta attenzione nell’ambito del Recovery Plan.
Non c’è qui lo spazio per trattare con la giusta attenzione la materia su cui interviene il D.L. 65, e mi limito quindi a citare l’articolazione dei servizi, servendomi del sottostante schema, e a ricordare che finalmente è prevista la formazione universitaria anche per gli educatori che agiscono nella fascia 0-3.

Ma veniamo alle linee pedagogiche.
Si dice in premessa che non vogliono sostituire gli attuali documenti programmatici vigenti per la scuola dell’infanzia e non si propongono come un manuale di pedagogia. Si tratta piuttosto di una cornice che vorrebbe fare da trait d’union tra i suddetti.
A mio modo di vedere hanno solo un paio di potenziali difetti: 1) un documento tanto vasto, che non rinuncia a nulla e rischia di essere conseguentemente dispersivo e pretenzioso 2) la tentazione di fornire delle “ricette”, che non vorrei finissero con l’ingabbiare il pensiero e la pluralità di approcci che caratterizzano l’eterogeneo panorama della ricerca didattica e pedagogica. Ma molte delle cose che dicono altro non sono che un’efficace sintesi della suddetta ricerca e possono fornire importanti stimoli di riflessione non soltanto a chi educa ed insegna nella fascia 0-6, ma a tutti i docenti, di ogni ordine e grado.
Ecco alcune delle pillole di didattica che ci propongono.

  1. L’offerta educativa è concepita al meglio quando si basa sul presupposto fondamentale che l’educazione e la cura sono inseparabili.

    Lo trovo bellissimo, fondamentale. L’idea di cura dovrebbe essere alla base di ogni intervento educativo, di ogni programmazione: rappresenta uno dei connotati fondamentali di ogni buon insegnante. Come non ricordare l’ICARE di Don Milani. Io mi prendo cura di te, tu sei importante per me e te lo faccio capire. Non esiste nessun buon insegnamento che non parta da questo presupposto. Prendersi cura significa non essere solo empatici, ma anche compassionevoli, ossia capaci di sostenere, favorire la crescita e lo sviluppo, rispettosi della diversità, agendo nell’area di sviluppo prossimale di vygotskijana memoria, che il documento indica come lo spazio ideale per l’intervento educativo.

  2. Il benessere dei bambini, in quanto esseri sociali, è assicurato in primo luogo dalla qualità delle relazioni che essi sperimentano con gli adulti e con gli altri bambini.

    La qualità delle relazioni è uno dei principali indicatori della bontà di un contesto educativo. Io sono solito ricordare che quasi tutti i più importanti problemi che si incontrano a scuola sono in qualche modo riconducibili a dinamiche relazionali. Un buon educatore deve essere un competente promotore e gestore di relazioni interpersonali e di gruppo. Il Documento insiste sulla prospettiva ecologica delle relazioni, ossia di un sistema in cui deve essere data la dovuta dignità, l’ascolto, l’accoglienza, alle istanze dei più diversi soggetti cointeressati nell’azione educativa (stakeholder). Viene ribadita la centralità della relazione con le famiglie, senza “reti” e pluralità dei modi di essere famiglia, sempre più plurali nei modi di costruire relazioni e che portano differenze legate a scelte culturali, etiche, personali che chiedono rispetto e attenzione. Il bisogno di alleanze educative è forse scontato nell’ottica 0-6, ma non è altrettanto fondamentale e necessario anche per i più diversi ordini di scuola? Perché, ad esempio, nella comunicazione scuola-famiglia al liceo non viene riservato un adeguato spazio di ascolto del punto di vista dei genitori? Senza alleanza si sviluppa disorientamento, confusione, si perdono preziose occasioni e si creano i presupposti per pericolosi conflitti, che possono finire con il minare l’efficacia dell’azione didattica.

(continua)

UN ANNO CON PINOCCHIO

La scuola di Pinocchio

di Gianni Gasparini

Nella parte iniziale del racconto di Collodi, Pinocchio evita la scuola: anziché recarvisi preferisce all’ultimo momento vendere l’Abbecedario per pagare il biglietto ed entrare al Teatro dei burattini (cap. VIII).
La scuola del nostro burattino ovviamente non è quella di oggi. È la scuola che nell’Italia finalmente unitaria di fine Ottocento si sta istituendo e impiantando nelle città e nei paesi, cercando di convincere le famiglie e i bambini stessi a frequentarla. Da convincere alla frequenza scolastica, in un paese dove predominano gli analfabeti, sono i figli delle classi più disagiate: ad esse sembra appartenere Pinocchio, figlio di un artigiano che “di mestiere fa il povero”, come il burattino dichiara a Mangiafoco movendolo a compassione e provocando indirettamente un dono a lui di cinque zecchini d’oro. Per andare a scuola, elementare s’intende, un bambino – o un burattino ad esso equiparabile qual è il nostro protagonista – occorre vincere la tentazione di fare “la vita del vagabondo” che Pinocchio esalta nel primo dialogo con il Grillo-parlante: questi gli propone invece la scuola e in alternativa l’apprendimento di “un’arte o un mestiere”.
La scuola è sempre presente sullo sfondo del racconto collodiano, anche se in realtà essa trova in Pinocchio e nei suoi compagni, primo fra tutti l’amico del cuore, Lucignolo, alternative apparentemente più gradevoli: come il marinare la scuola stessa per andare a vedere il mostro sulla riva del mare – in realtà una scusa per distogliere Pinocchio, di cui i compagni sono invidiosi, dall’andare a scuola – e come il recarsi nel Paese dei Balocchi, che è il luogo dell’anti-scuola e che rappresenta un episodio-chiave del racconto. Lucignolo spiega all’amico le virtù di questo straordinario paese, che non assomiglia a nessun altro al mondo, con una descrizione assolutamente convincente e puntigliosa anche dal punto di vista dell’organizzazione del tempo che in esso è adottata e che prevede una rigorosa e ininterrotta sequenza di vacanze:

Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre (cap. XXX).

