ottobre 2019

In questa pagina:
Il Punto: Col nuovo Governo un serrato confronto (Maddalena Gissi)
La pianta del mese: Carex capitata (Eva Kaiser - Flavia Milone)
Il Cantico: Una progettazione educativa (Pierluigi Malavasi)
Le fonti: Le creature e la fraternità universale (Mario Bertin)
Ecologica: Le rondini e le api (Susanna Tamaro)
Il filo dei mesi: Ottobre - Elogio dell'albero (Gianni Gasparini)
Aforismi: Multum non multa (Leonarda Tola)
Hombre vertical: Il clima val bene la luna (Emidio Pichelan)
Ricorrenze: Il 74° compleanno dell'ONU (Vincenzo Alessandro)
Note musicali: Pietro Mascagni - Inno al sole (Francesco Ottonello)
Il film del mese: La mia terra (Giovanni Panozzo)
Da "Scuola e Formazione": Mannuzzu e la fede che cura l'amarezza (Goffredo Fofi)
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IL PUNTO

di Maddalena Gissi

Col nuovo Governo un serrato confronto

Il primo giorno del mese di ottobre ci vedrà al MIUR, dove incontreremo nuovamente il ministro Fioramonti sull’emergenza precariato, nel tentativo di portare a compimento un lavoro che ci ha impegnati intensamente nei mesi scorsi e il cui esito è rimasto in sospeso per la sopravvenuta crisi di governo ai primi di agosto.
Lo incontreremo per la terza volta in meno di un mese, e ciò costituisce un segnale certamente non trascurabile di attenzione e di disponibilità al confronto che valutiamo molto positivamente.
Se a questo si aggiunge che tra i primi atti del nuovo Governo vi è stata anche la convocazione dei segretari generali di CGIL, CISL e UIL a Palazzo Chigi per un primo ragionamento sull’imminente legge di bilancio, si può ben sperare che l’auspicio formulato giusto un mese fa negli approfondimenti di settembre (“che il riconoscimento del valore del dialogo sociale sia assunto come scelta di metodo cui informare l’azione del nuovo governo”) possa trovare qualche significativo e concreto riscontro nei comportamenti del nuovo Esecutivo.
Naturalmente il confronto non può essere di per sé risolutivo dei problemi, specie quando non tutti gli interlocutori mostrano di affrontarlo in senso pienamente costruttivo, con arroccamenti di cui si fa fatica a comprendere il senso. Resta in ogni caso una scelta di metodo il cui valore va comunque riconosciuto e sostenuto.

In attesa di capire se il dialogo intenso sviluppato in questi giorni darà i frutti che non solo noi, ma soprattutto decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori precari aspettano da tempo (lo vedremo probabilmente proprio oggi, e tutti voi avrete modo di seguire gli sviluppi della situazione attraverso le nostre pagine web e social), è forse il caso di spendere qualche parola per sgombrare il campo da letture superficiali, e non di rado distorte, del nostro pensiero e del nostro lavoro.
Non stiamo rincorrendo, come qualcuno sostiene, l’ennesima sanatoria con la quale immettere in ruolo un po’ di insegnanti senza alcuna garanzia sulla loro competenza professionale. Accusa priva di fondamento, ma soprattutto irriguardosa per quanti, e sono davvero tantissimi, consentono di tenere regolarmente aperta e funzionante la nostra scuola grazie al loro lavoro. Lavoro precario, che spesso rimane tale per molti anni, ma su questo i nostri “censori” sembrano non aver nulla da dire, indulgenti anche rispetto a una qualità che invocano solo al momento di una possibile stabilizzazione. Forse perché quando il lavoro costa meno sulla qualità si può chiudere un occhio? Noi crediamo sia giusto e doveroso riconoscere il valore di quel lavoro, offrendo a chi lo svolge da tempo consistente (almeno tre anni, dicono le proposte su cui abbiamo lavorato e stiamo lavorando) una opportunità di stabilizzazione.

Lo chiediamo immaginando un sistema di reclutamento che soddisfi in modo equilibrato attese entrambe legittime: quella di chi, terminato un percorso di studio, aspiri alla professione di docente, attraverso puntuali e ricorrenti procedure concorsuali che è doveroso rendere disponibili. E quella di chi, avendo maturato una consistente esperienza di lavoro precario – lavoro di cui la nostra scuola avrà sempre comunque bisogno, ed è facilmente dimostrabile – possa trovarne un giusto riconoscimento, come del resto solitamente accade in altri ambiti lavorativi.

Speriamo che lo sforzo profuso in un confronto impegnativo e difficile, su questioni nelle quali è sempre arduo trovare il giusto equilibrio fra attese e interessi fra loro concorrenti, sia premiato dal varo di provvedimenti di cui per primo il sistema scolastico ha urgente bisogno, per uscire da una condizione di eccessiva precarietà del lavoro che non aiuta certo un’ottimale programmazione e gestione delle attività. Chi vuole conoscere il pensiero della CISL Scuola, e non le caricature che talvolta ne vengono fatte, trova abbondante materiale nei dossier (almeno tre negli ultimi mesi) che in tema di reclutamento e precariato abbiamo prodotto.

Rivendicare spazi di confronto significa porre una questione di metodo, per noi fondamentale: offrire alle sedi di confronto un apprezzabile contributo di merito lo consideriamo al tempo stesso un diritto e un dovere.

LA PIANTA DI COPERTINA

Disegno di Eva Kaiser
Testo di Flavia Milone

Carex capitata

La Carex capitata è una pianta erbacea perenne, eretta; si annovera tra le specie a forte rischio di estinzione. Vive al di sotto dei 2000 m, ad una temperatura tra i 17° e i 23°, la fioritura avviene tra Maggio e Giugno, ed è particolarmente diffusa nella provincia autonoma di Bolzano.

Il genere carex deriva dal nome classico latino cārex (caricis - carice), dal greco κείρω (keíro “io taglio”) per il bordo tagliente di molte specie di questo genere. Il nome della specie capitata deriva da cáput (cápitis - testa, della testa); infatti è evidente l’inflorescenza a capolino, o capolino cospicuo o strano.

Un illustre medico, botanico, naturalista e accademico svedese, Carl Nilsson Linnaeus, fu il primo a descrivere il genere Carex nel suo trattato Species Plantarum nel 1753, l’opera è di notevole interesse perché analizza dettagliatamente i diversi aspetti storico-scientifici. Lo studioso è considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi.

Le stime sul numero di specie presenti nel genere variano da circa 1100 fino a 2000; considerato il numero non ingente di individui e l’eterogeneità dei paesaggi che colonizza, per la Carex capitata sono rinvenibili poche informazioni scientifiche ed è anche per queste ragioni che è stata inserita nelle Liste Rosse della IUCN.

IL CANTICO

Una progettazione educativa
La sfida della sostenibilità

di Pierluigi Malavasi

Le cose da fare, questo dice la parola agenda. E ciò che anzitutto ci chiama ad agire, famiglie studenti professori insieme, è un’ecologia integrale, in cui tutto è connesso, per salvare la vita umana e la Terra.

“Oggi si parla con eguale insistenza tanto della distruzione dell’ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici”(1). È la crisi di un’idea di civiltà che pare “sospesa sull’abisso, legata con funi e catene e passerelle” dove tutto “invece d’elevarsi sopra, sta appeso sotto”(2). La sfida posta dalla sostenibilità dello sviluppo all’educazione delle giovani generazioni investe la progettazione pedagogica e le scuole, le imprese e le associazioni sindacali, la società nelle sue diverse parti e le istituzioni.

Il Cantico di san Francesco d’Assisi, inaugurato dal verso “Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature” implica un particolare rapporto di reciprocità tra l’essere umano e tutti gli esseri viventi.La meraviglia davanti all’opera di Dio richiede di essere compresa nella prospettiva della comunione, della fraternità.

Le scienze e i saperi devono contribuire oggi più che mai a progettare il futuro della comunità umana, ridefinendo ragioni e obiettivi della conoscenza. Di là da egoismo e avidità, l’armonia di un canto e lo splendore dell’universo. Laudato si’.

Le Laudes, “composte nella sofferenza e di fronte alla morte”(3), esprimono “una profonda ed entusiasta aderenza al mondo, alla stessa materia (...), un sì allo splendore dell’universo, un’affermazione del valore degli esseri e delle cose”(4).

Nell’esortazione a considerare fratelli il Sole, il Vento, il Fuoco, l’“aere et nubilo et sereno et onne tempo” e sorelle l’Acqua, la Luna, le Stelle c’è un appello educativo a cui si è invitati a rispondere, entrando in comunione con il creato, senza cedere ad una fruizione e ad una conoscenza meramente strumentali delle risorse naturali.

La meraviglia dettata dallo spettacolo della vita è una fonte del sapere e una forma del rapporto tra comunità umana ed ambiente. Lo stupore per la multiforme varietà e l’affascinante bellezza della natura deve suscitare una problematizzazione radicale. A partire dalla crisi ecologica.

