DELLA LIBERTÀ

Un passaggio dell'intervento con cui Maddalena Gissi apre il mensile di settembre 2021 dell'Agenda CISL Scuola ha richiamato in modo particolare interesse e attenzione da parte di molti lettori. È quello nel quale afferma che «non si può definire “battaglia di libertà” quella di chi si oppone alla vaccinazione rivendicando al riguardo un proprio diritto soggettivo e assoluto di scelta».
Sul tema, di scottante attualità, raccogliamo in questa pagina una serie di interventi che proponiamo a chi ci segue come contributo di approfondimento e riflessione.

Liberi perché responsabili, responsabili perché liberi

di Franco Riva

La libertà è la ragion d’essere della legge morale, ma la legge morale è ciò senza cui non si sa nulla della libertà.
Immanuel Kant, Critica della Ragion pratica

Battaglie di libertà, scenari di guerra
In modo ancor più eclatante di altri casi, l’ipotesi di obbligo vaccinale nella pandemia globale inscena nel dibattito pubblico il conflitto tra una libertà sacrosanta e un dovere indiscutibile che gli sopravviene all’improvviso, e in regime di eccezione, a limitarla. Come in un teatrino dei pupi dove i ruoli sono chiari in anticipo, si scontrano nell’arena una libertà libera perché svincolata e una libertà invece minacciata e in pericolo (per alcuni), oppure guidata e salvata (per altri) da responsabilità che arrivano in seconda battuta. I presupposti spesso impliciti dello scontro si depositano nella tensione dal sapore costituzionale (art. 2), ma distorta, di principi inviolabili (libertà) e doveri inderogabili (solidarietà) che fanno a pugni; e per cui le diverse tifoserie innalzano cartelli contrapposti su piazze reali e virtuali. Cartelli di battaglia e di protesta in nome della libertà offesa. Cartelli di appello al dovere in nome d’una solidarietà che pare già acquisita e tirata fuori talora come il coniglio dal cappello del prestigiatore. Cartelli di obbligo, infine, in nome d’una responsabilità che nasce solo, però, quando l’impone una legge. E così, quanto più si dice libertà, tanto più il dovere attira su di sé sospetti autoritari e antidemocratici; e quanto più si tifa per il dovere, il sospetto scivola sulla libertà con toni individualistici e antisociali.
Mentre la verità è un’altra, che non ci sono battaglie per i diritti svincolate da quelle per i doveri, come non ci sono battaglie per i doveri svincolate da quelle per i diritti.

Tra diritti e doveri
Per la democrazia battaglie di libertà e scenari di guerra restano un destino inevitabile finché la libertà contesta il dovere e il dovere la libertà. Finché la libertà resta nemica della legge come la legge della libertà. Finché la responsabilità arriva dopo e la libertà viene prima e da sola. I film della vita quotidiana, la cronaca sociale e politica, i punti caldi all’ordine del giorno, l’inimicizia tra i tempi della vita liberi e occupati, le corde emotive sollecitate nei momenti di crisi, le insofferenze e le rabbie crescenti, il linguaggio pubblico: documentano tutti vite personali e collettive schizofreniche, umori così volubili per l’essere liberi e responsabili, per i diritti e per i doveri, quasi fossero dei separati in casa.
Quali che siano le ragioni, con i diritti invocati a priori ma a lato dei doveri, e i doveri richiamati a posteriori ma a lato dei diritti, il risultato di stallo è sotto gli occhi di tutti. Di qui i diritti che diffidano dei doveri e i doveri che limitano i diritti. Di qui la girandola degli interventi in un senso e nell’altro, i calcoli opportunistici, le strategie del consenso. Di qui la fatica e la difficoltà di formare alla cittadinanza, di educare sul serio alla libertà nella legalità, alla legalità in libertà. In ogni caso fraintendere, dissociare o contrapporre di continuo diritti e doveri, usarli in pratica o di principio gli uni contro gli altri, sgretola la convivenza e il senso di cittadinanza. Facendo però attenzione che i rischi e gli equivoci non stanno da una parte sola, quella che rivendica il diritto in astratto e fuori contesto o l’altra che invoca il dovere a prescindere e in modo estrinseco, impositivo, moralistico. Perché le parti in apparenza contrarie sono facce contrapposte della stessa medaglia e appartengono alla stessa sceneggiatura.