Si tratta, letteralmente, della non-scuola, di un luogo la cui configurazione si identifica con il gioco perenne, espresso dal termine “balocchi” oggi in disuso. È un gioco fatto di innumerevoli giochi e giocattoli, un po’ come nel celebre quadro cinquecentesco di Bruegel (“Giochi di bambini”), e che sfocia nella nausea da ripetizione e da monotematicità.
Pinocchio dunque si lascerà convincere da Lucignolo, nonostante le solenne promesse fatte alla Fata poche ore prima. Insieme a tanti altri ragazzi verrà condotto di notte nel Paese dei Balocchi, su un carro stracolmo guidato dall’inquietante e mellifluo Omino di burro. Questi si rivelerà un brutale venditore di animali, quegli asini in cui tutti i ragazzi giunti nel Paese dei balocchi verranno trasformati nel giro di pochi mesi contro la loro volontà.
Prima di farsi sedurre da Lucignolo, Pinocchio frequentava con profitto la scuola ed era diventato il primo della scuola: la Fata ne era tanto contenta da promettergli una grande festa con i suoi compagni. La festa, per la quale erano state preparate duecento tazze di caffellatte e quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra (cap. XXIX) sarebbe stata il preludio della metamorfosi agognata, quella in ragazzino in carne e ossa. Ma poi, con la partenza inopinata di Pinocchio, tutto viene meno e il burattino conosce una serie di disavventure dolorose, a partire dalla sua trasformazione in asino, dopo la quale egli viene venduto al direttore di un circo: questi cercherà di farne un ciuchino ammaestrato da esibire al pubblico.
Passando per altre vicende tempestose, Pinocchio arriverà nel capitolo finale a lavorare duramente per sostentare il padre vecchio e in cattiva salute; ed è qui che egli recupererà la voglia e il senso dell’imparare. Il burattino non può più frequentare la scuola, ma si esercita da autodidatta, alla sera (è uno studente lavoratore!), adattandosi come può e utilizzando un vecchio libro per leggere e imparare a scrivere:

Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello temperato a uso penna; e non avendo né calamaio né inchiostro, lo intingeva in una boccettina ripiena di sugo di more e di ciliegie. (cap. XXXVI)

Insomma, la scuola di Pinocchio, così lontana per tanti aspetti dalla nostra di oggi, mantiene tuttavia alcune caratteristiche essenziali che esprimono il permanere nel tempo delle sue funzioni fondamentali: sviluppare un rapporto educativo autentico e personale tra insegnante e studente, così come valide relazioni tra studenti-compagni. Tali relazioni danno luogo anche oggi a dinamiche consensuali e conflittuali che sono tipiche e importanti per favorire lo sviluppo equilibrato di ogni bambino e ragazzo.
L’esperienza di scuola che si è realizzata dai primi mesi dell’anno 2020, con l’emergenza della pandemia da Covid-19 e le misure assolutamente straordinarie che ne sono conseguite (uso della mascherina, distanziamento interpersonale, divieto di assembramento ecc.), è particolarmente dura da vivere per studenti e insegnanti, perché sta mettendo tra parentesi l’esigenza e l’espressione dell’incontro in presenza e della convivialità, essenziali e prioritari nella relazione educativa. In questo senso, credo che la didattica a distanza (DAD), che peraltro ha utilmente cercato di supplire per via digitale all’impossibilità di fare scuola in presenza, non possa essere concepita se non come una pratica provvisoria, dopo la quale si torni a una scuola che, in questo almeno, somigli a quella di Pinocchio.

DAI TERRITORI

Giovanni Vannucci
In memoriam

Questo il Fato

Nemmeno Apollo guaritore poteva contro Thanatos impudico
La disputa è vinta, spento è quel sorriso che rasserena le tempeste
Era il sorriso della vita.

Il silenzio dei morti affligge chi resta”.

(Catia Fagioli)

Mesti, di fronte ad un lutto che mai ci saremmo attesi. Moriva nella sua casa a Nave di Lucca, Giovanni Vannucci, segretario regionale della Cisl Scuola Toscana. Era il 28 Dicembre dell’infausto 2020, che tanti lutti ha portato oltre ogni aspettativa; una morte improvvisa, inopportuna. Conosciuto e stimato per le sue profonde doti umane, disponibile anche negli orari più improbabili, Giovanni era un punto di riferimento: non declinava mai dagli impegni e non mancava di condire i suoi interventi con battute sagaci e calzanti. Una carriera scolastica come maestro elementare, di cui andava oltremodo fiero, dedicato all’attività sindacale sine die da lungo tempo e, infine, pianista e organista molto apprezzato. Era impegnato senza risparmio alcuno nella nostra organizzazione sindacale in cui riponeva una fiducia incondizionata e profonda, in egual misura aveva il sostegno della Fede che lo custodiva anche nei momenti di maggiore sconforto. Un ragazzo buono e cordiale al quale eravamo tutti affezionati, mancherà, come viene a mancare un dono tenuto per poco tempo. A noi che restiamo, resta molto e manterremo in vita quello che ha lasciato: la sua eredità di affetti.