novembre 2019

In questa pagina:
Il Punto: Non rendere più lunga e buia la notte (Maddalena Gissi)
La pianta del mese: Gentianella crispata (Eva Kaiser - Flavia Milone)
Il Cantico: Il (tremendo e tenero) bacio al lebbroso (Luigino Bruni)
Le fonti: Stare tra gli ultimi (Mario Bertin)
Ecologica: Un catalogo di virtù verdi (Alexander Langer)
Il filo dei mesi: Novembre - Catastrofi e cura del pianeta (Gianni Gasparini)
Aforismi: Repetìta (Leonarda Tola)
Hombre vertical: Senza storia non c'è democrazia (Emidio Pichelan)
Storia contemporanea: La rivoluzione del 1989 (Paolo Acanfora)
Note musicali: Antonín Dvořák, Canzone alla luna (Francesco Ottonello)
Il film del mese: Libertà va cercando (Giovanni Panozzo)
Rilanci e anticipazioni da "Scuola e Formazione": Di contratto si vive e di contratti si muore (Elio Formosa)
Stanze di scuola quotidiana: Le donne di scuola sono tutte belle (Elisabetta Ricci)
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IL PUNTO

di Maddalena Gissi

Non rendere più lunga e buia la notte

Densi di impegni, e di incognite, gli ultimi due mesi dell’anno. All’esame del Parlamento, nelle prossime settimane, una legge di bilancio che approda alle Camere dopo una gestazione piuttosto sofferta, per la difficoltà a far quadrare attese e obiettivi fra i partner della nuova maggioranza di governo. Una compagine la cui compattezza, tutt’altro che granitica, potrebbe essere messa ulteriormente alla prova, oltre che per i processi di riassestamento interno già in atto, per le possibili ricadute del voto (già avvenuto) in Umbria e di quello (imminente) in Emilia Romagna e in altre regioni.

All’esame della legge di bilancio si sovrappone quello del decreto legge su reclutamento e precariato firmato dal Presidente della Repubblica il 29 ottobre e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il giorno successivo, 30 ottobre, data dalla quale decorrono i sessanta giorni entro cui dev’essere approvata la sua conversione. Essendo ben noto l’impegno profuso dai sindacati nei mesi scorsi per ottenere provvedimenti orientati alla stabilizzazione del lavoro precario, con intese che hanno coinvolto due diversi Governi e direttamente lo stesso Presidente del Consiglio di entrambi; essendo altrettanto note le ragioni di dissenso perché nel decreto quelle intese non hanno trovato piena e coerente applicazione; dovendosi dunque auspicare modifiche migliorative, senza tuttavia poter escludere a priori anche i rischi di emendamenti peggiorativi; è chiaro che la situazione con cui siamo costretti a misurarci non è certo semplice e mette a dura prova anche la praticabilità del campo su cui si giocano le nostre partite sindacali. E se dalla politica è per tutti, in via generale, impossibile prescindere, lo è in modo particolare per chi ne è interlocutore diretto, come nel caso del lavoro pubblico e della scuola.

Affidabilità: un requisito che influenza in modo decisivo la qualità delle relazioni fra le parti che si confrontano, ed è anche presupposto rilevante per il buon esito di un negoziato. Quale affidabilità possa essere riconosciuta oggi alla politica è sotto gli occhi di tutti. In un quadro dominato da incertezza e instabilità, dove si naviga per lo più a vista, sulla scia di politiche di corto respiro, alla caccia immediata di consensi, non c’è vita facile per un sindacato come il nostro, che non si rassegna ad abbassare rasoterra il suo profilo, limitandosi a fare un po’ di antagonismo a buon mercato, in attesa che passi la nottata. Antagonismo come declinazione in chiave sindacale del populismo: così facendo, finiremmo per rendere la notte ancor più lunga e buia. Peggio ancora trasformare il sindacato in un più o meno lucroso ricorsificio.

Non esiste per noi alternativa possibile all’esercizio responsabile del nostro ruolo e delle nostre prerogative: contrattare è funzione costitutiva della nostra identità. Non ci è dato, se non per il diritto che ciascuno di noi esercita come cittadino elettore, il potere di scegliere gli interlocutori che più ci aggradano: ci confrontiamo, necessariamente, con la politica che c’è e col governo che c’è.

Affermare la propria autonomia significa non soltanto essere indipendenti e liberi rispetto a interlocutori e controparti, ma anche e soprattutto sottrarsi alla deriva di una politica di basso profilo, al cui livello sarebbe grave colpa adeguarsi. Attraverso un impegno assiduo, quotidiano, spesso paziente e sempre determinato, abbiamo costruito intese che possono offrire alle decisioni di chi governa e legifera, in materia di politica scolastica, un significativo apporto di qualità. Difenderemo il frutto del nostro lavoro, per le attese cui va data doverosa risposta e per un interesse generale che resta l’orizzonte di riferimento di ogni nostra azione.

LA PIANTA DI COPERTINA

Disegno di Eva Kaiser
Testo di Flavia Milone

Gentianella crispata

La Gentianella crispata è una pianta bienne, glabra, con fusti di 2-20 cm che portano alla base delle rimanenze brunastre delle foglie dell’anno precedente.
La corolla è lunga 12-20 mm, di colore biancastro o violetto, con un tubo lungo circa il doppio del calice.

Si tratta di un’entità assai poco studiata anche dal punto di vista cito-tassonomico, perciò è stata inserite tra le specie vulnerabili a livello nazionale e a rischio a scala locale nella red list IUCN, 2001.

Questa pianta effimera fiorisce in alta montagna sul finire della stagione estiva (di solito dopo la metà di agosto); se le condizioni si mantengono stabili, la fioritura perdura anche fino al tardo ottobre. È una pianta schiettamente alto-montana, tanto nella porzione orientale che in quella italiana dell’areale di distribuzione. La pianta è presente in maniera discontinua e rifugge le aree con eccessivo addensamento della copertura prativa.

Alcuni caratteri biologici correlati alla riproduzione (prima fra tutti l’abilità all’autofecondazione) contribuiscono, in maniera probabilmente decisiva, al superamento degli svantaggi legati alla condizione di forte isolamento e all’estrema variabilità del contesto ecologico al momento della fioritura.
La specie è seriamente a rischio a causa dell’aumento dell’attività di pascolo connessa ai fenomeni di riscaldamento globale e frammentazione locale.

IL CANTICO

Il (tremendo e tenero) bacio al lebbroso

di Luigino Bruni

Quando si va ad Assisi e si visita (perché si deve visitare) l’immenso ciclo giottesco sulla vita di Santo Francesco, mentre restiamo incantati e incatenati da quella bellezza infinita, colpisce anche un dettaglio che non può sfuggire allo studioso di faccende economiche: il solo episodio che manca in quelle ventotto meravigliose scene è il bacio di Francesco al lebbroso a Rivotorto. Eppure quel bacio era un episodio centrale, decisivo nella vita di Francesco e del francescanesimo. Perché non è entrato in quel ciclo pittorico? La risposta più convincente, che mi ha dato un francescano del sacro convento: i borghesi di Assisi, committenti della basilica, non volevano che il mondo intero ricordasse la presenza dei lebbrosi ad Assisi. Lebbrosi scartati dalla storia e dalla narrativa di quella storia. La prima povertà di molti poveri è il non essere visti e raccontati, il capitale narrativo è uno dei primi capitali essenziali di cui sono gravemente privi.

Papa Francesco è oggi l’autorità morale globale capace innanzitutto di vedere e sentire la grande domanda di giustizia che si eleva dai poveri sul mondo e poi porre interrogativi radicali (e questo nasce dalla sua agape). E anche in questo Papa Francesco si ricollega al poverello di Assisi.

Francesco compose e cantò il Cantico delle creature alla Porziuncola, nel 1225, ormai vicino alla morte. Era molto malato, quasi cieco, con una cella infestata dai topi, divorato dal dolore fisico e da quello morale per un ordine francescano da lui fondato che era già percorso da divisioni e da proteste verso la radicalità evangelica del poverello. E lì, in quella notte oscura, fiorì quel cantico come fiore del male. Solo con le stigmate si possono chiamare il sole fratello e sorelle la luna, l’acqua e la morte, senza concedere nulla al sentimentalismo e ai sentimenti romantici. Anche perché il sole, la luna, le stelle (‘et chiarite et belle’) erano gli astri che i popoli cananei e babilonesi veneravano come dei e che la Bibbia combatté duramente nella sua lotta all’idolatria.