Tra legge e libertà
Sarà davvero proibitivo educare alla cittadinanza fin quando si dà per scontato che il diritto venga prima e il dovere dopo, senza precisarne il senso democratico e alternativo che nulla spartisce con le icone nemiche d’una libertà quale diritto solitario e irrelato, e di doveri come cani guardiani.
Diritti e doveri, libertà e legge, persona e responsabilità si richiamano invece dal profondo. Per questo in democrazia si richiedono dei criteri di equità, trasparenza, libertà, partecipazione, solidarietà sia per i diritti inalienabili che per i doveri inderogabili. Il che manda in crisi lo schema conflittuale e abusato a favore di una partitura dialogica, anche se il cammino da fare è ancora lungo. Il diritto è già un dovere, il dovere anche un diritto. Il diritto individuale (di libertà) non è antisociale, il dovere sociale non sacrifica l’individuo. Fin dall’origine, il dovere è iscritto nel diritto come il diritto nel dovere, la responsabilità nella libertà come la libertà nella responsabilità. Le parole di Kant risuonano ancora come un monito inascoltato. È vero, senza libertà non può esserci nessuna legge degna di questo nome (basti pensare a leggi ingiuste o corruttive, a contesti oppressivi o totalitari), perché proprio la libertà è la ragion d’essere della legge; e tuttavia, e proprio per questo, prima del confronto con la legge la libertà neppure ha coscienza di se stessa. La libertà è capace di legge, la legge è capace di libertà.

Tra imporre e rivendicare
Il linguaggio pubblico e le strategie comunicative sono in merito decisive, pensando soprattutto alle retoriche dalle espressioni enfatiche rivolte ora ai diritti ora ai doveri; e non di rado usate dalla stessa parte in modo alterno e rovesciato a seconda delle circostanze e delle convenienze, sbrigandosela magari al dunque con il bilancino del compenso tra diritti e doveri che accontenta un po’ tutti.
Il rapporto conflittuale ma compensatorio, compensatorio ma pur sempre conflittuale, tra diritti e doveri prolunga e ricalca ancora, quali che siano i suoi meriti, la matrice moderna che è al tempo stesso individualistica e paternalista, liberale e autoritaria. Nonostante l’impatto e l’utilizzo spicciolo da mantra educativo, il noto slogan «la mia libertà finisce quando comincia quella degli altri» si porta dietro la logica bifida di una libertà senza limiti che comincia in solitaria (indiscutibile), per scoprirli poi – ma con quale fatica, con quante riserve – quando arriva quella degli altri. D’una libertà che precede l’essere responsabili e d’un essere responsabili che si accoda alla libertà. Logica, piaccia o non piaccia, malcerta e inaffidabile perché istituisce e sacralizza perfino (altro che laicità) lo scontro stesso dei diritti di principio soggettivi e illimitati con doveri, limiti, e sacrifici di fatto necessari, in cambio di benefici e garanzie comuni tutti da verificare. Logica astuta che cerca di salvare capra e cavoli, il limite necessario per una libertà che di suo non tollera limiti, abilitando così nello stesso momento democrazia e autoritarismo. In un’impresa disperata e irrisolvibile tanto quanto suadente e tentatrice perché la libertà, o la sua illusione, resta in primo piano.
Non è così. A maggior ragione in democrazia, dove la libertà e il diritto non finiscono, come la legge e il dovere non sacrificano. Ma questo richiede uno sforzo in più di quel che non si faccia di solito per ripensare e ridire e codificare e rifare e formare insieme al diritto che partecipa con il dovere e al dovere che partecipa con il diritto, sé con gli altri e gli altri con sé.
Liberi finché responsabili. Responsabili finché liberi.

Franco Riva è Professore Ordinario di Filosofia Morale, Etica Sociale, Etica e Antropologia Filosofica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano. Ha curato opere di E. Lévinas, P. Ricoeur, S. Zizek, E. Mounier, G. Marcel. Autore di numerosi volumi, tra i quali ricordiamo: Dialogo e Libertà (2003); Partecipazione e responsabilità (2007); Bene comune e lavoro sociale (2012); Dire di no. Feticci della democrazia (2018), Etica e Cittadinanza. Parole e azioni di un lessico quotidiano di cui riappropriarci per una convivenza moderna (Edizioni Lavoro, 2020).

