Apprendere è anche imparare a confutare

29.04.2022 12:03

Sulle pagine di Avvenire del 29 aprile 2022 la bella intervista di Eugenio Giannetta a Marina Garcés, filosofa e saggista spagnola, su perché educare, cosa insegnare, cosa e come apprendere. Una riflessione sul ruolo che la scuola può svolgere in una società attraversata da enormi diseguaglianze, nella quale l'educazione è intesa come fondamento di convivenza.

Cosa significa apprendere? «Apprendere – spiega la filosofa Marina Garcés, autrice di Scuola di apprendisti (Nutrimenti, pagine 222, euro 17,00) – significa poter stabilire una relazione di significato con qualcosa che non sapevamo prima». E qual è lo stato dell’educazione? La direzione verso cui si sta andando? «L’educazione, come sistema istituzionale che si occupa in maniera regolata di determinati apprendimenti, oggi è in crisi e in trasformazione. Di fatto, la pedagogia è una scienza e una pratica che si rinnova costantemente, ma oggi è in discussione la scuola stessa come istituzione sociale, insieme alla sua funzione. La direzione che sta prendendo viene diretta in larga misura dal mercato di futuri alimentato dalle nuove tecnologie, dal mercato del lavoro in crisi e da una società sempre più frammentata e diseguale. Se la scuola è uno spazio di tutti e per tutti, come si può formulare oggi questa radicalità democratica e ugualitaria in una società che va nella direzione opposta? Penso che nel sistema educativo, oggi, più che una crisi ci sia una lotta di classe e di aspettative». Attorno a queste domande e ad altre come “perché educare?” e “cosa apprendere?” si interroga e prova a dare risposte la filosofa spagnola, che nel suo ultimo libro parte dal riscatto della figura dell’apprendista, passando per l’educazione come fondamento della convivenza e campo di battaglia in cui la società distribuisce in modo disuguale i suoi futuri. «Non esiste – prosegue Garcés – un sapere non appreso, gli esseri umani devono sempre apprendere, anche a vivere, sempre che si possa dire che impariamo davvero a farlo. Apprendere non significa accumulare, possedere o incorporare conoscenze. È un’attività relazionale».

In questo senso, crede sia possibile un ritorno al concetto di “comunità educante” dopo essere passati attraverso la distanza del digitale e di una società più orientata all’individualismo?
Sì, penso che la distanza imposta dagli effetti della pandemia sopra le nostre vite abbia reso ancor più evidente che l’educazione è qualcosa che avviene tramite la convivenza. L’educazione a distanza, oggi attraverso internet e in passato con altri mezzi, può essere utile a determinati fini, come schivare una pandemia, raggiungere territori e popolazioni remoti o fasce di età e settori della popolazione esclusi.

Come hanno influito il Covid e la didattica a distanza?
Con il Covid abbiamo imparato molto, anche riguardo il nutrire fiducia cieca nelle nuove tecnologie. Penso che ai differenti livelli e nei vari contesti dell’educazione abbiamo fatto esperienza concreta dell’importanza del tempo condiviso per l’apprendimento come esperienza di trasformazione. Per la didattica, incorporare strumenti digitali è tanto importante quanto lo è stato in altri campi. L’accesso aperto alla conoscenza e all’informazione infrange il monopolio del maestro sul sapere, e questa è una buona cosa. La sua parola può essere contrastata. Ma continuo a pensare che il luogo dove deve avvenire questa discussione critica debba essere uno spazio di incontro fra eguali.

Siamo in una società di esperti improvvisati su ogni argomento: perché si tende a non affidarsi ai reali esperti e a mettere tutto in dubbio?
Non so se davvero mettiamo tutto in dubbio. Piuttosto, si tende ad avere ciascuno la propria opinione senza ascoltare gli altri. Penso che nella scuola si debba tornare ad apprendere come discutere a partire dall’ascolto, ad argomentare e a rettificare. È stato un errore insegnare ai bambini che tutte le opinioni sono giuste. No, tutte sono degne di essere espresse, ascoltate e, se sono erronee o ingiuste, confutate.

La nostra è poi una società orientata al risultato e alla competizione. Come influisce sull’apprendimento?
Anticamente, nell’educazione si riproducevano classi e gerarchie. Oggi, la relazione di competitività. Bisogna darsi da fare continuamente per dimostrare di essere meritevoli, non solo tra studenti ma anche tra docenti, scuole, classifiche. Da tutto questo dipende un successo inteso come ottenimento costante di risultati. Come nel capitalismo attuale, questo successo è sempre fragile e richiede sempre di più. Penso che uno degli effetti di questa modalità sia lo sfinimento dei professionisti e la demotivazione degli studenti.

Sempre in termini di risultato, siamo anche una società di iper-specializzati. Spesso però ci troviamo di fronte a “tecnici” che però non sono altrettanto preparati al di fuori della loro specializzazione. Si rischia in futuro un disequilibrio di competenze?
Credo che ciò che sta accadendo sia un fenomeno di polarizzazione: da una parte l’iper- specializzazione nelle fasce superiori della formazione e, pertanto, in mano ad alcune élite; dall’altra, un abuso della cosiddetta trasversalità nelle tappe di base dell’educazione e per i gruppi sociali meno chiamati a continuare gli studi. La combinazione di questi due elementi è pericolosa perché si perde l’orizzonte del lavoro a favore di una buona educazione coerente per tutti, a partire dalla quale la specializzazione possa essere concreta e necessaria ma non escludente.

La mobilità sociale risponde alle aspettative dell’apprendimento?
Veniamo da una narrazione dell’educazione come processo di ascesa sociale o di miglioramento delle condizioni di vita, personali e collettive. Il tempo della promessa è finito. Però il problema non è che si sia guastato l’ascensore. Penso che dobbiamo chiederci soprattutto: davvero vogliamo vivere in società verticali? In un mondo di crisi accumulate l’una sull’altra: economica, politica, sanitaria, ambientale, di nuovo bellica? Non sarebbe il momento di tornare a pensare all’orizzontalità e alla pluralità delle forme di vita come a un orizzonte di uguaglianza?

Nel libro viene approfondito il concetto di “possibilità” in rapporto alle “vite di scarto”, di cui si parla citando Bauman. Quanto è ampia la forbice di disuguaglianza nella nostra società?
L’uguaglianza viene meno nella disproporzione, quando in una vita non c’è tempo per avvicinarsi minimamente a quelle che potrebbero considerarsi condizioni minime per una vita degna. Allora la questione non è che alcuni hanno di più e altri di meno, ma che in pochissimi detengono il monopolio tanto della ricchezza quanto delle possibilità di vita della maggioranza. Questo accade attraverso regimi politici fortemente democratici, ma se guardiamo alle cose in termini sociali siamo ancora lontani dal vivere in democrazia. C’è una rottura interna nelle nostre società che la scuola non potrà riparare da sola, ma che nemmeno si potrà superare senza educazione.

Qual è oggi il ruolo della scuola?
Per me, la scuola come invenzione istituzionale ha la funzione di articolare uno spazio di convivenza attorno all’apprendimento. Vale a dire che è un tempo e uno spazio condiviso in cui a legarci non sono i nostri vincoli di sangue o la nostra posizione sociale o lavorativa, ma il fatto di apprendere l’uno insieme all’altro. Se pensiamo la società a partire da questo legame, la “scuola di apprendisti” diventa una figurazione del sociale come relazione dinamica di sperimentazione, trasmissione e impegno basati sul legame stesso.