Laudato Sii è dunque preghiera ma è anche sintesi teologica e sapienziale di un’intera esistenza vissuta alla folle sequela di Cristo. Lì vi sono presenti, invisibili, la spoliazione di fronte al padre Bernardone, la predica agli uccelli, il lupo di Gubbio, e soprattutto il bacio al lebbroso. Perché l’ecologia francescana è capace di chiamare sorelle le creature, sa intuire una fraternità cosmica, perché il primo fratello che ama è il povero scartato.

Quando allora Papa Francesco scelse di intitolare Laudato Si' la sua Enciclica sull’economia, ha fatto una scelta molto coraggiosa ed eloquente: ha detto che quel cantico delle creature inizia a Rivotorto con l’abbraccio al lebbroso; e che l’economia circolare, green, sostenibile etc. è anche l’economia di Francesco se inizia dall’abbraccio ai lebbrosi di oggi, se sa chiamare gli scarti umani fratelli e sorelle. E, insieme ad essi, alzare poi lo sguardo alla fraternità cosmica.

Ecco perché i luoghi migliori per leggere il Cantico delle creature oggi, in compagnia della Laudato Si' di papa Francesco, sono le periferie, le discariche dove si trovano i molti Giobbe del nostro tempo. Non va letta con sottofondo musicale o con diapositive di tramonti rossicci. No: solo la compagnia dei lebbrosi di oggi è lo sfondo adeguato per il Cantico. Leggerla e cantarla insieme ai nostri lazzari, toccarli, abbracciarli, e baciarne almeno uno. Solo in questi luoghi potremo risentire la forza profetica di quella antica e attualissima preghiera. Farla risorgere e liberarla dai buoni sentimenti che l’hanno circondata. E poi porla alla base di una nuova economia di Francesco.

LE FONTI

a cura di Mario Bertin

San Francesco cambia profondamente il tradizionale atteggiamento degli ordini religiosi nei confronti de i poveri, passando dalla beneficienza alla condivisione della vita. Usando la formula medievale, dalla “benevolentia erga pauperes” alla “conversatio inter pauperes”. Dice la prima Regola francescana (Rnb IX) che i frati “devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra infermi e lebbrosi e tra mendicanti sulla strada”.
San Francesco vuole che i suoi frati vivano una vita povera assieme ai poveri, “non avendo nulla di proprio”. “L’altissima povertà” non è vista come una forma d’ascesi, ma come la condizione “per poter possedere più pienamente tutto nel Signore” (1 Cel., 44).
Ciò non esclude in lui la preoccupazione per una piena giustizia distributiva, come ben mostrano i brani della Leggenda Perugina e dello Speculum Perfectionis che proponiamo qui sotto.

Stare tra gli ultimi

Il lebbroso

Fra tutti gli orrori della miseria umana, Francesco sentiva ripugnanza istintiva per i lebbrosi. Ma, ecco, un giorno ne incontrò proprio uno, mentre era a cavallo nei pressi di Assisi.

Ne provò grande fastidio e ribrezzo; ma per non venire meno alla fedeltà promessa, come trasgredendo un ordine ricevuto, balzò da cavallo e corse a baciarlo.

E il lebbroso che gli aveva steso la mano, come per ricevere qualcosa, ne ebbe contemporaneamente denaro e un bacio.

Subito risalì a cavallo, guardò qua e là – la campagna era aperta e libera da ostacoli – ma non vide più il lebbroso. Pieno di gioia e di ammirazione, poco tempo dopo volle ripetere quel gesto; andò al lebbrosario e, dopo aver dato a ciascun malato del denaro, ne baciò la mano e la bocca”.

(Tommaso da Celano, Vita Seconda di Francesco d’Assisi, 9)

 

Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a fare penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia.

E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo.

E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.

(Francesco d’Assisi, Testamento)

 

Povertà e giustizia distributiva

Mentre Francesco girava predicando una regione, gli accadde di incontrare un povero. Notandone la estrema indigenza, disse al suo compagno: «La povertà di quest'uomo è umiliante per noi; è un rimprovero per la nostra povertà».

Il compagno rifletté: «In che maniera, fratello?». E Francesco: «Quando trovo uno più povero di me, mi sento arrossire. Io ho scelto la santa povertà come mia signora, come la mia felicità spirituale e corporale. E gira in tutto il mondo questa fama, che io cioè ho fatto professione di povertà davanti a Dio e agli uomini. Quindi non posso che sentirmi pieno di vergogna allorché trovo qualcuno più povero di me».

(Leggenda perugina 88, in Mario Bertin, Frate Francesco. Le Fonti, Castelvecchi 2014)

 

Tornando da Siena, incontrò un povero e disse al compagno: «Dobbiamo restituire il mantello a questo poveretto, a cui appartiene. Noi lo abbiamo preso a prestito, fino a che non trovassimo uno più povero di noi».

Ma il compagno, vedendo il bisogno del caritatevole padre, si opponeva tenacemente che se ne privasse per provvedere a un altro. E Francesco: «Non voglio esser ladro! Saremmo infatti accusati di furto, se non dessimo il mantello a chi è più bisognoso». Così il Santo regalò al povero il proprio mantello.

(Speculum Perfectionis 30, Ibidem)

ECOLOGICA

Nella rubrica, stavolta, pubblichiamo una pagina di Alexander Langer, testimone e profeta antelitteram di un vero ecologismo integrale.
Langer è stato un politico-impolitico che, dice Goffredo Fofi, “
ci ha insegnato a piantare la carità nella politica” e che “ha svolto una funzione di ponte in due direzioni prioritarie: quella di accostare popoli e fazioni, di attutire lo scontro e di promuovere l’incontro, e quello dell’apertura di un rapporto nuovo tra l’uomo e il suo ambiente naturale.”
Il brano proposto è solo l’avvio di un intervento di Langer ad un convegno organizzato nell’estate 1987 da “
La rosa bianca” dal titolo "Il politico e le virtù". La virtù “verde” di cui parla la pagina che abbiamo scelto è la Consapevolezza del limite e l’auto-limitazione; le alte virtù esposte in quel contributo sono: il pentimento e la conversione, l’obiezione di coscienza, il privilegiare il valore d’uso al valore di scambio, il privilegiare la sussistenza rispetto al profitto e al mercato.
Il brano riportato è tratto dal volume: Alexander Langer,
Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio Editore, Palermo, 2019 Terza edizione.
Di Alexander Langer noi abbiamo proposto su Scuola e Formazione n. 2/2017, nella rubrica "
Sestante – Grandi letture" il racconto "Caro San Cristoforo".

Un catalogo di virtù verdi

di Alexander Langer

Vorrei individuare senza alcuna pretesa di completezza alcune delle possibili virtù «verdi» che possono avere un loro peso anche nell'etica politica.

La prima di queste virtù che voglio richiamare è la consapevolezza del limite. Sicuramente da questo punto di vista la presa di coscienza verde tende anche ad invertire un paradigma culturale egemone almeno negli ultimi due-tre secoli nel corso dei quali si è affermata per ragioni economiche ma anche per ragioni culturali la linea del «tutto quello che si può fare, si fa». E, anzi, si cerca di superare il limite e cioè «quello che ancora non si può fare, si fa in modo che tra un po' lo si possa fare». Da questo punto di vista la logica del continuo accrescimento, questa logica a spirale espansionistica («produrre di più, consumare di più, dominare di più, controllare di più, regolamentare di più») è una logica che è oggi sicuramente in crisi e non solo perché le risorse ad un certo momento si mostrano finite e quindi limitate. Il riconoscimento del limite non è quindi solo dire «non mangiamo tutto oggi perché sennò domani non ne avremo più» ma piuttosto vuol dire: «forse è meglio non fare certe cose che oggi sono già fattibili ma che non siamo assolutamente in grado di dominare, e forse neanche di prevederne le conseguenze». Pensiamo per esempio alla quantità di sperimentazioni e di manipolazioni genetiche (e non solo su animali) che oggi già sono possibili. Già oggi in America, in virtù di una clamorosa sentenza della Corte Suprema, si brevettano animali. Brevettare un animale costruito in laboratorio secondo le presunte esigenze (ad esempio molta carne e niente ossa, molta carne e poco grasso o una crescita precoce ecc.) è quindi un tipo di intervento oggi tecnicamente possibile. Credo però che una virtù «verde» da questo punto di vista – per la quale io veramente rivendicherei il carattere di virtù – è quella della auto-limitazione e in particolare della rinuncia a tutto ciò che in qualche modo provoca conseguenze irreversibili generali. Oggi molte delle scelte che si compiono, e non solo nel campo della manipolazione genetica, ma anche in ambiti apparentemente più modesti come la costruzione di strade o il coprire chilometri quadrati di cemento, sono scelte che appaiono in larga misura - anche se non totalmente - irreversibili.