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La “dittatura sanitaria” immaginaria e la feroce dittatura dell’io

di Paolo Acanfora

Tra le parole-chiave che hanno caratterizzato questa difficilissima crisi pandemica un posto di primo piano spetta senza dubbio al lemma “dittatura”. I vari gruppi, più o meno nutriti e più o meno rumorosi, dei no vax, no pass e simili (non sempre interscambiabili tra loro, va detto, perché diverse sono le obiezioni e le critiche sollevate) hanno etichettato la legislazione d’urgenza ed i relativi obblighi imposti come una forma dittatoriale. Un esperimento sui generis promosso da classi dirigenti (nazionali, europee, globali) ciniche e liberticide che hanno utilizzato la crisi sanitaria con il celato intento di dar vita ad un controllo irreggimentato degli individui, costringendo l’intera società entro precisi e limitati confini.
Non importa quanto reali siano i problemi posti dalla contagiosità del virus, dalla pressione sulle strutture sanitaria e dal numero dei morti. Il problema è il conculcamento o il condizionamento dei propri diritti, delle proprie libertà. Nella nostra società segnata dall’ipertrofia narcisistica l’unico orizzonte è e rimane l’io. Ed è un orizzonte assoluto, esaustivo. È l’io nella “società dei diritti” che reclama, invoca ed esige per sé ma ignora il corrispettivo dei doveri; è l’io nella “società orizzontale” che pretende un posto da pari anche quando non ne ha le competenze, che prevarica e non partecipa.
Le limitazioni alla libertà individuale, non v’è bisogno di dirlo, sono sempre un grave problema in una democrazia liberale. Ma in un momento storico in cui si pongono obiettivamente delle esigenze di tutela della sicurezza collettiva, l’individuo responsabile in una democrazia matura non può rinchiudersi nella propria sfera di intoccabili diritti sfuggendo all’altrettanto irrinunciabile dovere di prendersi cura della comunità in cui vive. Non si tratta di una mera astrazione, ma di una concreta volontà di considerazione delle persone con cui conviviamo: dalla famiglia, al quartiere, ai contesti sociali frequentati, come ad esempio la scuola. È un comportamento elementare, basilare, di qualsiasi convivenza civile.
E proprio l’erosione delle basi di questa convivenza civile è un dato su cui si riflette da decenni. Ed è un dato che si intreccia con molti processi che negli anni sono stati analizzati e giudicati cruciali per capire l’evoluzione della cosiddetta società postmoderna: l’analfabetismo di ritorno, l’analfabetismo funzionale, la società liquida, la crisi cognitiva, etc. Tutte espressioni di un malessere profondo che si cerca di capire e diagnosticare.
L’uso improprio (sino a toccare forme parossistiche) delle parole, lo stravolgimento del loro significato, unitamente alla loro de-contestualizzazione (anche storica), è una delle conseguenze di questi processi. Per dirla banalmente ma, credo, efficacemente: sentir parlare di “dittatura” in un contesto come quello europeo o occidentale suona grottesco e paradossale alle orecchie di un afgano, di un siriano, di un cinese o un nordcoreano – e direi anche di un dissidente russo o turco. Così come suona grottesco per un italiano che abbia anche solo una minima idea di cosa sia stata l’esperienza storica della dittatura fascista. Il prossimo anno sarà il centenario della marcia su Roma e c’è da sperare che la discussione pubblica possa aiutare a superare tutta una serie di pregiudizi e distorsioni che ancora oggi caratterizzano diffusamente la lettura del fascismo. Se si pensa che organizzazioni esplicitamente neofasciste si presentano all’opinione pubblica sotto l’egida del principio di libertà contro la dittatura delle classi dirigenti, si può capire quanto le parole ed i concetti non abbiano più alcuna aderenza con la realtà e diventino vuote formule agitatorie.
Ma è evidente che il problema più significativo non è tanto nell’esistenza di esigue minoranze e gruppuscoli estremisti ma nella diffusa, convulsa e caotica percezione che le classi dirigenti e le istituzioni (politiche, scientifiche, etc.) nazionali, europee o globali, non abbiano il credito sufficiente per prendere decisioni straordinarie, per imporre misure eccezionali al fine di tutelare e preservare la salute pubblica e con essa la vita dei cittadini. È la sfiducia verso di esse ad alimentare sospetti, dubbi e perplessità sino a sviluppare vere e proprie psicosi, con la convinzione di essere vittime di inganni, raggiri, persecuzioni, segrete macchinazioni di imperscrutabili burattinai. Il crescente dilagare della mentalità antiscientifica – che si innesta su una ormai solidissima mentalità antipolitica – non può non amplificare i timori per il futuro.
È inevitabile dire che il ripristino di una visione sana della convivenza civile – in cui ai diritti corrispondano i doveri e alle libertà del singolo individuo quelle, altrettanto legittime, della comunità – passi attraverso la formazione, l’educazione, la pedagogia civile e quindi per le istituzioni che a questo scopo sono state create. Il ruolo della scuola non sarà esclusivo né esaustivo ma di certo è e rimarrà cruciale. E di questa responsabilità ogni singolo operatore (dal docente all’amministrativo) non può non farsi carico. 1

