Torniamo ad ascoltare gli studenti ma non i somari, gli altri
La lettera degli studenti che chiedono di abolire la prova scritta all'esame di maturità, da molti commentata, è lo spunto da cui muove la lunga riflessione di Roberta De Monticelli (Domani, 26 novembre 2021) che si interroga sulle ragioni che hanno portato ad una situazione di cui occorre in qualche modo assumersi la responsabilità. "Non è possibile che di questa catastrofe non abbiamo colpa anche noi".
Ma li stiamo ascoltando? Ma li ascolta, il ministro dell’Istruzione? No, non 40mila firmatari dell’appello contro gli scritti all’esame ex di maturità. Quelli li ha certamente ascoltati, se si deve credere alle voci che rimbalzano sui social e sui media, secondo le quali il ministro starebbe correndo loro incontro, poverini, che tutto quello stress da Covid e didattica a distanza mica può aggravarlo ancora, lo stato, con il “suo” esame.
Che tanto, l’abbiamo imparato da quell’appello, i professori “curriculari” hanno “toccato con mano” già tante volte la preparazione dei ragazzi. E per quell’unico membro esterno che resta a tenere in piedi la finzione dell’esame di stato, con la maiuscola, mica può valer la pena di complicare le cose.
Qualcuno (Giacomo Costa su Affari italiani) ha in verità osservato che a rigore la domanda non sarebbe «a che servono allora degli esami scritti?» ma: «a che servono degli esami se le nostre capacità sono già state accertate a oltranza?» – ma via, non si può pretendere la logica dove manca anche la sintassi.
E comunque, gli studenti stressati non è solo il ministro che li ascolta: anche scrittori, notisti, universitari hanno colto al volo la ghiottissima occasione di stilare i loro pezzi satirici, come una sequela di temi da dieci con lode, ciascuno scritto sul cappello a punta di un povero ciuchino sbeffeggiato: una sfilata di omini di burro, una cavalcata di carrozze in uscita dal paese dei balocchi, fra gran risate.
Tutti, davvero, bravissimi: Eraldo Affinati (Avvenire) che però cosa sia il bisogno disperato di istruzione di chi non ha niente lo sa troppo bene, e non è il caso di scherzarci su; Mattia Ferraresi, godibilissimo e del tutto condivisibile (Domani); Massimo Gramellini con la sua levità tagliente (Corriere della Sera), il linguista Luca Serianni affettuosamente dissenziente (Repubblica) e molti ancora…
Ma gli altri, qualcuno li ascolta? In primo luogo gli altri ragazzi. Provo a immaginare la vergogna e l’ira che mi avrebbero presa da adolescente, a sentirmi accomunata ai ciuchini, solo perché poverini sono stressati, perché lo sono “tutti”, i ragazzi… E non certo perché “noi” invece sapessimo scrivere – che a rileggere certi proclami sessantottini c’è da impallidire d’angoscia, e li mandavamo giù come il prete il breviario.
O forse ce la proietto ora quell’ira, quella vergogna, sugli apprendisti rivoluzionari che eravamo, lanciando all’indietro nell’abisso degli anni il rimpianto per le cose che dovemmo imparare dopo, molto dopo.
Eppure a noi fu accordata, una “seconda nascita”. Una nascita alla vita della città, della democrazia, della storia. Non vi si stringe il cuore, a pensare quanto poco la mia generazione, e peggio le successive, abbiano fatto per offrirla anche agli scolari di oggi, questa nascita all’età di ragione, all’età adulta, alla maturità morale, alla cittadinanza?
Per questo vi chiedo: ma gli altri, quelli che soffrono di questa imperante stupidità pedagogica, di questo destino che li condanna non solo all’analfabetismo, ma anche alla minorità morale e all’irrilevanza politica: li stiamo ascoltando, presi come siamo dall’acume delle nostre satire? Perché non possiamo essere senza colpa, se dalle nostre generazioni sono usciti ministri dell’Istruzione come quelli che la scuola la stanno riducendo così.
Qualcosa abbiamo sbagliato, se oggi chi governa questo cuore della democrazia – l’istruzione per tutti, le parole per pensare, per ragionare e fare domande – sostiene che compito della scuola “non è trasmettere conoscenze, ma far sì che gli studenti si orientino nel mondo della digitalizzazione”; che la scuola deve eliminare le nozioni (o il “nozionismo”) e invece “portare gli alunni a vedere le imprese”, e così via, variando sui modelli pedagogici tanto più ottusi quanto più generici: come l’esaltazione di quei blob confusivi e tuttologici che oggi si richiedono ai ragazzi sotto il nome di “tesine”. Seguita alla falcidie, in ore e in contenuti, degli insegnamenti disciplinari.