In questo senso, forse, la virtù dell'auto-limitazione (insisto sul concetto di auto-limitazione che credo più virtuosa della limitazione subita per pressione) e probabilmente anche un atteggiamento di maggiore modestia rispetto alla possibile onnipotenza che oggi l'umanità o almeno una parte di essa riuscirebbe a dispiegare significano rivalutare un obiettivo che sicuramente tutti hanno un po' sottovalutato e cioè l'equilibrio.

Noi oggi parliamo spesso di ripristino di equilibrio e dove questo non è possibile chiediamo di non aggravare per lo meno le condizioni di degrado. Probabilmente noi oggi, dal punto di vista ecologico, soprattutto in certe parti del globo e anche in certe parti del nostro paese, ci troviamo in condizioni di mutilazione ambientale e dobbiamo imparare a convivere con delle mutilazioni. Ma si può dire che in un certo senso assumiamo un atteggiamento abbastanza simile a quello della tossicodipendenza o dell'alcolista. Il tossicodipendente, o l'alcolista, sa benissimo che bere, fumare, prendere sostanze varie, gli fa male. Egli sa anche prevedere grosso modo entro quanto tempo certe conseguenze si manifesteranno, però non riesce a smettere perché è profondamente parte di un circolo vizioso.

IL FILO DEI MESI

Novembre

di Gianni Gasparini
Catastrofi e cura del pianeta

Al mese di novembre, da sempre associato all’autunno e alle sue tipiche manifestazioni meteorologiche, ci introduce una celebre lirica di Giosuè Carducci, “San Martino”.
La poesia è stata scritta più di un secolo fa in uno stile che oggi non ci è molto familiare ma che riesce a presentare in modo efficace il quadretto di un borgo toscano in un giorno di pioggia, nebbia e vento forte.
La lirica ricorda poi l’antica prassi del giorno di San Martino, 11 novembre, quando in parecchie regioni italiane si celebrava la maturazione del vino.

La nebbia agl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.

(G. Carducci, Le rime nuove, N. Zanichelli, Bologna 1887)

Quanto valgono oggi le notazioni meteorologiche e climatiche presenti nella poesia? Certo il mese di novembre mantiene una serie di caratteristiche come la piovosità, la brevità dei giorni rispetto ai mesi precedenti, la minore intensità della luce, la presenza di nebbie e foschie. Ma c’è da chiedersi se qualcosa non sia cambiato rispetto ai tempi di Carducci: effettivamente questo qualcosa c’è e viene chiamato oggi global warming, o riscaldamento globale, e cambiamento climatico. Dopo le estati torride il sovraccarico di calore prodotto tende a produrre successivamente fenomeni estremi di maltempo, che sono oramai sempre più frequenti in Italia e in Europa e hanno luogo spesso tra ottobre e novembre.

Nel 2018, negli ultimi giorni di ottobre, un ciclone-uragano inaudito e senza precedenti (“Vaia”) ha colpito il Triveneto, con venti che hanno raggiunto in certe zone i 200 km orari, e ha sradicato in montagna molti milioni di alberi, soprattutto abeti e faggi: le zone più colpite sono state il Bellunese, l’altopiano del Cansiglio e alcune aree del Trentino e dell’Alto Adige. Ho avuto occasione pochi mesi fa, in estate, di passare tra il passo Nigra e il passo di Costalunga in Trentino-Alto Adige, non lontano dallo splendido lago di Carezza, dove molto lavoro di sradicamento e asporto dei ceppi abbattuti dal ciclone era già stato fatto. Lo spettacolo che si offriva alla vista era inedito e sconsolante: interi versanti privi di alberi presentavano un terreno completamente nudo e spoglio, alternandosi ad altri pendii dove le conifere avevano resistito ed erano ancora in piedi. Gli esperti calcolano che ci vorrà un secolo per rimettersi dalle ferite del ciclone Vaia.

È inevitabile qui una riflessione sul futuro che attende la natura e il nostro pianeta, se nei prossimi anni non si trarranno con urgenza conclusioni adeguate e decisioni tempestive per arrestare il riscaldamento globale. Non si tratta di un problema astratto o “che riguarda gli altri”: oramai i fenomeni climatici estremi sono sempre più frequenti anche alle nostre latitudini e nei paesi temperati, come ci insegnano il ciclone del 2018 e parecchi altri eventi recenti. Lo hanno ribadito anche le recenti manifestazioni dei giovani in tutto il mondo (la cosiddetta generazione Greta dal nome della sedicenne attivista svedese che ha parlato anche all’Onu) in difesa della terra e per una presa di coscienza del grave problema del cambiamento climatico.

Il pensiero corre alla enciclica di Papa Francesco, la Laudato si’ del 2015, che riprendendo l’ecologia ante litteram di San Francesco di otto secoli fa propone a tutti gli abitanti del pianeta, che siano cristiani o meno, l’obiettivo della cura della casa comune, la terra, che è in pericolo. Un’altra voce che da tempo si leva per esprimere indicazioni e avvertimenti analoghi o convergenti, utilizzando l’idea-metafora del giardino, è quella di Gilles Clément, forse il più autorevole paysagiste vivente, creatore di importanti giardini in Francia. Vent’anni fa Clément organizzò a Parigi una profetica esposizione sul Giardino planetario: tutti i giardini, da secoli e millenni attraverso le culture più diverse, si caratterizzano e qualificano per avere dei recinti, ma oggi la terra, minacciata dalle conseguenze di comportamenti umani irresponsabili e dal rischio dell’olocausto globale, è diventata un unico grande giardino, i cui confini sono quelli del pianeta stesso e della biosfera. Concepire la terra come un immenso giardino, come un bene comune a cui tutti possono accedere senza recinzioni in una logica di condivisione e dove ciascuno può e deve contribuire responsabilmente a sviluppare un’armonia tra la natura – “il vivente” come lo chiama Clément – e la presenza umana: ecco un’idea e prospettiva che mi sembra si integri positivamente con quella dell’enciclica appena citata.

Concludo questa riflessione citando la recente proposta (settembre 2019) di piantare in Italia al più presto 60 milioni di alberi, “uno per ogni italiano”, che è stata formulata dal noto scienziato Stefano Mancuso, da Carlo Petrini di Slow Food e dalle comunità “Laudato si'”, che si ispirano all’enciclica papale.

Vaia

Un anno dopo

Martedì 29 ottobre nel comune di Rocca Pietore, nel Bellunese, si è ricordata, a un anno di distanza, la disastrosa tempesta Vaia. Dopo quell’evento noi avevamo prodotto un filmato, realizzato da Giovanni Panozzo, con delle interviste anche dei bambini della scuola dell’infanzia di quel comune. Quel nostro video ha dato origine poi alle immagini e al primo contributo filmato del nostro calendario 2019.
Anche nella cerimonia del ricordo fatta quest’anno dall’Amministrazione comunale di Rocca Pietore è stato riproposto quel video, come testimonianza di quanto la scuola sia un importante centro per fare ed essere comunità. Pensiamo utile, anche in relazione al tema ecologico sviluppato nella nostra ultima Agenda, rilanciarlo e proporlo ancora a tutti.

HO VISTO TRE LAMPADE ROTTE

AFORISMI

 a cura di Leonarda Tola

Repetìta

Le cose ripetute sono utili: Repetìta iuvant. L’adagio lo si è sentito per la prima volta dalla professoressa di latino che se ne serviva, a buon diritto – of course – per accreditare il metodo di apprendimento di quella lingua che (come altre) richiede lo studio di rigide regole e di altrettante eccezioni; declinazioni di nomi e aggettivi, i verbi in –are –ere –ire da coniugare a memoria. In che modo si impara? Ripetendo e ripetendo fino alla resa finale, quando ogni desinenza torna al suo posto a dimostrazione che l’esercizio del ripetere è ritenuto pressoché infallibile nell’apprendimento della lingua latina e di altro.