5 settembre 2021

Paolo Acanfora è docente di Storia contemporanea e Storia delle relazioni internazionali presso l’Università IULM di Milano.

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Libertà e democrazia in gioco?

di Giannino Piana

Il rifiuto dell’obbligo di sottoporsi al vaccino da parte di chi esercita ruoli che lo costringono ad avere quotidianamente un rapporto continuato con altri, come il personale sanitario e quello scolastico (ma, più in generale, da parte dei cittadini che non hanno ragioni particolari per sottrarsi), è del tutto immotivato. Le motivazioni che si adducono per sostenere tale tesi, oltre ad essere pretestuose, sono del tutto infondate. Nascono da una generale e preconcetta diffidenza nei confronti della scienza e dalla mancata conoscenza di quanto si è verificato da sempre in altre circostanze nelle quali il rischio era la compromissione della salute degli altri, nonché da una non corretta interpretazione dei dispositivi legislativi, in particolare della Carta costituzionale. È dunque anzitutto importante evidenziare e valutare le motivazioni che vengono addotte a giustificazione della tesi negazionista per mettere a fuoco con chiarezza le ragioni che impongono il dovere del ricorso al vaccino.

Le motivazioni del rifiuto
La prima di queste motivazioni è la convinzione abbastanza radicata in molti dell’esistenza di una consuetudine consolidata di rifiuto dell’obbligo vaccinale. Vi è infatti chi afferma, rifacendosi al passato – in realtà senza conoscerlo – che tale obbligo rappresenta un fatto assolutamente inedito, dimenticando che ad alcune categorie di persone – si pensi soltanto ai piloti e alle hostess che prestano servizio su rotte internazionali – è stato sempre fatto obbligo di vaccinarsi per evitare di incorrere in malattie trasmissibili – quelle tropicali in particolare – che possono avere conseguenze gravi su categorie di persone che versano in condizioni di precarietà di salute. Questo trattamento d’altronde è sempre stato praticato anche nei confronti di turisti provenienti da luoghi esotici, i quali dovevano, se non opportunamente vaccinati, sottoporsi al rientro a regolare quarantena.
È dunque del tutto scorretto parlare di realtà inedita. Come è scorretto fare riferimento – è questa la seconda motivazione addotta per giustificare la tesi negazionista – a dispositivi legislativi, risalendo fino alla Carta costituzionale. Il rimando è in questo caso all’art. 32 di quest’ultima, nel quale si sancisce la libertà di autodeterminazione della persona nei confronti del trattamento sanitario. La lettura dell’intero articolo evidenzia tuttavia la possibilità di un intervento da parte dello Stato a rendere obbligatorio “per disposizione di legge” il ricorso a misure che immunizzano le persone – tali sono i vaccini – da eventuali rischi per gli altri. La motivazione più stringente è contenuta nella definizione di salute da cui prende avvio lo stesso articolo. La salute è infatti qui considerata “fondamentale diritto dell’individuo e insieme della collettività”. Il che lascia intendere che l’autodeterminazione del singolo non è assoluta, ma deve tener conto, accanto all’interesse individuale, di quello della comunità cui appartiene.