Non è possibile che di questa catastrofe non abbiamo colpa anche noi. Lasciamo pur da parte la frangia di coloro che si persero per le sanguinose vie del terrorismo (e poi scrissero pessimi libri sulle loro esperienze). Lasciamo ai loro fasti ormai tramontati da un pezzo anche i non pochi che dopo aver maneggiato spranghe e slogan rivoluzionari scivolarono nell’affluenza ladra degli anni Ottanta e Novanta, vizi privati e pubblica indecenza.
Penso alle oggi evidenti inadempienze di cui, in età adulta e poi matura, si resero responsabili i più fra noi – intendo dire, fra i privilegiati che avevano pure avuto il meglio della nostra tradizione scolastica superiore, e poi s’erano abbastanza facilmente “presi tutto”: i posti di insegnamento all’università (distribuiti con improvvida logica corporativa quando non mafiosa), i ruoli chiave del “quarto potere”, la stampa e la televisione, i ruoli di comando nelle imprese, soprattutto di stato, i posti di dirigente nei partiti, a livello locale e nazionale.
Perché devono pure aver radici nel passato che noi rappresentiamo queste dismissioni endemiche delle istituzioni della vita civile, questi continui svilimenti del loro compito ideale in funzione delle più basse contingenze, questo gaio cinismo con cui si barattano governi e presidenze della Repubblica e si condannano le nuove generazioni all’analfabetismo e al silenzio civile – tanto i miei figli, pensano i fortunati, stanno studiando all’estero.
Erano tempi, i nostri, in cui si poteva esser considerati “bravi” anche con l’insufficienza in matematica, purché compensata dall’eccellenza in greco o in latino, o almeno in italiano, e questo era già purtroppo un indice di fragilità delle future classi dirigenti – non perché non sapessero far di conto, ma perché erano indotta a credere che le scienze “dure” non fossero infine che una sottospecie di computo, non vero pensiero ma esattezza di calcolo.
Era uno dei grandi equivoci dell’idealismo di Croce e Gentile. Tanto che non ci si vergognava ad ammettere di essere asini in matematica – senza sospettare che questo significasse in certo modo esserlo in logica, che è l’etica stessa del pensare. E che dove il pensiero non ammette un’etica – una norma e un limite all’arbitrio – tanta più fatica si farà a riconoscere norma e limite all’agire e alla sua “libertà”.
Siamo stati iniziati alla politica senza esserlo a quella conoscenza morale alla quale le catastrofi della prima metà del Novecento avevano formato le generazioni della Resistenza e del primo grande progetto di unità europea. L’idea stessa di una ragione pratica e quella di un’irriducibilità del diritto al potere, della norma alla forza, del dovere al fatto non aveva alcuna cittadinanza nelle menti dei più fra noi, a quell’epoca.
E così, senza accorgercene e illudendoci di fare il contrario, entravamo in politica dal lato sbagliato: quello della forza, e non quello della ragione. Norberto Bobbio avrebbe di lì a poco constatato il fenomeno di “una nuova sinistra senza bussola” che amoreggiava con le più sfrenate neosofistiche del Novecento, nichilismi decisionismi e superomismi, fino a dimenticare quanto eticamente irresponsabili fossero quelle filosofie. Le stesse che avevano giustificato e sostenuto il nazismo, e prolungato oltre il ragionevole la cecità alla realtà del socialismo reale.
Come ci si può stupire che l’impianto storicistico e gentiliano del nostro liceo, che pure sciorinava ai nostri occhi svagati le avventure della coscienza umana, sia crollato sotto i colpi ottusi della pedagogia aziendalistica imperante. Era già divorato dall’interno dal suo vuoto d’agganci – non, come si pretende oggi, alla vita produttiva. Ma alla responsabilità morale e civile di ciascuno di noi di fronte agli altri, alla città, alla storia. Basta guardare ciò che resta delle più brillanti giovinezze di allora. Due filosofi famosi che offrono improbabili argomenti agli smarriti, ai loro poveri deliri sulla macchinazione universale e la dittatura sanitaria.
Per questo me lo chiedo: ma li stiamo ascoltando, gli altri? I ragazzi che non hanno firmato, ma anche gli insegnanti che non si rassegnano alla mortificazione ministeriale. Mi rivolgo a tutti voi, che oggi state formando (diceva, visionario, don Milani) “i sovrani di domani”.
Scrivetelo voi, un appello al ministro e al governo, ricordategli quello che dicevano sulla cosa più preziosa che ha una civiltà democratica – la scuola. L’Italia che non vuole disperare sarà tutta con voi.
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