Cicerone riponeva il segreto di una buona memoria, anche nella vecchiaia, nell’abitudine ad esercitarla: memoria minuitur nisi eam exerceas. E se ripetere (ripetutamente) aiuta a ricordare quando lo si fa per stimolare le capacità mnemoniche, diverso è quando sono gli altri a ripeterci parole e concetti a cui tengono particolarmente, lamentando un deficit di attenzione da parte nostra. In questi casi l’abitudine a ripetere, quando non sia la variante verbale della coazione a ripetere, può anche essere fastidiosa per colui che, costretto a subirla, proprio perché invece ricorda e ha l’esatto presentimento di ciò che gli verrà detto, può avere un moto di disappunto, di noia o anche di esasperazione.

A questo proposito ci viene in aiuto un altro detto latino in qualche modo opposto al precedente, “Consueta vilescunt”(S. Agostino): la consuetudine divenuta abusata ripetizione avvilisce, la reiterazione delle stesse parole sfinisce, deprime. Non bisogna infatti trascurare l’importanza che la curiosità ha nelle relazioni, tener conto dell’attesa dell’inedito e del piacere della sorpresa capaci di destare ascolto e risposta. Altrimenti insorge l’usura del già noto sia nel conoscere che nel fare esperienza e conoscenza di situazioni, persone e cose: il già visto, il già detto e sentito, i soliti discorsi, l’eterno ritorno di stanche cerimonie non giovano. Sono tedio infinito della vita.

HOMBRE VERTICAL

a cura di Emidio Pichelan

Fare i conti con la storia e farlo correttamente. E poi custodirne memoria e sviluppare impegno educativo per contrastare il nero fascino di un ritorno a dottrine autoritarie e violente che sembrano riaffacciarsi pericolosamente nel mondo giovanile. Questo il filo che unisce i due pezzi che Emidio Pichelan ci regala nella sua rubrica. Il primo discute una risoluzione del Parlamento Europeo sul nostro recente tragico novecento; il secondo è una recensione dell’ultimo importante libro di pedagogia viva e brillante di un autore che i nostri lettori conoscono bene.

Senza storia non c’è democrazia

La storia e le buone intenzioni

Nemmeno al Parlamento europeo riesce il miracolo: impedire che le buone intenzioni finiscano nell’acciottolato che conduce all’inferno.
Il 19 settembre scorso il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulla “importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa (2019/2819 (RSP)). Un’infamia, si è gridato da più parti: il comunismo viene paragonato al nazismo. E così, direbbero gli spagnoli, todos Caballeros: destra e sinistra, rivoluzionari e reazionari, democratici e autocratici, tutti uguali, tutti colpevoli, nessun colpevole, tutti innocenti, nessuno innocente …

Se possibile, le cose stanno ancor peggio. Si tratta, infatti, di un documento sbilenco, ripetitivo, sbagliato nella sua premessa fondamentale (il patto Molotov-Ribbentrop come causa scatenante del secondo conflitto mondiale ed espressione inconfondibile dell’uguaglianza tra i due totalitarismi), equivoco in qualche parte (la spartizione della Polonia tra sovietici e tedeschi nulla a che fare con la divisione dell’Europa in zone di influenza), a volte concettualmente ambiguo (nell’uso indifferenziato dei termini “comunismo” e “stalinismo”), soprattutto – e sostanzialmente – insoddisfacente perché ambiguo. Vittima sacrificale dell’esigenza, tutta politica, del consenso di tutti.

Buone senza dubbio le intenzioni ispiratrici della risoluzione: mantenere vivo il ricordo del tragico passato europeo, onorarne le vittime, condannarne i colpevoli, gettare le basi per una riconciliazione fondata sulla verità e la memoria.

Vasto programma, avrebbe detto Charles De Gaulle. Conviene, anzitutto, ribadirlo contro dubbi e tentennamenti: anche un’istituzione, prestigiosa e rappresentativa come il Parlamento europeo, ha il diritto e il dovere di entrare nell’arena memoriale. Ma è proprio qui che la risoluzione si rivela per quello che è: velleitarismo controproducente. E non può essere diversamente. L’Europa si è impantanata (per quanto ancora?) negli ambiti stretti della moneta e dell’economia, mentre la memoria che intesse il tessuto di una società riflessiva non è condivisa. Se non è interdetto a un agente politico entrare nell’arena della memoria, non per questo diventa automaticamente abilitato a scrivere di storia. La quale, a sua volta, per essere tale deve rispondere ai canoni propri, che poco o nulla hanno a che fare con il consenso (e con le convenienze elettorali), e ha bisogno di una memoria condivisa. Quanti sono i popoli europei che hanno saputo fare i conti con la propria storia?

Historia vero testis temporum, lux veritatis, magistra vitae, nuntia vetustatis, ha scritto Cicerone. Sono a tutti note a tutti le (s)fortune contemporanee della storia. Non ci sarà risoluzione e, dunque, non ci sarà Europa (non ci sarà Stato, non ci sarà nazione, non ci sarà civiltà, non ci sarà democrazia) se la storia non ritorna sul trono che le spetta.

Quella scintilla di autenticità e di verginità

È più di un pericolo, e allora Raffaele Mantegazza, educatore coscienzioso e appassionato coltivatore delle parole dette e scritte, ha deciso di prendere carta e penna per scrivere un “Lettera a un neonazista” (prefazione di Giannino Piana, Castelvecchi editore, luglio 2019). Meglio, a un giovane neonazista.

Il fascismo, inizia precisando l’A., “non è un sistema politico, ma un modo di pensare, di essere e di vivere” (pag. 26). Il nazifascismo storico è stato orribile, disumano, tragico, di quell’esperienza non c’è proprio niente da salvare. Ma il nazifascismo come “modo di pensare, di essere e vivere” non è per niente migliore di quello storico. E, allora, com’è che esercita tanto fascino sui giovani? Raffaele è un docente universitario, gli piace quello fa, potrebbe starsene fuori della mischia. Per sua e per nostra fortuna è un prof “riflessivo”, non vuole rassegnarsi alla perdita di una generazione senza interrogarsi sul perché del fenomeno e sui nostri – degli adulti – errori (debolezze, presunzioni, pusillanimità, stanchezze).

Sono una sessantina di pagine, articolate in capitoletti brevi, il dialogo si snoda fluido, scorrevole, un argomentare cristallino e semplice nel quale le parole hanno senso e il confronto è la prima ragione per rifiutare il nazismo (le dottrina autoritarie si reggono sulla semplificazione e sul culto del capo), un’acuta esplorazione delle ragioni del successo di dottrine che una generalizzata pigrizia democratica dava per seppellite sotto i roghi atomici di Hiroshima e Nagasaki.

Un paio di sottolineature. Anzitutto, la rinascita rigogliosa di dottrine tragiche non è frutto del caso. I “figli delle tenebre” hanno lavorato meglio dei placidi, pantofolai “figli della luce”: lo sapevate che ammontano a 40mila i siti neofascisti e neonazisti – una cifra da triplicare se contiamo i blog e le pagine Facebook? (pag. 49).

La seconda osservazione riguarda il padre dei nostri errori. Un peccato di omissione: non abbiamo saputo e non sappiamo raccontare la bellezza – meglio, la complessa armonia – della democrazia e della politica. Caduto il Muro di Berlino, non solo Fukuyama, in troppi abbiamo creduto che la storia fosse finita – e la democrazia garantita.

Tempi grami, questi, per la democrazia, la solidarietà, il riconoscimento degli altri. Gli esempi provenienti da Paesi un tempo fari di civiltà sono tutt’altro che incoraggianti. E, tuttavia, Raffaele e tutti noi continuiamo a scommettere su “quella scintilla di autenticità e di verginità [dei giovani] che spesso noi adulti abbiamo perso; la parte di te che ti rende così straordinario, così bello, così giovane. E che non devi permettere alla demagogia del brutto e della morte di calpestare. La democrazia è da salvare per il solo fatto che è bella. Quasi come te” (pag. 59).