Sono davvero in gioco la libertà e la democrazia?
Ma la motivazione più radicale – l’ultima – alla quale si fa appello è costituita dall’affermazione che l’imposizione del vaccino comporterebbe una grave violazione della libertà personale e un attentato alla democrazia. In gioco sono dunque i concetti di libertà e di democrazia, il cui contenuto è oggi soggetto a diverse interpretazioni ideologiche. Si tratta allora di precisarne il significato, evitando di incorrere in letture riduttive o devianti.
La prima considerazione che occorre fare al riguardo è che la libertà dell’individuo non va confusa con una sorta di libertarismo selvaggio, che assume come riferimento per le scelte personali la logica del desiderio e il principio del piacere, come vuole l’ideologia radicale: “vale ciò che vale per me, vale per me ciò che mi piace”. La stessa concezione liberale, che ha avuto in Occidente il sopravvento dagli inizi della modernità e che è espressione di un’antropologia individualista, pone un limite preciso all’esercizio della libertà rilevando come la libertà di ogni soggetto umano finisce dove inizia la libertà dell’altro o, in termini più precisi, afferma che “la mia libertà finisce laddove diviene ostacolo per la libertà dell’altro”.
La limitazione dell’esercizio della libertà trova poi oggi ulteriori (e più seri) motivi di conferma se si aderisce un’antropologia personalista, per la quale la relazione all’altro, lungi dall’avere un carattere esteriore e accidentale, è elemento costitutivo della definizione della persona, che è sempre soggetto di e in relazione, e dunque soggetto sociale e solidale. In questo quadro la libertà non può certo risolversi in semplice “libertà da”, in autodeterminazione individuale o in libero arbitrio; assume decisamente i connotati di “libertà per”, esigendo nel suo esercizio l’attenzione al bene dell’altro come a fattore imprescindibile: non si cresce da soli ma sempre soltanto insieme.
Da questa definizione di libertà discende anche un concetto di “democrazia”, da non intendere come semplice rispetto formale di regole ispirate al “principio di maggioranza”, che non può certo essere eluso. Deve invece diventare “democrazia sostanziale” o “democrazia sociale” che si preoccupa – come vuole l’art. 3, 2 paragrafo della nostra Costituzione – di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il “bene comune” assume il carattere di obiettivo dell’azione politica, ma costituisce anche la misura delle azioni di ciascun cittadino.
La vaccinazione e l’obbligo di ricorrere ad essa da parte di tutti coloro che non hanno gravi controindicazioni per farlo è perciò, in definitiva, un preciso dovere morale. Il suo mancato assolvimento, in quanto mette a rischio la salute (e la vita) di altre persone (soprattutto le più fragili) non è soltanto ingiustificata – come abbiamo visto – nelle motivazioni che si adducono, ma costituisce anche una pesante lesione degli autentici concetti di libertà e di democrazia.

6 settembre 2021

 

Giannino Piana è figura nota di studioso di Teologia Morale a cui si deve una vasta produzione di opere. Dedicato al suo profilo umano e intellettuale il libro “Un’Etica per tempi incerti” (Cittadella Editrice) appena pubblicato per iniziativa e con il contributo di un pool di teologi. Di grande risalto la postfazione curata dal Cardinale Gianfranco Ravasi.

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Ma è proprio giusto obbligarci al green pass?