“La nostra civiltà, tentata di impiegare le sue prodigiose realizzazioni per il dominio dispotico dell’umano, saprà scoprire in tempo la via di una vera crescita materiale, di una saggia moderazione nell’uso delle risorse naturali, di una reale povertà di spirito per operare una conversione urgente e indispensabile?(…) Come non evocare l’esempio imperituro di san Francesco d’Assisi e non menzionare i grandi ordini contemplativi cristiani, che offrono una testimonianza vivente di armonia interiore guadagnata nel quadro di una comunione fiduciosa nei ritmi e nelle leggi della natura ?”(5). Forza e bellezza dell’educazione contro egoismo e violenza, degrado e disperazione. Imparare a vivere ci pone continuamente di fronte a due domande. Chi siamo? Perché viviamo? L’importanza dell’educazione viene alla luce nella costruzione dell’identità personale e sociale, nell’orientamento ai valori e alle scelte della vita. Educare alla responsabilità significa promuovere la capacità di rispondere delle azioni compiute. La consapevolezza per il bene rivestito dall’educazione muove dalla vita apprezzata come una risorsa e la possibilità di interpretare la finitezza della condizione umana rappresenta un principio della responsabilità educativa.

Con i versi dedicati a “sora nostra madre Terra” che “produce diversi fructi con coloriti fiori et herba”, S. Francesco eleva la propria lode a Dio a motivo della comunità fraterna del creato e ringrazia l’Altissimo in compagnia delle creature, perciò non soltanto per la loro presenza ma con loro.

Educare dice del futuro, della speranza per l’avvenire, sulla scia del ringraziamento per il tempo della vita. L’azione educativa costituisce un testamento, come forse può essere inteso il Cantico, che affida alla relazione umana attuale disposizioni e valori perché sopravvivano all’istante che fugge e orientino il domani. L’ambiente è, per sua natura, l’eredità che di generazione in generazione, accoglie la vita, ospita la biodiversità; costituisce “tematica” trasversale, incrocia problemi e saperi assai diversi. Qualsiasi disciplina che elegga l’ambiente ad oggetto d’indagine è in qualche modo costretta ad “addentrarsi” in territori specifici quali l’ecologia e l’economia, le scelte politiche e giuridiche, le scienze umane e le arti.

In un quadro geopolitico diffusamente percepito come incerto e problematico, il sapere relativo in vario modo all’ambiente è un caso di masterframe, indica cioè un complesso di fenomeni che influisce in profondità su riferimenti culturali e criteri di giudizio. La rilevanza pubblica e la credibilità scientifica della pedagogia oggi “passano” per l’ambiente ovvero si configurano dipendenti anche dalla capacità del discorso pedagogico di elaborare prospettive ermeneutiche originali riguardo alle questioni ambientali più dibattute, di offrire contributi progettuali sostenibili per formare ad una cittadinanza competente e responsabile. Un’articolata comprensione del rapporto d’interdipendenza tra il mondo naturale e le società umane, di cui è segno il Cantico, è la condizione essenziale per intravedere la possibilità di un nuovo fondamento, di un terreno su cui poterci stabilire. Siamo piante che debbono crescere radicate nella terra, per fiorire e dare frutto.

a) La progettazione di percorsi educativi sollecitata dal mistero dell’universo naturale – di cui l’essere umano è parte – costituisce ben altro che la mera applicazione di procedure formative standardizzate. La progettazione ha da interrogare le diverse componenti della società civile sulle esigenze di un reale sviluppo umano. Nell’ambito dell’attuale pluralità dei quadri antropologici di riferimento, è irrinunciabile una scelta ben precisa riguardo al tema della sostenibilità socioambientale e della crescita durevole.

b) Nota P. Roveda che “da un lato non c’è pace tra gli uomini senza la pace con la natura, in quanto regnerebbe l’ingiustizia e l’egoismo nel godere dei beni della terra”; dall’altro è ugualmente vero che non c’è pace con la natura senza pace tra gli uomini, in quanto “la prima esige decisioni economiche, sociali, etiche e politiche condivise, concordate in spirito di responsabile solidarietà”(6). Del resto, la presenza della guerra, con le micidiali armi chimiche, batteriologiche e atomiche, si trasforma in un evento catastrofico anche per la natura, oltre che per l’umanità di oggi e di domani. È senza dubbio rilevante che un’educazione alla pace costituisca il cuore di qualsivoglia sviluppo tra ecologia umana ed ecologia dell’ambiente.

c) Per quanto interessante, non rientra nell’economia del presente contributo la disamina dell’evoluzione della Dottrina Sociale della Chiesa cattolica sui temi ecologici. Considero tuttavia indispensabile citare la Lettera Enciclica di Papa Francesco Laudato si’, che si propone di “entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune”(7) e il Messaggio di papa Benedetto XVI per la 43° Giornata Mondiale della pace 2010, Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato, che prefigura un’articolata pluralità del significato dell’espressione custodia del creato(8). Il titolo stesso del Messaggio designa una sintesi concettuale che chiama in causa molteplici nuclei tematici – il diritto planetario alla cittadinanza per lo sviluppo umano, la ricerca scientifica per la tutela dell’ambiente, la complessità della governance geopolitica – riconducibili a diversi livelli del discorso – lo stile di vita personale e sociale, i modelli e le scelte economiche, le policies della formazione e del lavoro, dell’integrazione e della famiglia.

d) I verbi coltivare e custodire sono certo legati alle scienze della terra e affondano le loro radici etimologiche nella consistenza delle risorse naturali. I sostantivi pace e creato richiamano in modo efficace la possibilità di garantire il benessere sin qui raggiunto, ampliandone il grado di coinvolgimento dei popoli, all’interno di un orizzonte comunque sostenibile.
Il valore glocale dei problemi, ovvero al contempo globale e locale, incontra la responsabilità di ciascuno e delle comunità che contribuiamo a costruire di fronte alle generazioni future.

e) “Conversione è nozione certamente complessa, ma solo apparentemente estranea ai temi sviluppati” nel dibattito odierno riguardo all’ambiente “Essa ci sollecita infatti alla necessità di una trasformazione sia del contesto sociale, sia e soprattutto delle coscienze e dei comportamenti individuali”(9). L’enciclica di Papa Francesco così come il messaggio augurale di Benedetto XVI dianzi richiamato sollecitano a considerare l'apporto delle scienze (biologiche, economiche, fisico-naturali, giuridiche, pedagogiche, politiche, psicosociali, ecc.) nella prospettiva di "allargare i confini della ragione" per affrontare le questioni dell'ambiente e dello sviluppo, il degrado della natura e dell’umano.

f) La sfida educativa, da più parti intesa come banco di prova fondamentale per la complessiva tenuta morale delle società odierne, si coniuga con il dovere di custodire il creato come bene collettivo. "I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano ai doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri"(10). Dall’amore pieno di verità, caritas in veritate, procede l’autentico sviluppo umano per rendere più degna dell’uomo e della donna la vita della famiglia umana sulla terra.

g) L’ambiente come nuova questione sociale oggi abbisogna di pensiero e azione per un umanesimo che permetta la scoperta e la realizzazione della fraternità. L’apertura alla vita, centro del vero sviluppo, è la risposta più appropriata al relativismo culturale, così come l’obiettivo dell’accesso al lavoro esige oggi un’approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini.
L’enciclica Laudato si’ e l’appello Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato sono, per forma e contenuti, nel solco tracciato da Paolo VI con l’istituzione della giornata della pace, il primo gennaio 1968.

h) All’inizio del terzo millennio la Terra rivela la fragilità estrema, e compromessa, del suo ecosistema: l’idea di uno sviluppo illimitato ed arbitrario, tipica di un certo positivismo socioeconomico ed utilitarista, ha legittimato quei dissesti ecologici della cui gravità nessuno osa dubitare.
Il rispetto per l’ambiente ha da essere stimato come un “valore” connesso con l’idea di formazione, prima di rappresentare un atteggiamento pragmatico suggerito dalla gravità del degrado. Questa coscienza intenzionale deve condurre a elaborare un modo di essere nel mondo diverso da quello caratteristico della cultura dominante nei confronti del pianeta.

i) Paolo VI nel sottolineare la responsabilità della Chiesa nei confronti del creato ha messo solide basi alla successiva costruzione della dottrina sociale in ordine alla questione ambientale, teorizzando la forte interrelazione che c’è tra la lotta al degrado ambientale e la promozione dello sviluppo umano integrale.

La disamina riguardante gli attuali modelli di sviluppo implica la riscoperta di valori antropologici che possano rappresentare fondamenti per un futuro migliore per tutti: rilevante, in proposito, sulla scia del Cantico è un’educazione consapevole a stili di vita improntati alla sobrietà e alla solidarietà. In questa luce, la crisi ecologica assume il significato di opportunità di discernimento e nuova progettualità.

Esercitare un governo responsabile della creazione, custodendola e coltivandola, implica elaborare curricoli formativi appropriati e educare ad una responsabilità che si proietti nello spazio e nel tempo, in modo intra e intergenerazionale. San Francesco, in modo emblematico, attraverso il Cantico “è l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità”(11).

Note

(1) I. Calvino, “Italo Calvino on Invisible Cities”, in Columbia, 1983, 8, p. 40.
(2) Id., Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993, p. 75.
(3) T. Lombardi, Storia del francescanesimo, Padova, Edizioni Messaggero, 1980, p.78.
(4) AA.VV., Dizionario francescano, Padova, Edizioni Messaggero 1983, p. 123.
(5) Paolo VI, Messaggio alla conferenza di Stoccolma sull’ambiente, 1972.
(6) P. Roveda, “Tra aggressività, violenza e altruismo”, in Pedagogia e Vita, 2001, 2, p. 59.
(7) Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, 2015, n. 3
(8) Benedetto XVI, Messaggio per la 43° Giornata Mondiale della pace. Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato, 2010.
(9) L. Ornaghi, Introduzione in P. Malavasi (a cura di), L’impresa della sostenibilità, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. VII.
(10) Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, 2009, n. 51.
(11) Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, n. 10.