STORIA CONTEMPORANEA

La rivoluzione del 1989

di Paolo Acanfora

Il 9 novembre del 1989 rappresenta una data-simbolo della storia contemporanea. È il giorno in cui è crollato il muro che per 28 anni ha diviso la Repubblica federale tedesca dalla Repubblica democratica tedesca, cioè la parte occidentale della Germania da quella orientale. Un muro che ha dato una percezione concreta della divisione dell’Europa in due parti antagoniste, che ha rappresentato plasticamente la “cortina di ferro” di cui aveva parlato Winston Churchill, configurando così la perdurante e pervasiva immagine della contrapposizione totale e totalizzante della Guerra fredda.

Il muro di Berlino ha rappresentato, in questo senso, molto più della frattura tedesca. Sebbene costruito solamente nel 1961, come conseguenza di una acuta crisi nei rapporti tra le due superpotenze (Stati Uniti e Unione Sovietica), simbolicamente il muro esisteva già dalla fine del secondo conflitto mondiale. L’impossibilità di giungere ad un accordo sul destino della Germania dopo la sconfitta militare aveva infatti portato al prolungamento – sino al congelamento – della scissione in due parti del territorio tedesco . La divisione della Germania (1) era il segno della divisione dell’Europa, un continente ormai non più baricentro delle relazioni internazionali e subalterno alle politiche di USA e URSS.

Se il muro di Berlino ha rappresentato molto più della “questione tedesca”, è allora comprensibile che la sua caduta sia oggi ricordata come la fine della Guerra fredda. Un simbolo tardivo – ma, si potrebbe dire, con capacità retroattiva – della divisione dell’Europa in due sfere d’influenza che, una volta venuto meno, offriva spazio non solo alla riunificazione della Germania ma alla pacificazione del vecchio continente, al superamento delle radicali contrapposizioni che ne avevano segnato la storia dal secondo dopoguerra in avanti. La caduta del muro non evoca infatti solamente la fine della Repubblica democratica tedesca ma richiama alla mente le trasformazioni avvenute in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Bulgaria o quelle, più cruente, relative al contesto rumeno e, soprattutto, jugoslavo. Le stesse vicende sovietiche sono strettamente correlate, nel nostro immaginario, al venir meno di questo simbolo politico.

È chiaro che ogni contesto nazionale ha le proprie peculiarità, con modalità di sviluppo che non possono essere semplicemente replicabili o sovrapponibili in altri contesti. Tuttavia, mai come in questo caso è evidente il nesso esistente tra le dinamiche internazionali e quelle nazionali. Sebbene invitando sempre a non costruire nessi di causa ed effetto troppo stringenti, come se tra i due livelli vi fosse un rapporto di tipo deterministico, è fin troppo evidente che il crollo di un ordine mondiale così invasivo e pervasivo – tale, com’è stato più volte sottolineato, da fornire gli stessi schemi cognitivi di lettura della realtà politica nazionale ed internazionale – non poteva non produrre conseguenze radicali sul piano interno ai singoli Stati.

Le vicende dell’Ottantanove non sarebbero però comprensibili senza richiamare il passaggio cruciale dalle fragili leadership sovietiche dell’era post-brezneviana (Juriy Andropov e Kostantin Černenko, che si succedettero tra il 1982 e il 1985) a quella innovativa e coraggiosa di Michail Gorbaciov. La spinta impressa da quest’ultimo al fine di riformare il sistema sovietico, di modernizzarlo e renderlo nuovamente competitivo, ha innescato una serie di processi che, all’insegna delle due parole d’ordine “perestrojka” (ricostruzione o, nel senso politico assegnatogli, riforma) e “glasnost” (trasparenza), hanno prodotto rivolgimenti cruciali sia in chiave interna che estera. Le parziali aperture verso una società meno oppressiva e monocratica (dall’abolizione dell’ateismo di Stato all’attenuamento della censura) coincidevano con un atteggiamento meno aggressivo all’esterno, che portava a svolte importanti come il ritiro delle truppe sovietiche nella guerra in Afganistan (1989) o il disimpegno militare nell’Europa orientale, annunciato sin dal 1988. Il nesso tra i due piani lo si rintraccia con evidenza nella radicata convinzione di Gorbaciov di non poter sostenere un ambizioso programma di riforme all’interno di un contesto internazionale di aspra contrapposizione e di dispendiosa presenza militare. Non si trattava di una volontà di abbandono dei tradizionali legami con i paesi alleati dell’URSS ma di incentivare in essi i processi di autonoma riforma dei sistemi politici ed economici. Per tutta l’Europa orientale, il problema principale consisteva nella progressiva dipendenza economica dalle istituzioni finanziarie occidentali. Una dipendenza caratterizzata da debiti che avevano assunto dimensioni difficilmente controllabili. Basti pensare che nel 1989 la Germania dell’Est, che pure rappresentava un’economia piuttosto “pesante” all’interno del Comecon (2), per il costo annuale dell’interesse sul debito estero era giunta a pagare una quota impressionante corrispondente ad una volta e mezzo il totale delle proprie esportazioni. Si trattava con tutta evidenza di una situazione ormai fuori controllo e non più sostenibile.

La caduta del muro va dunque inquadrata in un contesto di difficoltà crescente del blocco sovietico a cui si è cercato di rispondere innescando un processo di riforma che, da un certo punto in avanti, ha aperto vie inedite e, sino a qualche anno prima, inimmaginabili. La svolta avvenne con le elezioni in Polonia nel giugno del 1989. Elezioni libere – frutto di una pressione dal basso che era riemersa e aveva costretto le élite governative ad un accordo con le opposizioni – che videro la vittoria eclatante di Solidarność con la conquista di tutti i seggi (fuorché uno) al Senato. Nell’ottobre anche il parlamento ungherese fu costretto a concedere elezioni libere. Dopo lo smantellamento del muro partiva anche la cosiddetta “rivoluzione di velluto” in Cecoslovacchia con la pacifica destrutturazione del sistema di potere autoritario. La spirale che si era innescata colpiva però non solo gli Stati del blocco sovietico. Anche nella piccola Albania, regime comunista non legato all’URSS, i cambiamenti furono radicali ed ispirati fondamentalmente agli stessi processi di liberalizzazione. Ancor più, le dinamiche in atto colpivano la Jugoslavia, un paese socialista, a lungo leader del movimento dei non-allineati ed ora in una fase di trasformazione che nel giro di pochissimo tempo condusse al riemergere di feroci nazionalismi e alla disgregazione violenta dello Stato federale (3).

Il caso jugoslavo è stato certamente l’esempio più evidente e drammatico di una transizione incontrollata e di un collasso imprevisto che portava ad un rimescolamento complessivo dell’ordine internazionale. Al tempo stesso rappresenta in modo inequivocabile la nuova centralità assunta dai nazionalismi e dai micro nazionalismi, soffocati e costretti prima nel progetto panslavista (4) e successivamente nelle strettoie della Guerra fredda ed ora riemergenti in nuove condizioni. Le diverse entità e identità nazionali – serbe, croate, slovene, macedoni, montenegrine, bosniache, a cui va aggiunta la peculiare situazione kosovara – esplosero mostrando tutti i limiti della precedente comunità federale. Ma questa tendenza alla rimodulazione delle vecchie entità statuali sulla base di appartenenza nazionali più o meno ristrette coinvolse moltissimi paesi. Dalla caduta del muro i processi di innovazione portarono a scissioni di diversi Stati – oltre la Jugoslavia, si pensi alla Cecoslovacchia che si divise in Repubblica ceca e Repubblica slovacca – o alla nuova indipendenza dei paesi baltici (Lettonia, Lituania, Estonia) e delle altre ex repubbliche della federazione sovietica.