di Donato De Silvestri

Care amiche e cari amici,
vorrei proporre una mia riflessione sulla questione dell’obbligatorietà del green pass, che sta suscitando molte polemiche soprattutto sui social, e cerco di farlo senza ceffoni verbali od offendere la dignità di chi non la pensa come me.
Non mi permetto di entrare in questioni sanitarie di cui non sono competente: per questa materia mi affido, credo responsabilmente, alle istituzioni ufficiali, agli Enti Pubblici, alla ricerca scientifica accreditata. Mi si potrà obiettare che ci sono medici ed esperti in disaccordo con essa, ma quando mi fanno questa obiezione rispondo prendendo ad esempio il mio ambito professionale: forse che nella scuola non ci sono insegnanti che danno prova di grande sprovvedutezza? L’essere insegnanti li rende necessariamente persone affidabili? Ci sono, ad esempio, docenti che, al di là di ogni buonsenso pedagogico, affermano che la scuola non dovrebbe mirare all’acquisizione di competenze.
Il mondo è giustamente vario e differenziato e la libertà di opinione è un principio irrinunciabile, ma attribuire fondatezza ad affermazioni che fanno a cazzotti con saperi e competenze di indiscutibile evidenza, sembra quantomeno avventato. Ci sono anche i “terrapiattisti”, che sostengono la terra sarebbe come una sorta di grande pizza e che gli astronauti altro non sarebbero che attori al soldo di poteri occulti.
Dicevo, io preferisco affidarmi alla scienza ufficiale, pur avendo chiaro che non si tratta di un mondo infallibile e che la ricerca, che non a caso si chiama così, è in continua evoluzione nel perenne tentativo di ottimizzare le scoperte, anche confutandone i fondamenti.
Parliamo invece di green pass e del fatto che lo si richieda obbligatoriamente a chi lavora nella scuola, o si siede all’interno di un ristorante, o viaggi su un treno od un aeroplano.
Il pretenderlo può far parlare di fascismo e negazione della libertà individuale?
Mi chiedo perché io all’interno della mia vettura venga costretto ad indossare la cintura di sicurezza. Perché mi si vieta di manifestare liberamente il mio dissenso rispetto ad una misura che non dà la certezza assoluta che l’esito di un eventuale incidente non sia nefasto?
Perché non posso trovarmi uno spazio nel cortile dell’università per fumarmi una sigaretta, rassicurato dal fatto che il mio fumo non sta danneggiando altre persone?
Perché se sono un lavoratore agricolo, o un addetto portuale, o alle pulizie e alla manipolazione dell’immondizia, o un minatore, o un metalmeccanico o un addetto alla lavorazione di carta, della legna, la legge mi obbliga a vaccinarmi per il tetano?
E ancora, perché il personale sanitario di nuova assunzione e per quello già impiegato in attività dove c’è il rischio di contagio deve fare il vaccino per l’epatite B? E infine, ma l’elenco potrebbe proseguire, perché gli studenti di medicina e gli allievi infermieri che lavorano con pazienti a rischio sono tenuti a farsi il vaccino antitubercolare?
Nei confronti di tutti questi lavoratori si stanno operando delle violenze fasciste?
Ci potremmo anche chiedere perché ci venga tolta la libertà di decidere arbitrariamente come costruirci una casa, o anche soltanto aprire una finestra, o ci si vieti di fare il bagno in certe spiagge, di scioperare al difuori di regole pattuite, o semplicemente di raccogliere dei funghi in assenza di un’apposita autorizzazione. È questa libertà? È democratico obbligarci al rispetto di norme e principi di cui non capiamo il senso, o che riteniamo inutili, o dannosi?
Ebbene, amici, la risposta non si può ricavare da libere interpretazioni, o almeno non in uno Stato di diritto.
La risposta è chiaramente espressa nell’articolo 54 della nostra Costituzione: Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
È un principio di una semplicità unica, che dovrebbe togliere ogni possibile dubbio: le leggi, per quanto non ci possano piacere, vanno osservate.
L’alternativa è diventare dei fuorilegge, consapevoli di esserlo e dei rischi che ciò comporta. Se decido, non dico di fare dei prelievi in banca con il mitra e il passamontagna, ma più banalmente di non pagare le tasse, convinto che lo Stato spenda male i miei soldi e non mi garantisca i servizi che merito, non posso (non lo posso proprio!) dare del fascista al funzionario dell’Agenzia delle Entrate che mi invia un’ingiunzione di pagamento.
Fa parte di un sistema di regole, di diritti e di doveri che ha un nome molto semplice: democrazia.
Nei monti Lessini, dove abito, in questi giorni hanno comminato 5 giorni di chiusura ad una baita i cui gestori si rifiutavano di richiedere il green pass. Lo avevano scritto sul loro sito, affermando di non volere piegarsi a misure prive di fondamento scientifico. Mi dispiace per loro e per la loro attività, anche perché li conosco e li ho sempre ritenuti delle brave persone, ma ritengo che i carabinieri abbiano correttamente fatto il loro mestiere. C’è una legge e se diventi fuorilegge ti esponi alla sanzione ed alle azioni necessarie per il ripristino della legalità.
Ma allora le leggi vanno sempre accettate abbassando la testa? Nessuno dovrebbe pensarlo, anzi. Se pensiamo che una norma sia iniqua e vada rimossa o modificata, la democrazia ci offre le opportunità per farlo, ma anche in questo caso nella piena osservanza delle norme.
Non è questo che dovremmo insegnare ai nostri studenti?
Ho preferito in questa mia chiacchierata non entrare nel merito del Diritto Costituzionale che regolamenta il delicato rapporto tra il diritto all’autodeterminazione e la tutela della salute pubblica.
Chi avesse dubbi in merito potrebbe fugarli con una veloce ricerca sulle numerose sentenze che sono intervenute in proposito e che anche in questi giorni danno risposta a chi ricorre al tribunale per avere giustizia.
Questo è il modo corretto di farlo, così come esiste un modo corretto per esprimere la propria opinione. La violenza, anche solo verbale, è un linguaggio che non può appartenere a chi è veramente libero o vorrebbe essere paladino della democrazia.