LE FONTI

a cura di Mario Bertin

I tre brani che proponiamo, presi dalle Fonti francescane, costituiscono tre esempi della pedagogia di san Francesco nel suo rapporto con qualsivoglia “creatura”, senza distinzioni di sorta. È un rapporto liberato dalla ricerca del potere e del possesso e ispirato, invece, al rispetto e al reciproco affidamento. Francesco lo dichiara apertamente nel suo testo “Lodi delle virtù” laddove parla dell’obbedienza. “La santa obbedienza – scrive – confonde tutte le volontà […] e rende l’uomo soggetto a tutti gli uomini di questo mondo e non soltanto agli uomini, ma anche agli animali, alle fiere, così che possano fare di lui quello che vogliono, in quanto sarà loro permesso dal Signore”. Siamo qui in presenza di un concetto di obbedienza da intendersi come risposta che l’uomo è chiamato a dare alle questioni poste – direttamente o implicitamente – da ogni essere con la sua semplice esistenza. Si tratta dell’atteggiamento che i medievali designavano con il termine “conversati”, che in Francesco sostituisce quello di “benevolentia”, sottolineando la condizione di fraternità.

Le creature e la fraternità universale
I fratelli ladroni

In un eremitaggio situato sopra Borgo San Sepolcro, venivano di tanto in tanto certi ladroni a domandare del pane. Costoro stavano appiattati nelle folte selve di quella contrada e talora ne uscivano, e si appostavano lungo le strade per derubare i passanti.

Per questo motivo, alcuni frati dell'eremo dicevano: «Non è bene dare l'elemosina a costoro, che sono dei ladroni e fanno tanto male alla gente». Altri, considerando che i briganti venivano a elemosinare umilmente, sospinti da grave necessità, davano loro qualche volta del pane, sempre esortandoli a cambiar vita e fare penitenza.

Ed ecco giungere in quel romitorio Francesco. I frati gli esposero il loro dilemma: dovevano oppure no donare il pane a quei malviventi? Rispose il Santo: «Se farete quello che vi suggerisco, ho fiducia nel Signore che riuscirete a conquistare quelle anime». E seguitò: «Andate, acquistate del buon pane e del buon vino, portate le provviste ai briganti nella selva dove stanno rintanati, e gridate: "Fratelli ladroni, venite da noi! Siamo i frati, e vi portiamo del buon pane e del buon vino". Quelli accorreranno all'istante. Voi allora stendete una tovaglia per terra, disponete sopra i pani e il vino, e serviteli con rispetto e buon umore. Finito che abbiano di mangiare, proporrete loro le parole del Signore. Chiuderete l'esortazione chiedendo loro per amore di Dio, un primo piacere, e cioè che vi promettano di non percuotere o comunque maltrattare le persone. Giacché, se esigete da loro tutto in una volta, non vi starebbero a sentire. Ma così, toccati dal rispetto e affetto che dimostrate, ve lo prometteranno senz'altro.

E il giorno successivo tornate da loro e, in premio della buona promessa fattavi, aggiungete al pane e al vino delle uova e del cacio; portate ogni cosa ai briganti e serviteli. Dopo il pasto direte: "Perché starvene qui tutto il giorno, a morire di fame e a patire stenti, a ordire tanti danni nell'intenzione e nel fatto, a causa dei quali rischiate la perdizione dell'anima, se non vi ravvedete? Meglio è servire il Signore, e Lui in questa vita vi provvederà del necessario e alla fine salverà le vostre anime". E il Signore, nella sua misericordia, ispirerà i ladroni a mutar vita, commossi dal vostro rispetto ed affetto».

Si mossero i frati e fecero ogni cosa come aveva suggerito Francesco. I ladroni, per la misericordia e grazia che Dio fece scendere su di loro, ascoltarono ed eseguirono punto per punto le richieste espresse loro dai frati. Molto più, per l'affabilità e l'amicizia dimostrata loro dai frati, cominciarono a portare sulle loro spalle la legna al romitorio. Finalmente, per la bontà di Dio e la cortesia e amicizia dei frati, alcuni di quei briganti entrarono nell'Ordine, altri si convertirono a penitenza, promettendo nelle mani dei frati che d'allora in poi non avrebbero più perpetrato quei mali e sarebbero vissuti con il lavoro delle loro mani [...].
(Leg. per., 90)

Fratelli uccelli

Mentre[...] il numero dei frati andava aumentando, Francesco percorreva la valle Spoletana. Giunto presso Bevagna, vide raccolti insieme moltissimi uccelli d'ogni specie, colombe, cornacchie e «monachine». Il servo di Dio, Francesco, che era uomo pieno di ardente amore e nutriva grande pietà e tenero amore anche per le creature inferiori e irrazionali, corse da loro in fretta, lasciando sulla strada i compagni. Fattosi vicino, vedendo che attendevano, li salutò secondo il suo costume. Ma, notando con grande stupore che non volevano volare via, come erano soliti fare, tutto felice, li esortò a voler ascoltare la parola di Dio. E tra l'altro disse loro: «Fratelli miei uccelli, dovete lodare molto e sempre il vostro Creatore, perché vi diede piume per vestirvi, ali per volare e tutto quanto vi è necessario. Dio vi fece nobili tra le altre creature e vi concesse di spaziare nell'aria limpida: voi non seminate e non mietete, eppure Egli vi soccorre e guida, dispensandovi da ogni preoccupazione». A queste parole, come raccontava lui stesso e i frati che erano stati presenti, gli uccelli manifestarono il loro gaudio secondo la propria natura, con segni vari, allungando il collo, spiegando le ali, aprendo il becco e guardando a lui. Egli poi andava e veniva liberamente in mezzo a loro, sfiorando con la sua tonaca le testine e i corpi. Infine li benedisse col segno di croce dando loro licenza di riprendere il volo. Poi anch'egli assieme ai suoi compagni riprese il cammino, pieno di gioia e ringraziava il Signore, che è venerato da tutte le creature con sì devota confessione. Siccome poi era uomo semplice, non per natura ma per grazia divina, cominciò ad accusarsi di negligenza, per non aver predicato prima di allora agli uccelli, dato che questi ascoltavano così devotamente la parola di Dio; e da quel giorno cominciò ad invitare tutti i volatili, tutti gli animali, tutti i rettili ed anche le creature inanimate a lodare e ad amare il Creatore, poiché ogni giorno, invocando il nome del Signore, si accorgeva per esperienza personale quanto gli fossero obbedienti.
(1 Cel., 58)

Il lupo di Gubbio

Al tempo che santo Francesco dimorava nella città di Agobbio, nel contado d'Agobbio apparì un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali, ma eziandio gli uomini; in tanto che tutti i cittadini stavano in gran paura, però che spesse volte s'appressava alla città; e tutti andavano armati quando uscivano della città, come s'eglino andassono a combattere; e con tutto ciò non si poteano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo. E per paura di questo lupo e' vennono a tanto, che nessuno era ardito d'uscire fuori della terra.

Per la qual cosa avendo compassione santo Francesco agli uomini della terra, sì volle uscire fuori a questo lupo, bene che li cittadini al tutto non gliel consigliavano; e facendosi il segno della santissima croce, uscì fuori della terra egli co' suoi compagni, tutta la sua confidanza ponendo in Dio. E dubitando gli altri di andare più oltre, santo Francesco prese il cammino inverso il luogo dove era il lupo. Ed ecco che, vedendo molti cittadini li quali erano venuti a vedere cotesto miracolo, il detto lupo si fa incontro a santo Francesco, con la bocca aperta; ed appressandosi a lui, santo Francesco gli fa il segno della santissima croce, e chiamollo a sé e disse così: «Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona». Mirabile cosa a dire! Immantanente che santo Francesco ebbe fatta la croce, il lupo terribile chiuse la bocca e ristette di correre; e fatto il comandamento, venne mansuetamente come agnello, e gittossi alli piedi di santo Francesco a giacere. E santo Francesco gli parlò così: «Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza; e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto ardire d'uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se' degno delle forche come ladro e omicida pessimo; e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t'è nemica. Ma io voglio, frate lupo, far la pace fra te e costoro, sicché tu non gli offenda più, ed eglino ti perdonino ogni passata offesa, e né li uomini né li cani ti perseguitino più». E dette queste parole, il lupo con atti di corpo e di coda e di orecchi e con inchinare il capo mostrava d'accettare ciò che santo Francesco dicea e di volerlo osservare. Allora santo Francesco disse: «Frate lupo, poiché ti piace di fare e di tenere questa pace, io ti prometto ch'io ti farò dare le spese continuamente, mentre tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché tu non patirai più fame; imperò che io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male. Ma poich'io t'accatto questa grazia, io voglio, frate lupo, che tu mi imprometta che tu non nocerai mai a nessuna persona umana né ad animale: promettimi tu questo?». E il lupo, con inchinare di capo, fece evidente segnale che 'l prometteva. E santo Francesco sì dice: «Frate lupo, io voglio che tu mi facci fede di questa promessa, acciò ch'io me ne possa bene fidare». E distendendo la mano santo Francesco per ricevere la sua fede, il lupo levò su il piè ritto dinanzi, e dimesticamente lo puose sopra la mano di santo Francesco, dandogli quello segnale ch'egli potea di fede.