Naturalmente le vicende internazionali condizionarono, sul piano interno, anche i paesi occidentali. Il venir meno della contrapposizione comunismo/anticomunismo cambiava alla radice gli schemi politici che avevano segnato profondamente il Novecento. Il caso più eclatante fu certamente quello italiano. In Italia, a differenza di tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale, la fine della Guerra fredda ha coinciso infatti con la distruzione del sistema partitico costruitosi nel secondo dopoguerra. Il paese che aveva saldamente costruito una propria stabilità – persino problematica data la strutturale impossibilità di un’alternanza di governo – mostrava ora una profonda fragilità. Intrecciando le trasformazioni internazionali con le singolari dinamiche nazionali – che avrebbero portato a richieste di riforma del sistema politico (attraverso i referendum sulla legge elettorale) e all’emergere di una capillare corruzione che segnava i rapporti tra politica ed economia – l’Italia si avviava a mutare del tutto i propri connotati politici. Crollava la Repubblica dei partiti. Tra il 1989 e il 1994 tutti i soggetti politici che avevano ricostruito l’Italia post-bellica erano scomparsi o furono costretti a cambiare nome e fisionomia. Il crollo del muro di Berlino aveva infatti accelerato il percorso di revisione e trasformazione del PCI in un soggetto nuovo (il Partito democratico di sinistra che, tuttavia, perdeva un significativo pezzo alla propria sinistra (5)) condizionando così, per reazione, anche quegli altri partiti che si erano definiti principalmente come baluardi dell’anticomunismo.

Nella crisi del sistema politico italiano, l’ancoraggio al nuovo progetto europeo sembrava poter essere l’unico elemento di stabilità. La realizzazione dell’unione tedesca seguita al crollo del muro aveva impresso una svolta al processo di unificazione dell’Europa portandolo su un piano nuovo e decisivo: l’unione monetaria. L’Europa di Maastricht nata nel 1992 sembrava poter giocare un ruolo inedito nel panorama internazionale ed essere il naturale approdo dei processi di democratizzazione avviati negli ex satelliti dell’Unione sovietica, ormai disintegratasi.

In Europa orientale le speranze di rinnovamento avevano infatti aperto la strada ad una nuova ondata di democratizzazione (nel senso della democrazia liberale) che ha spinto alcuni analisti a ripensare le strutture dell’ordine internazionale e, addirittura, del corso della storia. Un politologo quale Francis Fukuyama ha scritto in merito agli sconvolgimenti partiti con le rivoluzioni del 1989 di una fine della storia, ovvero di un trionfo definitivo del modello liberal-democratico e capitalistico ormai privo di avversari (6). Le riflessioni sulla fine dell’ordine mondiale della Guerra fredda portavano però ad esiti diversi. Un altro politologo statunitense, Samuel Huntington, in opposizione a questa visione “ottimistica” del trionfo del liberalismo, prospettava un ordine conflittuale caratterizzato dal profilarsi di aggregazioni formatesi sulla base di affinità di civiltà destinate a scontrarsi l’una con l’altra (7). Da prospettive radicalmente diverse lo storico marxista Eric Hobsbawm (8) e l’intellettuale e politico francese Pierre Lellouche hanno invece scritto di un nuovo disordine mondiale che si andava costruendo lasciando trasparire un futuro di conflitti ed instabilità (9).

I fondamenti del nuovo corso si erano definiti però ben prima del crollo del muro. Furono le profonde crisi del sistema economico internazionale degli anni Settanta a imporre un progressivo cambiamento dei paradigmi che trovarono la loro incarnazione politica nelle figure del presidente statunitense Ronald Reagan e del primo ministro britannico Margaret Thatcher. La svolta neoliberista fondata sul principio della deregulation, sul primato delle privatizzazioni e sul ruolo dell’individuo quale motore dell’economia venne presentata di fatto come il modello vincente che aveva trionfato sul socialismo sovietico e come la formula unificante il nuovo mondo globalizzato. In questa direzione, le rivoluzioni del 1989 sembravano a molti la conferma della validità di un tale processo. Le contraddizioni in esso implicite emersero progressivamente, incrociandosi con processi diversi e opposti, segnati dal riemergere di localismi e nazionalismi intesi quali strumenti di differenziazione esclusiva, che riproponevano la forza degli elementi identitari e contribuivano a polverizzare in una molteplicità di centri di potere il sistema internazionale, avviando una complessa transizione che non ha trovato riassetti ed equilibri stabili.

NOTE
  1. Le quattro potenze vincitrici del conflitto mondiale (USA, URSS, Gran Bretagna e Francia) avevano diviso la Germania post-nazista in quattro aree di influenza. Con l’unificazione delle zone di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti si era arrivati a configurare una Germania occidentale che si sarebbe presto dotata di una propria costituzione, dando forma ad un nuovo Stato (la RFT), a cui avrebbe subito corrisposto la nascita della RDT nella zona di influenza sovietica.
  2. Il Comecon era il Consiglio per la mutua assistenza economica che era stato istituito nel 1949 per legare l’economia sovietica a quella dei suoi alleati. Stati fondatori furono, oltre all’URSS, la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Bulgaria (la RDT vi entrò l’anno successivo).
  3. Com’è noto, dopo la pacifica dichiarazione di indipendenza della Slovenia, si aprì un drammatico periodo di guerre che con tempi e modi diversi attraversò gli anni Novanta.
  4. Nel 1919 alla Conferenza di pace di Versailles nacque, in questa direzione, il regno serbo-croato-sloveno che prese il nome di Jugoslavia nel 1929.
  5. L’ala sinistra del PCI dava vita a Rifondazione comunista.
  6. Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.
  7. Cfr. S.P. Huntngton, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997.
  8. Cfr. E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1997.
  9. Cfr. P. Lellouche, Il nuovo mondo. Dall’ordine di Yalta al disordine delle nazioni, Il Mulino, Bologna, 1994.
Bibliografia essenziale

Oltre ai libri citati in nota, si rimanda per una valutazione complessiva di questa fase nella storia internazionale ed europea a G. Formigoni, Storia della politica internazionale (Il Mulino, 2018); T. Judt, Postwar. La nostra storia 1945-2005 (Laterza, 2017); F. Romero, Storia della Guerra Fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa (Einaudi, 2009).
Per l’ordine post Guerra fredda si veda O. Bariè, Dalla Guerra fredda alla grande crisi. Il nuovo mondo delle relazioni internazionali (Il Mulino, 2013).
Per le vicende relative al processo di unificazione europea si consiglia soprattutto a M. Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea (Laterza, 2013) e L. Rapone, Storia dell’integrazione europea (Carocci, 2015).
Sul caso italiano, un ottimo strumento sono i recenti volumi di U. Gentiloni Silveri, Storia dell’Italia contemporanea, 1943-2019 (Il Mulino, 2019) e A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016 (Laterza, 2017).

RICORRENZE

4 novembre – Fine della Prima Guerra Mondiale

L’anniversario della vittoria, e della fine del primo sanguinoso conflitto mondiale. Una ricostruzione particolarmente ricca e attenta della sua fase finale, condotta in un’originale e interessante chiave di lettura, è quella di Elio Formosa, a suo tempo ospitata sul nostro sito e che merita senz’altro di essere riproposta. 
Vittorio Veneto dall'una e dall'altra parte

6 novembre - Giornata Internazionale per la Prevenzione dello Sfruttamento dell’Ambiente in Tempo di Guerra e di Conflitto Armato

Proclamata il 5 novembre 2001 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (risoluzione 56 /4). La ricorrenza, riconducibile più in generale all’impegno per la protezione e salvaguardia dell’ambiente, punta a mettere in evidenza i danni procurati in tal senso in modo specifico dai conflitti armati, che possono compromettere gravemente gli ecosistemi e le risorse naturali, con effetti negativi estesi oltre i territori direttamente implicati nelle azioni di guerra e destinati a protrarsi a lungo anche negli anni e decenni successivi a quelli in cui il conflitto ha avuto luogo.
Approfondimenti a partire dal sito ONU Italia 

9 novembre - 30° anniversario della caduta del muro di Berlino

Il 9 novembre del 1989 veniva "aperto" il muro di Berlino, barriera di oltre 140 Km che dal 1961 separava le diverse porzioni in cui era stata divisa l'allora ex capitale tedesca, per impedire l'ingresso di spie nemiche ma in realtà soprattutto per impedire la libera circolazione della popolazione; in pratica, per evitare la fuga verso la zona ovest, appartenente in sostanza alla Repubblica Federale Tedesca, filooccidentale, di chi risiedeva nella zona est, di pertinenza della Repubblica Democratica Tedesca, alleata al blocco sovietico. La caduta del muro, ponendo la parola fine a un'epoca segnata anche dall'uccisione di quasi duecento fra le migliaia di persone che avevano tentato di varcarlo, anticipa di fatto l'evento storico rappresentato, solo undici mesi dopo, dalla riunificazione della Germania, avvenuta il 3 ottobre 1990.
Alla ricorrenza e al suo grandissimo significato storico e politico è dedicato il contributo di Paolo Acanfora nella rubrica Storia Contemporanea di questo approfondimento mensile dell'Agenda.
Un interessante contributo è quello di Francesco Bascone (Anniversari: 30 anni fa, la caduta del muro di Berlino) su Affari Internazionali, rivista on line dell'omonimo istituto, fondato nel 1956 da Altiero Spinelli.

