I nostri insegnanti, eterni maltrattati
Gli insegnanti italiani sono malpagati, come ha certificato l’Ocse. Sono maltrattati dalla politica, che a ogni cambio di governo modifica le regole. Sono poco considerati anche dai genitori, che mettono in dubbio l’istituzione e i metodi didattici. Infine, lavorano in condizioni di grave penuria quando non di emergenza. Nell’ultimo decennio, un docente su 10 ha lasciato la professione. Il malessere di una categoria di quasi 800 mila persone alle quali affidiamo per 6-8 ore i nostri figli (Gianna Fregonara e Orsola Riva sul Corriere della Sera del 20 marzo)
Sono malpagati: lo ha certificato l’Ocse, gli stipendi degli insegnanti italiani sono sotto la media dei Paesi sviluppati e dell’Unione Europea. Ogni anno «perdono» cinquemila euro rispetto ai loro colleghi. Sono spesso maltrattati, dalla politica che ad ogni cambio di ministro cambia le regole per questa «categoria» di quasi 800 mila persone alle quali affidiamo per sei/otto ore al giorno i nostri figli; e da noi genitori, che non siamo più così sicuri dell’istituzione e dei metodi di insegnamento e tra l’insegnante e nostro figlio siamo propensi a credere quasi sempre al secondo. Lavorano in condizioni di grave penuria quando non di emergenza, anche se le classi italiane non sono quei pollai di cui parlano i rappresentanti di categoria (il rapporto tra docenti e studenti è di uno a 12, poco migliore della media europea). Al momento sono esclusi dalla spending review , anche se per 4 mila di loro la pensione (già sospesa dalla riforma Fornero) è di nuovo rinviata. Ma va detto che negli ultimi cinque anni la scuola ha già «perso» un insegnante su dieci (erano 843 mila nel 2007, sono diventati 766 mila nel 2012): un taglio mai visto per la pubblica amministrazione. E infine sono «vecchi» come ci dicono le indagini internazionali: la lunga e impervia strada del precariato e delle supplenze fa dei nostri insegnanti una categoria per il 62 per cento di ultracinquantenni. Un record in tutta Europa.
Ecco perché alla domanda «le piacerebbe che suo figlio diventasse insegnante?», soltanto un italiano su cinque risponde di sì. Una volta maestri e professori erano come il medico condotto, ma da decenni ormai il crisma sociale del professore si è molto appannato. Così come l’autopercezione dei docenti. Lo si vede bene da una recente indagine della Fondazione Agnelli su come si considerano i docenti entrati in ruolo nel triennio 2008-2010: forti nelle competenze disciplinari (per 9 su dieci la formazione è stata assolutamente adeguata); ma 7 su dieci dichiarano di sentirsi in difficoltà nel gestire classi sempre meno disciplinate (come dimostra la rilevazione Ocse-Pisa 2012: i quindicenni italiani sono scarsi in tutto salvo che nell’arrivare tardi o marinare la scuola) e quando viene il momento di confrontarsi con le famiglie. Strano? Per niente. Il problema sta nella formazione iniziale: anche dopo riforme e controriforme i professori entrano in classe spesso senza una adeguata preparazione specifica sul fronte pedagogico, oltre che stremati dal precariato più lungo e confuso d’Europa: il 27 marzo se ne occuperà la Corte di Giustizia, perché il periodo massimo di contratti a tempo determinato permesso nell’Unione europea è di 36 mesi. Mentre per entrare in ruolo in Italia ci possono volere anche dieci-quindici anni.
Vecchi, stanchi, poco motivati e che puntano solo al posto fisso? Alcuni forse, ma c’è anche un esercito che resiste in trincea e si rimbocca le maniche quotidianamente per fare al meglio il proprio lavoro. Come far funzionare un sistema centralizzato e così complesso? Lo spiega bene Pasi Sahlberg, 54 anni, consulente del ministero dell’Educazione di Helsinki e ambasciatore nel mondo del modello educativo finlandese, un «brand» famoso ormai quanto la Nokia. «Vent’anni fa — dice al Corriere questo ex professore di matematica — abbiamo deciso di investire nella costruzione di un rapporto di fiducia fra gli insegnanti e il resto della società. Abbiamo dato ai docenti più libertà, più indipendenza e più autonomia e presto ci siamo resi conto che così le scuole funzionavano meglio. Maestri e professori devono essere supportati, bisogna avere fiducia in loro, non controllarli o punirli». E i risultati dei test Ocse-Pisa in cui i ragazzi finlandesi rivaleggiano con le tigri asiatiche gli hanno dato ragione. Certo, il sistema di formazione dei docenti è estremamente esigente e selettivo: punta a far entrare nella scuola i «cervelli» migliori, solo uno su dieci aspiranti prof arriva in fondo alla formazione. Ma una volta che diventi docente ti basta insegnare 4 ore al giorno. Gli stipendi non sono stratosferici ma più adeguati e la reputazione sociale ti ricompensa ampiamente della tua fatica.
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