E allora disse santo Francesco: «Frate lupo, io ti comando nel nome di Gesù Cristo, che tu venga ora meco sanza dubitare di nulla, e andiamo a fermare questa pace al nome di Dio». E il lupo ubbidiente se ne va con lui a modo d'uno agnello mansueto; di che li cittadini, vedendo questo, fortemente si maravigliavano. E subitamente questa novità si seppe per tutta la città; di che ogni gente, maschi e femmine, grandi e piccioli, giovani e vecchi, traggono alla piazza a vedere il lupo con santo Francesco. Ed essendo ivi bene raunato tutto 'l popolo, levasi su santo Francesco e predica loro, dicendo, tra l'altre cose, come per li peccati Iddio permette cotali cose e pestilenze, e troppo è più pericolosa la fiamma dello inferno, la quale ci ha a durare eternalemente alli dannati, che non è la rabbia dello lupo, il quale non può uccidere se non il corpo: «Quanto è dunque da temere la bocca dello inferno, quando tanta moltitudine tiene in paura e in tremore la bocca d'un piccolo animale. Tornate dunque, carissimi, a Dio e fate degna penitenza de' vostri peccati, e Iddio vi libererà del lupo nel presente e nel futuro dal fuoco infernale». E fatta la predica, disse santo Francesco: «Udite, fratelli miei: frate lupo, che è qui dinanzi da voi, sì m'ha promesso, e fattomene fede, di far pace con voi e di non offendervi mai in cosa nessuna, e voi gli promettete di dargli ogni dì le cose necessarie; ed io v'entro mallevadore per lui che 'l patto della pace egli osserverà fermamente». Allora tutto il popolo a una voce promise di nutricarlo continovamente. E santo Francesco, dinanzi a tutti, disse al lupo: «E tu, frate lupo, prometti d'osservare a costoro il patto della pace, che tu non offenda né gli uomini, né gli animali né nessuna creatura?». E il lupo inginocchiasi e inchina il capo e con atti mansueti di corpo e di coda e d'orecchi dimostrava, quanto è possibile, di volere servare loro ogni patto. Dice santo Francesco: «Frate lupo, io voglio che come tu mi desti fede di questa promessa fuori della porta, così dinanzi a tutto il popolo mi dia fede della tua promessa, che tu non mi ingannerai della mia promessa e malleveria ch'io ho fatta per te». Allora il lupo levando il piè ritto, sì 'l puose in mano di santo Francesco. Onde tra questo atto e gli altri detti di sopra fu tanta allegrezza e ammirazione in tutto il popolo, sì per la divozione del Santo e sì per la novità del miracolo e sì per la pace del lupo, che tutti incominciarono a gridare al cielo, laudando e benedicendo Iddio, il quale sì avea loro mandato santo Francesco, che per li suoi meriti gli avea liberati dalla bocca della crudele bestia.

E poi il detto lupo vivette due anni in Agobbio, ed entravasi dimesticamente per le case a uscio a uscio, sanza fare male a persona e sanza esserne fatto a lui; e fu nutricato cortesemente dalla gente, e andandosi così per la terra e per le case, giammai nessuno cane gli abbaiava drieto. Finalmente dopo due anni frate lupo sì si morì di vecchiaia, di che li cittadini molto si dolsono, imperò che veggendolo andare così mansueto per la città, si raccordavano meglio della virtù e santità di santo Francesco [...].
(Fior., XXI)

Da: Alesssandro Ciamei e Mario Bertin (a cura di), Frate Francesco. Le fonti, Castelvecchi 2014

ECOLOGICA

Le rondini e le api

di Susanna Tamaro

Nell'agile e stimolante ultimo libro di Susanna Tamaro "Alzare lo sguardo" ci sono alcune splendide pagine sulla questione ecologica.
Con l'invito a confrontarsi con le grandi tematiche e "provocazioni" sull'educazione poste dall'autrice, riportiamo qui un breve brano che avvia questa rubrica della nostra Agenda mese.

Mentre le scrivo, dalla finestra della mia stanza vedo addensarsi una striscia nera all'orizzonte che fa sperare nell'arrivo della pioggia. Da troppo tempo, infatti, il cielo è prigioniero di un esasperante azzurro. La pioggia non è caduta quest'autunno, né in inverno, né in primavera. Non è caduta l'anno scorso, né l'anno prima e l'anno prima ancora. Da troppo tempo la terra è prigioniera della sete. Se vado nell'orto e muovo il terreno, si forma subito una nube leggera come sabbia. Senza l'acqua la terra si frantuma, si sgretola. Da scrigno di diversità – e dunque di vita – si trasforma nel preannunzio del deserto. Il deserto è il luogo della sete, il luogo in cui le forme di vita sono ridotte al minimo. Nell'instabilità della struttura del suolo infatti è impossibile mettere radici.
Dove c'è acqua, c'è vita.
È questa la legge principale della natura.
Dove l'acqua non arriva, la vita si ritira.
Una semplicità assoluta, un'assoluta spietatezza.

Da trent'anni vivo nello stesso posto, da trent'anni coltivo l'orto, gli ulivi, la vigna, gli alberi da frutto. Da trent'anni cammino nei boschi intorno a casa. Grazie a questo, posso dire con certezza che il cambiamento climatico è davvero in atto, sta anzi galoppando alla velocità di uno stallone selvaggio. La relativa regolarità delle stagioni è ormai stata stravolta.

Passando le giornate negli uffici, lavorando nei giornali è facile schierarsi da una parte o dall'altra, come se questa fosse l'ennesima battaglia ideologica da combattere tra due opposte fazioni. Solo chi vive tutti i giorni a contatto con la natura sa che questa situazione di ideologico non ha niente. La siccità e i fenomeni estremi sono semplicemente la realtà che abbiamo davanti.

La vita della Terra ha sempre conosciuto grandi stravolgimenti: le carestie, le epidemie, le migrazioni e le guerre che hanno segnato la storia umana hanno un legame piuttosto stretto con i cambiamenti. L'equilibrio che ci lega alle leggi dell'universo è estremamente complesso e, in questa complessità, avvengono in continuazione mutamenti capaci di influenzare ciò che succede sul nostro piccolo e meraviglioso pianeta. Se a ciò aggiungiamo l'impatto antropico a partire dalla Rivoluzione industriale, è chiaro che le difficoltà aumentano. Dagli anni Cinquanta a ora sono state create – e immesse nell'ambiente – centinaia e centinaia di nuove sostanze chimiche. È fisiologicamente inevitabile che queste nuove molecole abbiano un impatto con il mondo dei viventi. Il numero di specie animali scomparse negli ultimi vent'anni – un numero altissimo e in continua crescita – permette agli zoologi di parlare ormai di «sesta estinzione».

Nel mio piccolo posso osservare le rondini che nidificano intorno alla mia casa. Alla fine degli anni Ottanta erano circa quaranta famiglie. Se a un gatto capitava di passare accanto alla vecchia stalla gli era quasi impossibile sfuggire a un attacco di massa: con gran frullo d'ali e grida lo colpivano sulla testa come tanti caccia. Ora quelle che nidificano da me sono una coppia, al massimo due, e non sempre riescono a portare a termine una cova, a causa delle bizzarrie del tempo. Inoltre, non avendo più lo stormo a proteggerle, sono molto vulnerabili nei confronti dei predatori. Ogni anno aspetto il loro ritorno dall'Africa con gioia ma anche con struggimento, perché so che sto probabilmente assistendo all'ultimo atto di uno spettacolo meraviglioso.

Senza le rondini, senza le loro evoluzioni nell'aria, senza il loro garrire nei crepuscoli estivi, il mondo sarà più triste e, oltre che più triste, sempre più colonizzato da zanzare.

Anche le api stanno drammaticamente calando di numero in tutto il mondo. Cinque anni fa avevo trenta arnie, ora ne ho solo tre. Il miele presto costerà come l'oro e per poter produrre ancora del cibo – dipendiamo in grandissima parte dalla loro impollinazione – ricorreremo a dei droni impollinatori. Li ho già visti su una rivista, minuscoli, leggerissimi, bellissimi. Volano di fiore in fiore compiendo il lavoro dei defunti insetti. Ma quanti potranno permettersi di comprare uno di questi droni? In un alveare ci sono circa ventimila api impollinatrici, di quante api elettroniche ci sarà bisogno per compiere un'opera altrettanto estesa?

Non ho nulla in contrario alle più moderne tecniche applicate alle coltivazioni e all'allevamento, anzi credo che la salvezza dell'agricoltura verrà proprio dalla collaborazione con la tecnologia più avanzata, tuttavia non posso non chiedermi perché i forti campanelli di allarme che stanno suonando non vengano ascoltati. Un cielo senza rondini è triste, un ciliegio senza la grande festa delle api intorno è ancora più triste.