13 novembre - giornata mondiale della gentilezza

Introdotta in Italia dal 2000, la giornata è stata istituita nel 1997 a Tokyo, per iniziativa di un movimento giapponese formatosi una decina d’anni prima (Japan Small Kidness Movement), e si è diffusa successivamente in altre parti del mondo. Scopo della ricorrenza, sottolineare l’importanza per il vivere civile della buona qualità nei rapporti umani, favorire una convivenza all’insegna della tolleranza, della solidarietà, del mutuo sostegno. Che di tutto questo si avverta oggi quanto mai la necessità appare di tutta evidenza, tante sono le occasioni in cui la fanno da padrone, in ambiti diversi, l’arroganza e la sguaiatezza. Considerato quanto sia attuale nella realtà giovanile il tema del bullismo, può essere nella scuola l’occasione per una riflessione senz’altro opportuna. In Italia è attivo dal 2000 il Movimento Italiano per la Gentilezza, con un proprio sito (http://www.gentilezza.org/new/)

17 novembre - Giornata internazionale degli studenti

La ricorrenza si celebra nell’anniversario della data in cui avvenne l’eccidio nazisti di studenti e professori cecoslovacchi a seguito dell’arresto in massa seguito alla protesta per l’uccisione di uno studente colpito a morte nel corso di una manifestazione che si era tenuta a Praga il 28 ottobre del 1939. Ai funerali dello studente, trasformatisi in un’imponente raduno anti nazista, erano poi seguiti provvedimenti molto duri delle autorità tedesche, con la chiusura di scuole e l’arresto di 1.200 studenti e professori deportati in campi di concentramento; il 17 novembre nove di questi furono giustiziati senza processo.
Approfondimenti a partire dalla pagina di Wikipedia dedicata alla ricorrenza.

20 novembre – Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza

Per ricordare la Convenzione adattata dall'Assemblea generale delle nazioni Unite il 20 novembre 1989. Sono oltre 190 i Paesi che hanno ratificato la Convenzione. In Italia la ratifica è avvenuta nel 1991. Per una riflessione su questa tematica rinviamo all'intervista a Francesco Tonucci da noi realizzata nel 2016.

25 novembre – Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Istituita il 17 dicembre 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la data è stata scelta ricordando l’uccisione, avvenuta il 25 novembre 1960, delle tre sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana. È una data importante, per ricordare a tutti che il rispetto è alla base di ogni rapporto e che non possiamo continuare a veder crescere il numero delle donne che subiscono violenza. Per approfondimenti vedi il sito ActionAid

NOTE MUSICALI

a cura di Francesco Ottonello

Antonín Dvořák (1841-1904): Canzone alla luna dall’opera Rusalka

Friedrich de la Motte Fouqué è uno scrittore romantico tedesco, autore di una novella intitolata Undine, scritta nel 1811. Insieme a La Sirenetta, del 1837, di Hans Christian Andersen, questo racconto ha ispirato una vastissima serie di altri successivi lavori. Il soggetto descrive le vicende di uno spirito delle acque femminile che, per amore, decide di prendere sembianze umane, andando incontro a una triste sorte (ma talvolta la storia è declinata con il “lieto fine”).
La fortuna di questo tema è stata alquanto vasta, toccando molti ambiti diversi, non ultimo quello cinematografico, per esempio con la modernissima Sirenetta della Disney.

Il teatro musicale tedesco si appropriò da subito della vicenda della ninfa delle acque Undine, dapprima con l’omonima opera di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann e, circa trent’anni dopo, con l’Undine (1845) di Albert Lortzing.
Nell’Ottocento la Boemia era in forte contatto con il mondo musicale e teatrale austro-germanico: a Praga c’era un teatro d’opera tedesco che lavorava moltissimo e dunque queste tematiche erano ben note sia al pubblico praghese, sia al mondo musicale. La cultura popolare ceca era anch’essa ricca di novelle e racconti legati al tema degli spiriti acquatici: nella mitologia boema un personaggio molto ricorrente era quello del vodník, uno gnomo delle acque che amava catturare esseri umani per conservarli nel proprio vaso.

Proprio traendo ispirazione da questa figura mitologica, Antonín Dvořák scrisse un poema sinfonico intitolato per l’appunto Vodník (1896); successivamente, a questo folletto delle acque si ispirò per uno dei personaggi presenti nella sua opera teatrale più celebre, Rusalka.

Rusalka fu composta su libretto del poeta boemo Jaroslav Kvapil ed ebbe la sua prima rappresentazione al Teatro Nazionale di Praga, il 31 marzo 1901. Scritta all’apice della carriera compositiva di Dvořák, l’opera racchiude in sé molti aspetti di pregio: in primo luogo il solido mestiere compositivo raggiunto dall’autore, quindi la sua ispirata sensibilità incline alla dimensione incantata e magica dei soggetti fiabeschi.

Evidentemente è grazie a questi aspetti che Rusalka mantiene ancora oggi una freschezza che si traduce in una presenza costante nei cartelloni teatrali dei teatri d’opera e tuttora coinvolge per il suo gusto lirico e descrittivo, delicato e sensibile, abbellito da una ricca congerie di citazioni di musica folklorica. Uno dei momenti più giustamente conosciuti di Rusalka è la Canzone alla Luna, una breve pagina di ispirato lirismo, che racchiude in sé, e descrive in maniera esemplare, le più belle caratteristiche di tutta l’opera.

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LA SCUOLA C'È. LA SCUOLA È

I volti e i luoghi delle scuole italiane animano il calendario che la CISL Scuola ha prodotto per il 2019. Per ognuno dei dodici mesi dell'anno, un breve film racconta la presenza della scuola in ogni angolo del Paese; ambienti, età, situazioni diverse compongono un caleidoscopio vivente nel quale si moltiplicano immagini che ci restituiscono la varietà e la bellezza di ciò che la scuola riesce ad essere, ogni giorno, per tutti e dovunque.
Per ogni mese del calendario uno specifico "codice a barre" del tipo QR code dà accesso, per chi lo inquadra col suo smartphone, alla pagina web che ospita il breve film realizzato per noi da Giovanni Panozzo. Un giro d'Italia per dirci ogni volta, in luoghi diversi, che la scuola c'è, e ciò che riesce ad essere grazie alla straordinaria energia che la muove.

Il film del mese di novembre

"Libertà va cercando"

Col verso dantesco (I canto del Purgatorio) entriamo in un mondo che è chiuso per definizione, il carcere, e anche in questo mondo la scuola c'è. La scuola c'è e contribuisce a fare della prigione ciò che dovrebbe essere: luogo di giusta espiazione della colpa, ma ancor più luogo di ricostruzione di una dignità e di rieducazione alla libertà. Nel film di novembre non possono esserci le immagini, precluse, del carcere di Livorno, a dominare - e illuminare - sono le parole di chi dedica alle persone carcerate la sua professione di insegnante.

RILANCI E ANTICIPAZIONI DA "SCUOLA E FORMAZIONE"

Nell'ultimo numero di Scuola e Formazione un articolo di Elio Formosa affrontava il tema delle scuole paritarie e della Formazione Professionale per sollecitare una particolare attenzione ai problemi di queste importanti realtà formative.
Rilanciamo quel tema evidenziando uno dei gravi problemi che incontra, anche dal punto di vista della rappresentanza sindacale, il mondo della Formazione Professionale
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Di contratto si vive e di contratti si muore

di Elio Formosa

Chissà se la recente intesa sulla rappresentanza metterà fine al proliferare dei contratti pirata, o, come già accaduto in passato, tornerà ad essere recitato il vecchio detto “fatta l’intesa, trovato l’inganno”. Nel nostro Paese la presenza di una molteplicità alquanto variegata e colorita di associazioni di imprese e sindacali, spesso rappresentative solo di se stesse, è una realtà che, in ragione di una legislazione spesso confusa e interpretativa, è in costante crescita. In una categoria, anche di piccole dimensioni, la presenza di più associazioni di impresa e sindacali e di altrettanti Ccnl è dirompente. Introduce elementi di concorrenza sleale tra le imprese stesse, abbassa le condizioni salariali e i diritti dei lavoratori, aumenta la conflittualità, peggiora le condizioni di sicurezza, aumenta gli impegni orari e riduce le agibilità sindacali.