4 settembre 2021

Donato De Silvestri, professore a contratto di Didattica e progettazione educativa presso l’Università di Verona. Ha da poco pubblicato: Didattica. Essere buoni docenti oggi (Tecnodid 2020).

 

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Sul concetto di libertà

di Eraldo Affinati

Due parole sul concetto di libertà, in margine alle recenti agitazioni in nome di un sedicente e paradossale antifascismo contro green pass e paventato obbligo vaccinale. Tutte le opinioni vanno rispettate, da una parte e dall’altra, soprattutto quelle che sembrano inconciliabili con la nostra visione del mondo: è l’essenza, volterriana, di ogni società civile. Tuttavia, se questi manifestanti fossero adolescenti, dovremmo spiegare loro che essere liberi non significa fare ciò che si vuole: se così accadesse, torneremmo alla foresta primordiale dove a trionfare è sempre il più forte, che riesce a imporre il proprio desiderio su quello altrui.
La vera libertà si ottiene nell’accettazione del limite, non nel suo valicamento. Diventare democratici implica un percorso da compiere dentro di noi quasi ogni giorno: le legislazioni occidentali moderne sono cresciute sulle ossa dei morti. Chi si oppose alle barbarie totalitarie novecentesche lo fece nella speranza di consegnare alle generazioni future un mondo più giusto, costruito proprio sulla convinzione che il bene comune va perseguito ad ogni costo, non foss’altro perché protegge nel modo migliore ogni singolo interesse. Si tratta di una consapevolezza dolorosa, da conquistare in modo graduale: sulla Terra, come sappiamo, esistono ancora in tale prospettiva numerosi nodi da sciogliere.
Ma chi oggi si contrappone alla vaccinazione di massa riunendosi in piazza, magari senza mascherina, questi discorsi non li vuole nemmeno ascoltare. Niente filosofia del diritto. La posizione assunta sembra essere la seguente: voglio continuare a lavorare senza protezione, mi assumo il rischio del contagio, poi se per caso mi ammalassi, andrò in ospedale e lo Stato mi pagherà anche le spese sanitarie. E se tu, infettandoti, portassi in giro il Covid, contribuendo a farlo crescere fra noi, che invece ci siamo premuniti? Niente da fare. Io penso a me. Tu pensa a te. Sì, ma allora dove finisce la tua libertà e inizia la mia? Vecchie questioni da ragazzi tornano in auge nelle dichiarazioni di adulti. Sono minoranze? Sì, per fortuna, ma depositano dentro di noi un sentimento d’inquietudine, specie quando l’evidenza dimostra la loro matrice strumentale e opportunistica. Eppure, dietro queste idee, ammettiamolo, ci può essere anche la buona fede di qualcuno che sinceramente le proclama.
È la ragione per cui, ancora una volta, abbiamo l’impressione di dover ricominciare da capo nella costruzione del senso di comunità, superando le titubanze che ora ci attanagliano. E in quale altro luogo possiamo e dobbiamo portare avanti questo lavoro culturale se non nella scuola? Proviamo a far sì che i nostri migliori giovani si attivino nella realizzazione di una coscienza corale rovesciando l’antico motto latino: non mors tua vita mea, bensì vita tua, vita mea.

1° settembre 2021

Eraldo Affinati, insegnante, scrittore, editorialista. Ha fondato e dirige, insieme alla moglie Anna Luce Lenzi, le scuole Penny Wirton per l'insegnamento della lingua italiana agli immigrati.Tra i suoi libri più noti "Veglia d'armi" (1992), "Elogio del ripetente" (2013), "Il sogno di un'altra scuola" (2018), "Il Vangelo degli Angeli" (2021).

 

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