Nel Paese dei balocchi in cui viviamo risuona un unico imperativo: «Lascia perdere!». La memoria e il rigore, l'impegno e l'etica sono fatiche inutili. Le molte realtà straordinarie della scuola e dell'impegno sociale, così come le famiglie, sono costrette a nuotare come salmoni contro la corrente della crisi economica, dell'arroganza al potere, del disprezzo verso i saperi. Eppure a venire oggi alla ribalta non sono solo bambini-erba, senza forma e senza senso del limite, né solo ragazzi-risacca, trasportati dalle maree di qualche vizio o disagio. Sono anzi i giovani stessi, con l'impegno delle loro battaglie e dei loro ideali, a mostrarci che non tutto è perduto.
Il punto di partenza di questa appassionata lettera a un'insegnante sono le emergenze del tempo presente, ma la forza dell'appello di Susanna Tamaro va ben al di là, ponendo questioni fondamentali per ricomporre la nostra convivenza. Di quale sapere abbiamo bisogno per essere in grado di affrontare la vita? Come tornare a comunicare ai bambini l'amore per le domande e la passione per la ricerca delle risposte? Cosa stanno cercando di dirci i ragazzi che oggi scendono in piazza in difesa del futuro di tutti? Forse al cuore di un nuovo patto possibile tra le generazioni c'è la riscoperta di un concetto rivoluzionario: l'anima. Tornare a nutrirla è la condizione per ricominciare a cambiare il mondo: per una volta, in meglio.

(dal risvolto di copertina del volume)

Susanna Tamaro
Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere, il dovere di educare
Solferino

IL FILO DEI MESI

Ottobre

di Gianni Gasparini
Elogio dell'albero

Nel mese di ottobre è impossibile non accorgersi degli alberi, anche se non si vive a diretto contatto con la natura. In città le latifoglie – come i platani, gli ippocastani, i tigli, i ginkgo biloba e parecchi altri alberi – mostrano un sorprendente mutamento di colori che investe le foglie prima della loro caduta, tra ottobre e novembre. I verdi delle diverse piante si trasformano in sfumature differenti di giallo, di bruno, di rosso e persino di vinaccia, come nel caso degli alberi di Liquidambar presenti numerosi in parchi e giardini cittadini. In campagna sono presenti altre latifoglie e le piante da frutto (tra cui la vite, artefice di stupefacenti mutazioni cromatiche nelle proprie foglie), mentre in montagna prevalgono le aghifoglie: la maggior parte di esse mantiene il colore verde in tutte le stagioni, con l’eccezione del larice, unica conifera a perdere progressivamente gli aghi dopo esser passata attraverso il giallo, l’arancio e il ruggine.

Ottobre bene si presta a intessere un elogio dell’albero, anche a prescindere dal fatto che le piante svolgono la funzione vitale di trasformare l’anidride carbonica in ossigeno e che l’uomo ha utilizzato sin dall’antichità per gli scopi più diversi, tra cui il riscaldamento e le costruzioni, il legno degli alberi. L’albero è un essere straordinario, che presenta singolari somiglianze rispetto agli umani: la prima di esse consiste nel fatto che l’albero è eretto, così come lo è Homo sapiens, a differenza di tutti gli altri mammiferi e animali che ne hanno preceduto l’evoluzione. Nella propria ricerca vitale di luce l’albero tende e aspira al cielo, così come l’uomo alza il capo verso l’alto ogni giorno per vedere la luce e ogni sera per scrutare la volta celeste alla ricerca della luna e delle stelle. L’albero è ancorato alla terra attraverso le radici: anche l’uomo, pur avendo mobilità, mantiene un legame basilare con l’elemento terra e non è in grado di volare, a differenza di uccelli e altri animali per i quali l’albero è posatoio o nido.

Proteso tra il basso e l’alto, tra l’oscurità della terra e lo sfondo della cupola celeste, l’albero è un tramite tra terra e aria la cui vita è assicurata dall’acqua, la linfa interna che scorre in senso contrario alla gravità terrestre, dalle radici verso la cima. L’albero non può volare né camminare, ma la sue foglie e i suoi rami si agitano, i suoi frutti cadono a terra, i suoi semi leggeri vengono trasporti a distanza, dando vita a piante nuove; e sottoterra le sue radici si ampliano e si spostano continuamente. Studi recenti hanno dimostrano che gli alberi di una stessa formazione vegetale comunicano tra loro e sono dotati per vari aspetti di una “sensibilità” sorprendente.

L’albero è l’essere vivente più capace di relazionarsi con ciascun altro elemento: i fiori e l’erba che si stendono ai suoi piedi, i funghi che stabiliscono segrete alleanze micorriziche con le sue radici, i muschi e i licheni che spesso lo rivestono, l’acqua che lo alimenta, la luce solare che ne consente la vita attraverso la fotosintesi clorofilliana, la terra in cui si radica e dove interagisce con gli apparati sotterranei di altri vegetali, la pietra nei cui interstizi colloca le proprie radici, gli animali che trovano appoggio e rifugio sul tronco, sulle fronde o sottoterra. L’uomo stesso da sempre utilizza il legno e le diverse parti dell’albero, oltre a giovarsi della sua ombra e delle sue funzioni estetiche e simboliche, spesso utilizzate da religioni arcaiche o antiche, e tra l’altro dal mondo ebraico attraverso il racconto della Genesi.

L’albero è l’essere più grande, più alto e più pesante esistente in natura. Soprattutto, è l’essere vivente più longevo di qualunque altro: nel nostro paese abbiamo larici che toccano i 2000 anni di vita (come in Val d’Ultimo, Alto Adige) e ogliastri che raggiungono probabilmente i 4000 anni di vita (a Luras, in Sardegna). Gli alberi che hanno secoli o millenni di vita alle spalle ci parlano così in un modo che non ha eguali dei legami tra la storia della natura e la storia dell’uomo e delle culture che si sono succedute sulla terra.

L’albero è poi anche un archetipo sempre presente nella nostra immaginazione, a partire dagli alberi che popolano il mitico giardino-paradiso biblico dell’Eden, dispensatore della vita e dei suoi segreti. Gli stessi giardini contemporanei richiamano in qualche modo, attraverso alberi e fiori, l’ideale di armonia, bellezza e pienezza di cui il paradiso terrestre è espressione.

Il nostro elogio dell’albero potrebbe continuare a lungo. Ma torniamo ora, concludendo, al mese di ottobre: ad esso ci riporta una poesia breve e intensa di Cristina Campo, che ci parla del clima particolare a cui induce questo mese autunnale:

Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.

Trema l’ultimo canto
nelle altane
dove sole era l’ombra
ed ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.

E mentre indugia tiepida la rosa
l’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.

(da C. Campo, La tigre assenza, Adelphi 1991)

AFORISMI

 a cura di Leonarda Tola

Multum non multa

Multum legendum esse non multa” raccomandava Plinio il Giovane con la massima latina specificatamente applicata alla lettura; il consiglio è a tralasciare la modalità dell’accumulo dei libri da leggere, a vantaggio dell’approfondimento che esige la capacità di distinguere, esaminare e prediligere nel grande mare della conoscenza.

Multa” è l’estensione orizzontale del leggere, “multum” è la dimensione della sua profondità: salutare norma di igiene mentale che induce a selezionare dentro la massa potenzialmente sterminata delle letture a disposizione. Soprattutto oggi per la facilità d’accesso al sapere enciclopedico dove il circolo da compiere abbraccia la globalità.

Già Seneca si scandalizzava degli innumerevoli libri e biblioteche che un padrone ammassa nella sua casa riuscendo a mala pena in tutta la vita a scorrerne gli indici e ad apprezzarne titoli e frontespizi: “Quo innumerabiles libros et bibliothecas, quarum dominus vix tota vita indices perlegit?”.

Aggiungeva che il discepolo non viene istruito dalla quantità (turba) dei volumi ma piuttosto è da questa schiacciato: è meglio per lui “affidarsi a pochi autori piuttosto che perdersi smarrito tra i molti" (“errare per multos”).

Il filosofo insiste confrontando l’intensità (multum) della lettura con la sua dispersione (multa) e stigmatizza la moda del tempo di esibire sontuose biblioteche: un monumento alla vanità e alla spettacolarità del lusso, “studiosa luxuria” dove i libri “non sono strumenti di studio ma ornamenti delle sale da pranzo”.

L’applicazione didattica e pedagogica della massima la troviamo in Quintiliano che istruisce i maestri perché imbandiscano la lezione non con una disparità di “crudità difficilmente digeribili, ma con cibi che, a lungo sminuzzati” diventino alimento certo per la memoria e l’imitazione dei discenti.

Un’attualizzazione della sentenza latina viene da mons. Gianfranco Ravasi a proposito del sospetto che grava sui recensori di libri che leggerebbero solo in parte o per niente i testi di cui propongono un’interpretazione critica. Anche qui: evitare la superficialità dannosa di scrivere di ciò che non si conosce, ma parimenti addestrarsi a saper trarre da un libro la sua essenza come da un solo bicchiere di vino si assapora la bontà del contenuto della botte.

HOMBRE VERTICAL

a cura di Emidio Pichelan

Il clima val bene la luna

Un tempo, la campanella del nuovo anno scolastico si fondeva coni suoni, i colori, le parole tintinnanti e misteriose - stazza, tratturi, l’erbal fiume silente, la greggia, isciacquio, calpestio, dolci romori – della transumanza dei pastori abruzzesi verso i pascoli erbosi della pianura.

Dopo un’estate politica per cuori forti, il settembre 2019 passerà – si spera – alla storia come mese e anno di una fioritura eccezionale.