L’obiettivo dell’intesa del 2019, attuativa del Testo Unico sulla rappresentanza, stipulato nel 2014, è quello di eliminare una volta per tutte i «contratti pirata», stimati dal Cnel in circa due terzi degli 868 contratti collettivi censiti. Per farlo occorre che la solida e convinta intesa tra le Oo.Ss. maggiormente rappresentative, le Associazioni delle imprese, il Governo coinvolga anche gli enti locali, le Regioni in primis i cui orientamenti politico-sindacali su questo tema lasciano alquanto perplessi. Ad esempio le normative regionali sui criteri minimi che le Agenzie formative devono possedere per essere accreditate, spesso alla voce Ccnl da applicare al personale dipendente, aprono la strada ai contratti collettivi di sotto tutela, ponendo serie ipoteche sulla qualità dell’offerta formativa e ricadute sulla reale occupabilità dei giovani che frequentano i percorsi di IeFP. Insomma l’orientamento delle Regioni, non di tutte ovviamente, è rivolto alla riduzione della spesa, ovvero degli investimenti, rivolti al settore della Formazione Professionale, favorendo il ricorso dei Ccnl pirata, che così trovano legittimità e possono proliferare indisturbati. A farne le spese sono soprattutto le Agenzie Formative, che rispettano le regole ed applicano il Ccnl della FP sottoscritto dalla CISL Scuola, dalla Flc CGIL, dalla UIL Scuola e dallo SNALS, chiamate a confrontarsi con altre Agenzie dove le regole sono meno imperative così come le spese da affrontare.

STANZE DI SCUOLA QUOTIDIANA

Trovarsi la sera, dopo una giornata di scuola, a pensare ancora all'impegno e alla fatica di quelle ore o alla vivace bellezza; o alle due cose insieme, come più spesso accade. Bello, poi, che si abbia anche voglia di scriverne.
Questa rubrica, con un titolo che richiama un bel disco di Francesco Guccini del 1974, si apre a queste esperienze e dà visibilità a questa editoria.

Le donne di scuola sono tutte belle

di Elisabetta Ricci

Noi, i nostri ragazzi e le nostre aule, ogni giorno lì pronte ad accogliere chi deve crescere. Noi sempre pronte al cambiamento, ogni anno ci sono novità, la nostra scuola cambia dal punto di vista legislativo, ma non cambia dal punto di vista umano. I nostri ragazzi sono sempre lì pronti per imparare "la vita" e noi dobbiamo essere pronte a insegnare loro a viverla. Spesso siamo sole con i nostri problemi perché nelle stanze del potere dimenticano che la scuola esiste con i suoi ragazzi e la società che muta ogni giorno. E noi ogni mattina, quando le voci dei giovani riempiono i corridoi delle nostre scuole, siamo lì con il sorriso sulle labbra pronte ad accoglierli dalla scuola dell'infanzia in poi.
Cari Signori la parola "accoglienza" è una parola grossa poiché indica come la scuola si apre a ognuno, perché ogni ragazzo è un mondo che va conosciuto, interpretato, capito e aiutato a crescere, imparare, sentire l'importanza della società in cui vive, apprezzare ciò che quotidianamente impara, conoscere il proprio Paese e il mondo intero. Tutto questo ogni giorno si compie nelle nostre aule, noi sempre pronte a dare il meglio ai nostri ragazzi per farli crescere, per far capire loro che tra quei banchi tra lezioni di matematica, storia, italiano, geografia e quant'altro si impara la vita con la "v" maiuscola.
Ecco sì la scuola è Vita, Cari Signori che abitate in alto. Ogni tanto scendete tra di noi e venite a capire quali sono i nostri problemi veri. Sì perché voi non ci conoscete da vicino. Noi, le donne di scuola e i nostri ragazzi: ci vedete ma non ci ascoltate, non ascoltate le nostre esigenze vere! Ci date tante cose a vostro dire, ma non sapete che cosa è la vita d'aula quando il ragazzo arriva non solo con i suoi libri ma con il carico dei suoi problemi, più o meno importanti, più o meno grandi e noi le donne che fanno la scuola ogni giorno siamo pronte a capirli, a tranquillizzarli, a rimproverarli, in altre parole a farli crescere, senza mai abbassare la guardia, attente a ogni situazione che portiamo con noi, anche al di fuori di quelle stanze.
Sì Signori, noi insegnanti portiamo la scuola a casa, tanto che diventa parte della nostra vita, perché i ragazzi per noi sono la vita. I loro problemi sono i nostri problemi, i loro traguardi, i nostri traguardi, le loro vittorie sono le nostre vittorie, le loro sconfitte sono le nostre sconfitte. È vero che il legislatore per la scuola ha scritto tante belle leggi, ma le applichiamo ogni giorno e sappiamo che non fanno parte di un semplice codice legislativo, ma per noi assumono risvolti morali e soprattutto umani. Sì, la parola umanità è quella che contraddistingue la nostra professione e la nostra professionalità da tante altre.
Spesso, Cari Potenti, vi dimenticate di noi donne di scuola pensando che per lo Stato noi siamo un tassello che deve esserci, o meglio che è naturale che ci sia e magari (con tutto il rispetto per tutte le altre professioni portate avanti da noi donne), accendete i riflettori sulle donne-manager, sulle donne-militari eccetera che sicuramente sono il valore aggiunto in professioni che per anni sono state di esclusivo dominio maschile, e senza dubbio il più delle volte si trovano ad affrontare grossi problemi di varia natura per farsi spazio nel loro mondo lavorativo. Va a loro, dunque, la mia più profonda stima e ammirazione, ma il nostro lavoro, quello dell'insegnante, è "diverso". Mi spiego: si esplicita in una dimensione dove il valore aggiunto è l'umanità che noi ogni giorno troviamo nelle nostre aule. Forse, però, spesso vi dimenticate di noi che siamo lì da sempre perché dobbiamo esserci, senza pensare che la nostra professionalità ogni giorno cambia per un semplice motivo, perché ogni ragazzo che siede su quei banchi è unico e va trattato come tale, perché ogni ragazzo ha delle doti che vanno tirate fuori e fatte sviluppare, perché quei ragazzi un giorno saranno proprio il futuro del nostro Paese. 

 

Le donne di scuola sono tutte belle è una lunga riflessione su quello che una maestra, una Donna di Scuola come ama definirsi, pensa riguardo alla scuola.

L’insegnamento per la maestra Elisabetta non è un lavoro come un altro, al contrario è una professione delicatissima, grazie alla quale le nuove generazioni imparano ad affrontare la vita e la società tutta. La poca considerazione di cui l’istituzione scolastica gode da parte delle alte sfere spinge a cercare soluzioni alternative per avvicinare i ragazzi, e ancora di più i bambini, a un apprendimento più spontaneo, tecnologico, aperto a nuove strade. Questo scritto deve aprire gli occhi a tutti coloro che non si accorgono di quanto questa professione sia fondamentale, e deve mettere in luce le capacità delle insegnanti di riuscire comunque a portare a termine la loro missione, nonostante tutti gli ostacoli.

(dalla quarta di copertina)

L'autrice si presenta

Sono Elisabetta Ricci, sono nata a Carpineto Romano in provincia di Roma, il 22 Dicembre 1963. Ho frequentato la scuola dell'obbligo nel mio paese. Nel 1981 mi sono diplomata presso l'Istituto Magistrale "Regina Margherita" di Anagni (FR). Mi sono laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l'Università degli studi "Maria S.S. Assunta" di Roma (attuale LUMSA). Ho conseguito il Master Universitario di Secondo livello in "Management per le scuole dell'autonomia", presso l'Università degli studi di Macerata nel 2013. Attualmente sono insegnante di scuola primaria presso l'Istituto comprensivo "Leone XIII" di Carpineto Romano.