Vuoi vedere che l’umanità, la politica internazionale come il privato (la mitica società civile) si sono svegliati dal torpore tanto incomprensibile quanto fatale? Mettiamo in fila gli avvenimenti, i presupposti per sperare ci sono tutti.

Il 23 settembre a New York si è tenuto il Climate Summit: con l’accusa senza sconti della sedicenne Greta risuonata chiara e forte, con Antonio Gutierres che riusciva a riunire 66 Paesi, 102 città e 93 imprese nell’impegno di azzerare, entro il 2050 – trent’anni appena – l’emissione di biossido di carbonio. Contemporaneamente, Stefano Boeri, l’inventore del bosco verticale, a nome e per conto di organismi di assoluto peso (la Fao, la Royal Botanic of Garden Kew, UnHabitat, il Centro di Ricerche Forestali della Cina) illustrava il progetto della Muraglia Verde: una foresta orizzontale di collegamento, senza soluzione di continuità, delle città della Spagna con quelle centroasiatiche, del subcontinente indiano fino all’Estremo Oriente. Intanto, in Africa, è già in fase di realizzazione un corridoio boscoso largo 15 e lungo 8000 km, dal Senegal all’Etiopia. Una muraglia verde orizzontale antidesertificazione.

Negli stessi giorni, il 23-24 settembre, a Bruxelles, gli European Research and Innovation Days lanciavano il progetto Horizon Europa: a partire dal 2021, e per 7 anni, l’Europa si impegnava a stanziare 100 miliardi (pubblici) per 5 missioni di ricerca sul cancro, clima, oceani, il suolo e città a impatto zero. Per andare sulla luna, ricordava Mariana Mazzuccato, valente economista italo-americana, gli USA alloccavano il 4% del bilancio USA: “si può e si deve fare lo stesso per il clima”. Sono sfide che solo il pubblico si può e si deve intestare. “Se si muovono gli USA”, continua la Mazzuccato, “in dieci anni si risolve il problema” (del cambiamento climatico).

È arcinoto l’impegno del Papa, dall’enciclica Laudato Sì al sinodo sull’Amazzonia (6-27 ottobre 2019). Il problema della terra e del clima è per Papa Francesco un impegno tutt’altro che passeggero; il 1° Maggio di quest’anno ha scritto una lettera ai giovani economisti, imprenditori e imprenditrici di tutto il mondo, invitandoli all’evento Economy of Francesco, ad Assisi, il 26-28 marzo 2020.

Musica per le orecchie di chi crede nella improrogabilità della battaglia per la salvaguardia della terra, casa comune. Greta, i giovani FridaysForFuture e tutti i giovani del mondo hanno sposato la buona causa: se non loro, chi mai potrebbe riuscire a farlo capire anche ai potenti, molti (troppi) ancora duri di cervice (e di cuore?

RICORRENZE

Cadono quasi tutte di giovedì le ricorrenze che segnaliamo per questo mese: fa eccezione la giornata mondiale degli insegnanti, che si celebra sabato 5 ottobre.
Come di consueto, oltre a una sintetica descrizione dell'oggetto della ricorrenza, vengono riportati i link a pagine web utilizzabili per un ulteriore approfondimento.
Proponiamo inoltre una più estesa riflessione sulla ricorrenza del 24 ottobre (compleanno delle Nazioni Unite), a cura di Vincenzo Alessandro.

3 ottobre – Giornata dedicata alla memoria delle vittime dell’emigrazione

Decisione approvata in via definitiva dal Senato della Repubblica il 16 marzo 2016 con 143 voti favorevoli e 9 contrari; 69 gli astenuti. Nel provvedimento, all’articolo 2 si dice che il fine è anche quello “di sensibilizzare e formare i giovani sui temi dell’immigrazione e dell’accoglienza”. Per una riflessione su questa giornata rinviamo al pezzo precedente della rubrica Riprese e Rilanci e alla stessa rubrica del mese di settembre.

5 ottobre – Giornata mondiale degli insegnanti

Ricorrenza decisa dall’UNESCO nel 1993 per ricordare e tenere viva la sua Raccomandazione sullo status degli insegnanti promulgata il 5 ottobre 1966. La ricorrenza ha come obiettivo fondamentale quello di suscitare riflessioni sul ruolo dei professionisti della formazione, sulle sfide che affrontano quotidianamente, sulle difficili condizioni di lavoro a cui sono spesso sottoposti. L'Agenda 2030 delle Nazioni Unite riconosce gli insegnanti “soggetti chiave” per l’attuazione dell'Obiettivo 4 ("Istruzione di qualità") di Sviluppo Sostenibile. Quest'anno il tema della Giornata è "Insegnare in libertà, dare maggior potere agli insegnanti".

10 ottobre – Giornata mondiale contro la pena di morte

È giusto ricordare che il primo Stato che abolì la pena di morte fu il Granducato di Toscana nel 1786. Nel 1849 fu abolita dalla Repubblica Romana e nel 1889 dal Regno d'Italia, seppur mantenuta per reati militari e dunque applicata durante la prima guerra mondiale. Reintrodotta, nel 1926 per attentati contro il Duce e contro il Re, e poi nel 1931 anche per gravi reati comuni, fu finalmente e definitivamente abolita dalla Costituzione repubblicana nel 1948.

17 ottobre – Giornata mondiale della eradicazione della povertà

Da ricordare che il primo dei 17 obiettivi fissati dall’ONU nell’Agenda 2030 è proprio quello di sradicare la povertà in tutte le sue forme e ovunque nel mondo (vedi Agenda 2030).

24 ottobre – Compleanno delle Nazioni Unite

Il 24 ottobre 1945 furono formalmente create le Nazioni Unite dopo che la maggioranza dei suoi membri fondatori aveva ratificato un trattato che istituiva l’organismo mondiale. Nel 1971, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione con la quale si chiedeva agli Stati Membri di celebrare la giornata come una festività pubblica. Per tradizione, essa viene celebrata in tutto il mondo con incontri, esibizioni e discussioni sugli obiettivi e i traguardi dell’Organizzazione. (fonte www.onuitalia.it). Su questo tema vedi più avanti lo specifico approfondimento a cura di Vincenzo Alessandro.

31 ottobre – Giornata mondiale del risparmio

Risparmio e sostenibilità - Scelte di oggi per immaginare il domani, questo il titolo di questa 95^ Giornata Mondiale organizzata a Roma da Acri Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio.

Il 74° compleanno dell'ONU

di Vincenzo Alessandro

L’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) nacque il 24 ottobre del 1945. Siamo, quindi, giunti al 74° anniversario dell’evento, che viene ricordato sin dal 1948, anche se occorre attendere il 1971 per avere l’indicazione ufficiale agli Stati Membri, da parte della stessa organizzazione, di celebrare la ricorrenza.

L’ONU non è, forse, quello che vorremmo che fosse. Non è l’abbozzo di un governo mondiale, né un’entità capace di imporre sempre la propria volontà ai 193 Stati aderenti, tanto meno quando in gioco ci sono gli interessi dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, i quali possono bloccare, tramite il diritto di veto, le decisioni di quest’organo, cui è delegato il compito fondamentale del mantenimento dell’ordine e della pace internazionale.

Del resto, l’ONU fu costruita sulle ceneri della Società delle Nazioni, istituita, a sua volta, nel 1919 nell’ambito della Conferenza di Parigi, che poneva fine alla prima guerra mondiale. Lo scopo era quello di evitare che potesse di nuovo verificarsi le carneficina che era stata causata da quel primo sanguinoso conflitto planetario. Quindi, la SdN fu coerentemente sciolta il 19 aprile 1946, di fronte alla constatazione che quell’organizzazione non era stata capace di ciò, come testimoniavano le rovine ancor maggiori che erano state prodotte dalla Seconda Guerra Mondiale. È senz’altro utile considerare che uno degli ideatori e propugnatori della Società delle Nazioni era stato il presidente americano Woodrow Wilson, che per questo suo impegno fu insignito del Premio Nobel per la pace nel 1919, ma che, tuttavia, non riuscì ad ottenere la ratifica del Trattato istitutivo del nuovo ente internazionale da parte del Parlamento americano, a causa della strenua opposizione del partito repubblicano.

L’ONU nacque, quindi, sulle ceneri di un fallimento, il che indica piuttosto chiaramente quale sia la difficoltà di istituire un ordine internazionale basato su relazioni giuridiche e non sui rapporti di forza tra gli Stati. Difficoltà che l’ONU ha dovuto spesso sperimentare su se stessa, non riuscendo ad intervenire in situazioni drammatiche, anche quando si sono verificati efferati genocidi.

Per limitarci ai casi più famosi e recenti, basterà ricordare quello del Ruanda (1994), che fece registrare circa un milione di vittime, nonostante la presenza sul territorio del Paese di circa 2.500 caschi blu, troppo pochi, e limitati, quanto alla loro possibilità d’azione, dal mandato ricevuto; o quello del Darfur (2003-2009), altro conflitto africano che fece registrare un elevato numero di vittime, stimate pari ad almeno 400.000. Anche qui l’intervento dell’ONU fu circoscritto e inefficace. Il fatto è che l’ONU, come la Società delle Nazioni, dipende dalla volontà degli Stati, in particolare di quelli che uscirono vincitori dal secondo conflitto mondiale e siedono nel Consiglio di Sicurezza come membri permanenti (Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia, USA). Difficile, in questa condizione, riuscire a operare con efficacia in caso di crisi internazionale.

Del resto, è tutto il sistema del diritto internazionale ad essere messo spesso in discussione. Un sistema giuridico è comunemente considerato tale quando l’inosservanza di una norma da esso stabilita comporta una sanzione idonea, volta, da un lato, a ripristinare la situazione violata da un comportamento delittuoso, e, dall’altro ad irrogare una punizione adeguata a carico di chi si è macchiato di tale comportamento. Ma se, ad esempio, il “reo” si chiama Repubblica Popolare Cinese e la vittima risponde al nome di Tibet, e se il comportamento incriminato consiste nell’invasione del secondo da parte del primo (1950), come si può ripristinare una situazione di legalità senza trascinare il mondo (quello del 1950, poi) in un nuovo conflitto di dimensioni planetarie?

Ce ne sarebbe abbastanza per concludere che il diritto internazionale è niente altro che una mera petizione di principio, che di fatto, almeno a livello di rapporti tra gli Stati, non siamo ancor oggi troppo lontani dalla legge della giungla, e che, alla fin fine, la logica dei rapporti internazionali è sempre quella che animava Stalin quando, nella Conferenza di Yalta, di fronte alle obiezioni circa il mancato gradimento da parte del Papa verso una delle soluzioni politiche proposte, finiva per chiedere: “Quante divisioni ha il Papa?”, lasciando intendere in modo chiarissimo quali dovessero essere considerate, a suo avviso, e non solo suo, le determinanti della politica internazionale.

Obiezioni serie, che possiamo superare solo facendo ricorso all’insegnamento di un grande teorico del diritto, Hans Kelsen (1881-1973), il quale, in una sua memorabile opera del 1952 (Principles of International Law, New York, Rinehart & C) affermava che il diritto internazionale è un vero sistema giuridico in quanto rende possibile distinguere tra uso legittimo e uso non legittimo della forza. Se, in altri termini, uno Stato aggredito fa ricorso alla forza per difendersi, siamo certamente di fronte ad un uso legittimo; se, aggiungiamo noi, lo fanno truppe in missione di peace keeping in base ad un mandato ONU anche. In tutti gli altri casi, l’uso della forza non è legittimo alla luce del diritto internazionale, in quanto si è formata negli Stati la coscienza del fatto che l’aggressione di un altro soggetto sovrano da parte di uno Stato non è ammessa. Di qui le numerose pantomime, le finzioni, gli espedienti, le trame che gli Stati sono soliti mettere in campo per provocare la vittima designata, ovvero le manipolazioni dell’opinione pubblica, alle quale vengono spacciate come verità dei fatti inesistenti. Basti pensare alle famose armi di distruzione di massa che vennero attribuite a Saddam Hussein per giustificare la guerra in Iraq del 2003, di cui la Casa Bianca ha ammesso, nel 2005, di non aver trovato traccia.

E, tuttavia, la necessità di ricorrere alle provocazioni/manipolazioni indica che, lentamente, secolo dopo secolo, guerra dopo guerra, strage dopo strage, gli Stati devono ormai fare ricorso ad una giustificazione anche di fronte alla propria opinione pubblica, prima di muovere guerra. Non è più congrua con il grado di maturazione raggiunto dalla coscienza internazionale la logica corsara che viene descritta in una fortunata serie televisiva (Vikings, giunta al sesto anno), nella quale l’attività di “raiding”, cioè di incursione in terre più ricche e civili, è individuata, di fatto, come quella principale di quegli antichi popoli nordici, che la perseguivano senza alcuna remora di carattere morale. Quindi, ci dice Kelsen, il diritto internazionale è diritto: lo è perché ci aiuta a distinguere tra il comportamento lecito e quello illecito, anche se non sempre disponiamo degli strumenti idonei alla repressione dell’illecito stesso. Si tratta, in sostanza, di un sistema giuridico di cui occorre implementare l’effettività, l’efficacia, e, tuttavia, è un sistema giuridico perché opera una demarcazione tra ciò che è ammesso e ciò che non lo è.

Con tutti i suoi limiti operativi, l’ONU ha certamente contribuito molto all’edificazione lenta, carsica, contrastata di questa nuova coscienza internazionale. Lo ha fatto attraverso l’opera del Consiglio di Sicurezza, per quanto misconosciuta ed ardua possa essere. Ma lo ha fatto anche attraverso l’azione quotidiana delle numerose agenzie cui ha dato vita, in campo educativo (UNESCO), in campo alimentare (FAO), nelle emergenze alimentari (WFP), in campo sanitario (Organizzazione mondiale della Sanità), nel soccorso dei profughi (UNHCR), a sostegno dell’infanzia (UNICEF), in campo finanziario (FMI, Banca Mondiale, IFAD), e via dicendo.

Oggi, anche se percorso da tentazioni sovraniste, il mondo è anche un luogo molto più interdipendente di quanto fosse quello in cui operava la Società delle Nazioni, un mondo più legato da vincoli di varia natura di quanto lo fosse quello che precedette il secondo conflitto mondiale. In tutto ciò, l’ONU ha svolto un ruolo fondamentale, talvolta anche semplicemente offrendo il proscenio ai protagonisti dei cambiamenti mondiali. Ci piace ricordarne due, due adolescenti che, nonostante la loro giovane età, hanno scosso l’Assemblea Generale dell’ONU, e con essa il mondo adulto dell’intero pianeta. Si tratta di Malala Yousafzai, che ha affermato il diritto all’istruzione delle ragazze pakistane (ma non solo quelle), e di Greta Thunberg, che, con un recente iconico discorso, ha ricordato all’umanità i pericoli che corrono le nuove generazioni a causa dell’inquinamento e del riscaldamento globale. Prendendo a prestito il titolo di una raccolta poetica di Elsa Morante, si potrebbe dire: Il mondo salvato dai ragazzini.

NOTE MUSICALI

a cura di Francesco Ottonello

Pietro Mascagni (1863 - 1945): Inno al Sole (da "Iris")

Nella musica occidentale la curiosità per l’esotismo è un fatto antico, che troviamo consolidato già prima del Classicismo, con le celebri “turcherie”. Quando i compositori desideravano evocare il gusto esotico sfruttavano soprattutto l’elemento timbrico, impiegavano cioè determinati strumenti musicali (soprattutto le percussioni, che addirittura venivano genericamente denominate Banda turca) che avevano la funzione di richiamare istantaneamente, alle orecchie dell’ascoltatore europeo dell’epoca, il lontano, affascinante e misterioso mondo orientale. Questa tendenza si mantenne più o meno costante fino alla fine dell’Ottocento quando, grazie ad una maggior facilità di comunicazione, l’Oriente fu più vicino e l’Europa poté conoscerlo direttamente e in presa diretta.
Nel 1889, durante l’Esposizione Universale di Parigi, Claude Debussy per esempio fu profondamente colpito dall’ascolto di un’orchestra gamelan giavanese, formata principalmente da metallofoni (strumenti a percussione di metallo) e tale esperienza lo portò a ispirarsi a quelle sonorità non accontentandosi più di ricorrere al solo elemento timbrico: Debussy infatti puntò soprattutto a ricreare le sonorità tipiche e i modi musicali dell’Oriente, basati su moduli scalari e armonie completamente diverse da quelle occidentali.
Il periodo a cavallo fra Ottocento e Novecento vide così l’intensificarsi di questa tendenza “filo-orientale” e molti furono i compositori che vi si cimentarono nelle proprie composizioni. Il genere che meglio si adattava a soddisfare queste esigenze, con l’offerta di molti ottimi spunti, fu quello dell’opera lirica ed è per questo motivo che svariati compositori si misero alla prova misurandosi con soggetti di ispirazione orientale. Per citarne solo alcuni: Giacomo Puccini con Madama Butterfly e Turandot; Alfredo Catalani con Dejanice; i francesi Leo Delibes con Lakmé, Georges Bizet con Les Pecheurs des Perles e Jules Massenet con Le Roi de Lahore, Esclarmonde, Hérodiade, Thais, Cléopatre; l’ungherese Karl Goldmark con La Regina di Saba.
Fra gli italiani, al genere esotico si ispirò anche Pietro Mascagni, che dedicò al Giappone la composizione della sua Iris, su libretto di Luigi Illica. L’opera, eseguita per la prima volta nel 1898 al Teatro Costanzi di Roma (odierno Teatro dell’Opera), va considerata un lavoro simbolista e non verista, come comunemente si direbbe. Proprio il fatto di non essere un'opera “verista” distolse Mascagni dall’utilizzare intensivamente elementi musicali che evocassero in maniera eccessivamente scoperta il Giappone. Il compositore livornese si limitò dunque a utilizzare genericamente la scala esatonale (scala musicale di sei toni interi) e l’elemento timbrico, con un frequente impiego di gong.
La pagina forse più celebre e bella di quest’opera è l’Inno al Sole (poi divenuto anche l’Inno ufficiale delle Olimpiadi di Roma del 1960): una pagina potente, densa di ispirazione melodica, orchestrata riccamente e con dovizia di cesello.
Il Coro rappresenta il Sole che sorge e richiama il suo ruolo divino e centrale nella nascita e nello sviluppo della vita. Questi i versi dell’inno: «Son Io! Son Io la Vita! Son la Beltà infinita, la Luce ed il Calor. Amate, o Cose! dico: Sono il Dio novo e antico, son l'Amor! Per me gli augelli han canti, I fior profumi e incanti, profumi i fior, l'albe il color di rose, e palpiti le cose. Per me han profumi e incanti i fior».

LA SCUOLA C'È. LA SCUOLA È

I volti e i luoghi delle scuole italiane animano il calendario che la CISL Scuola ha prodotto per il 2019. Per ognuno dei dodici mesi dell'anno, un breve film racconta la presenza della scuola in ogni angolo del Paese; ambienti, età, situazioni diverse compongono un caleidoscopio vivente nel quale si moltiplicano immagini che ci restituiscono la varietà e la bellezza di ciò che la scuola riesce ad essere, ogni giorno, per tutti e dovunque.
Per ogni mese del calendario uno specifico "codice a barre" del tipo QR code dà accesso, per chi lo inquadra col suo smartphone, alla pagina web che ospita il breve film realizzato per noi da Giovanni Panozzo. Un giro d'Italia per dirci ogni volta, in luoghi diversi, che la scuola c'è, e ciò che riesce ad essere grazie alla straordinaria energia che la muove.

Il film del mese di ottobre

"La mia terra"

Il film di ottobre muove da un reportage di immagini di drammatica bellezza che descrivono un ambiente di grandi sofferenze e disastri come la "terra dei fuochi". Mai come in questi luoghi emerge la dimensione missionaria del compito che la scuola è chiamata a svolgere. Nelle parole dei bambini della paritaria "Suore di S. Anna" di Casal di Principe la voglia di riscatto e di rinascita di un'intera comunità.

RILANCI E ANTICIPAZIONI DA "SCUOLA E FORMAZIONE"

Il 10 settembre è morto lo scrittore Salvatore Satta. Aveva 89 anni. Oltre che grande scrittore è stato magistrato e uomo politico. Divenne celebre con alcuni romanzi caratterizzati dalla riflessione sul Male che ben poteva richiamare la drammatica forza di Dostoevskij.
Nel prossimo numero della nostra rivista Scuola e Formazione proporremo, per rendere omaggio alla sua memoria, qualche sua preziosa pagina nella rubrica Antologia moderna.
Intanto lo facciamo con la testimonianza ricordo di Goffredo Fofi pubblicata sul quotidiano Avvenire alla notizia della sua morte.

Mannuzzu e la fede che cura l’amarezza

di Goffredo Fofi

La letteratura italiana degli ultimi decenni ha avuto la sventura di diventare una pratica diffusa, consona alla 'cultura del narcisismo' che ha travolto, con la mutazione degli anni Ottanta e dintorni le ultime generazioni (il postmoderno è un’epoca nuova nella storia del pianeta, non è un’invenzione della critica letteraria statunitense!). Un mondo di scriventi e non di scrittori, un mondo senza necessità e vocazione e doti adeguate, avrebbe precisato Elsa Morante, che fu lei a consigliarmi di leggere il grande romanzo isolano di un maestro di Mannuzzu, come lui magistrato, il Salvatore Satta nuorese del Giorno del giudizio.

Fu Procedura a farci scoprire Mannuzzu, grazie alla Einaudi (1988), e fu grazie a comuni amici “sardisti” che un giorno, a Firenze dove allora lavorava, conobbi Salvatore, Toti per gli amici (e io avrei potuto chiamarlo così quando ebbi conquistato la sua fiducia, ma non ho osato mai farlo, per quanto rispetto avevo per lui, cosciente del suo valore e della sua superiorità). Lo avevo cercato per chiedergli consigli su come fosse più giusto occuparsi di Sardegna sulla rivista che facevamo allora, “Linea d’ombra”. Nello stesso arco di tempo, a fine anni Ottanta, conobbi altri scrittori di cui mi onoro di essere stato amico, i maggiori tra i recenti isolani e tra gli italiani degli ultimi decenni, Giulio Angioni, anche grande antropologo, il più giovane (e sfortunato) Sergio Atzeni, e Alberto Capitta, che i “continentali” si ostinano a ignorare, che ha saputo narrare una Sardegna immaginata, solare e fiabesca. Capitta e Mannuzzu sassaresi, Angioni e Atzeni cagliaritani, ma non so giudicare dai loro libri la diversità tra il sud e il nord dell’isola. (Dovrei aggiungere a questi nomi quelli di due ottimi giallisti e di alcune notevoli scrittrici, ma li ho frequentati di meno e, alcuni o alcune, amati di meno.) Ho detto e scritto negli anni Ottanta e Novanta che i due nostri maggiori scrittori, dopo la scomparsa dei grandi del dopoguerra, non erano romani o milanesi o torinesi, ma il sardo Mannuzzu e la napoletana Ramondino, grande amica anche lei, e di questo giudizio sono ancora convinto anche se so di non essere seguito dalla turba degli accademici e dei critici “autorizzati”.

Mannuzzu, col cagliaritano Todde, che è uno dei due maggiori “giallisti” ma poco noto, et pour cause, sul “Continente”, è tra gli scrittori che più hanno risentito, si potrebbe dire, di un’influenza russa, “dostoevskiana”, interessati a confrontarsi col Male, col “mistero dell’iniquità” di cui parlano i teologi. Il Male è un tema centrale dell’opera di Mannuzzu, da ultimo anche nella veste del male fisico che lo ha colpito legandolo negli ultimi lunghi anni al letto, ma questo male, da credente, egli sapeva controllarlo, capirlo e perfino metterlo a frutto, insistendo su una sorta di proverbio dei vecchi isolani che aveva sentito ripetere così spesso dalle donne di casa nella sua infanzia: «l’amaro ti sia caro». Dai momenti e dalle esperienze dolorose dell’esistenza si apprende chi siamo e cos’è la vita, la nostra fragilità ne viene messa alla prova, e “l’amaro” ci aiuta a capire meglio sia gli altri che noi stessi. Ci aiuta a diventare davvero adulti. La prima esperienza pesante del Male egli l’aveva avuta con la tragica morte di un fratello più giovane di lui, bello mentre lui era, diceva, brutto, e che era destinato, diceva, a un grande avvenire. Dispiaceri di vario tipo afflissero la sua vita privata – recentemente aveva perso la figlia Lidia Maria, biologa e fisiologa, morta a 58 anni per un’embolia polmonare, e anche la moglie Nannetta – e dell’amaro dovette fare un’esperienza forte, ma che riuscì a mettere a frutto nella sua opera e in qualche modo a esorcizzare. Qualcosa di questa lotta trapela forse da La ragazza perduta, che è l’altro suo romanzo che prediligo, per una forte presenza femminile e per il confronto tra una grigia quotidianità e l’intervento inatteso del sentimento che è tra i più intensi della letteratura recente.

Il suo ideale religioso ma anche umano lo si può scoprire e capire dalle bellissime pagine di un libretto di cui sono stato immeritatamente coautore, il confronto in due testi diversi tra un credente (lui) e un noncredente (io) su una delle Beatitudini. Scegliemmo insieme di scrivere dei “Puri di cuore”, e quando confrontammo i nostri testi constatammo che quel che ci divideva era, nel nostro (soprattutto nel mio) piccolo, lo stesso tipo di religiosità che divideva Dostoevskij da Tolstoj, i nostri rispettivi riferimenti... Mi onoro di questo, pur sapendo quanto scarsa fosse la mia profondità culturale e religiosa rispetto alla sua...

Di Salvatore Mannuzzu sono stato, con gli amici delle Edizioni dell’asino, anche “editore”, ripubblicando in volume una parte consistente (secondo la sua scelta) dei testi che scrisse settimanalmente e per molti anni per “Avvenire” (volle dargli il titolo di Testamenti) e prima ancora gli interventi di Cenere e ghiaccio, che ebbe per sottotitolo “Undici prove di resistenza” (2009). Contiene interventi bellissimi, per esempio quello finale e brevissimo su La contraddizione di Dio, o quello su Le ceneri di Gramsci (il Gramsci che resiste e resiste...), ma il saggio cui sono più affezionato riguarda un film, ché Mannuzzu era un appassionato di cinema, e del cinema più ambizioso come del più semplice e bensì più dotato di grazia. Il film era Monsieur Verdoux di e con Chaplin, ed era anche questo una meditazione sul Male nel singolo, e sul male nella e della Storia. Ma uno dei ricordi di lui che mi porterò dentro più a lungo è la presentazione a Sassari del libro di un comune amico, suo concittadino e compagno suo e mio di più lotte, Luigi Manconi. Eravamo in pochi, ma sentii nel gruppo la presenza di una tensione morale e politica comune, e mi sembrò di avvertire quella che, forse esagerando, considero una diversità isolana, rispetto alla superficialità di cui soffre da sempre la cultura (l’antropologia) italica, quella che i sardi chiamano “continentale”... Dopo Atzeni e Angioni, ci ha lasciato anche Mannuzzu. Ma restano altri, e restano i loro libri, e il loro fortissimo ricordo in chi ha avuto la fortuna di conoscerli e frequentarli. Dunque: che la distrazione “continentale” non prevalga, e che il vecchio canto sardo di lotta e di liberazione che con Mannuzzu amavamo ripetere, «Procurate moderare, barones, sa tirannia», sia ancora di monito a chi ci governa, come avrebbe detto il magistrato, il militante, lo scrittore, il credente Salvatore Mannuzzu!

L’antico sito nuragico di Barumini (III sec. a.C.)