Sempre «prime» chi lavora
Sullo sciopero dei lavoratori di Amazon, il primo riguardante il colosso mondiale dell'e-commerce, una riflessione di Francesco Riccardi su Avvenire del 23 marzo 2021. «Il prezzo di un servizio Prime non può essere la riduzione dei lavoratori a macchine efficienti, la compromissione delle loro condizioni di lavoro».
C’è qualcosa di antico nello sciopero di ieri dei lavoratori Amazon. E non è semplicemente la forma di lotta scelta dai sindacati, come si potrebbe pensare, quanto le motivazioni per le quali l’agitazione è stata indetta a livello nazionale. Questioni dal sapore spiccatamente novecentesco come gli orari, l’organizzazione del lavoro, i turni, le pause, la stabilità dei contratti. Assieme alla necessità per le organizzazioni dei lavoratori di essere pienamente riconosciute almeno come interlocutrici.
Uno sciopero tipico delle fabbriche negli anni 60 del secolo scorso trasportato in un flashforward negli anni 20 di questa nuova era. Un paradosso stridente per il gruppo principe della nuova economia, che è stato capace indubbiamente di innovare e rivoluzionare completamente il mercato dei libri prima e del commercio in generale poi.
Gli slogan scelti per la protesta – «I lavoratori non sono pacchi», «Il lavoro non è una merce» – sintetizzano il malessere che emerge da molte testimonianze dei collaboratori del gruppo statunitense. Anzitutto, la difficoltà a mantenere il ritmo serratissimo della produzione di pacchi e della loro consegna ai clienti. Un dato questo che si ritrova costante nei racconti di tutte le principali figure professionali impegnate: dallo stower, colui che immagazzina le merci in arrivo, al picker che prende i beni da spedire, dal packer, l’addetto all’imballaggio, fino ai driver che guidando un camioncino consegnano i 'pacchi col sorriso' a casa nostra. Le pause sono troppo ridotte, nel poco tempo a disposizione spesso diventa impossibile usufruire della mensa o dei servizi igienici.
Troppo veloci le operazioni di presa dei pezzi su grandi distanze nei magazzini, troppo ripetitivi i movimenti necessari per completare i pacchi, con ripercussioni fisiche sulle articolazioni. E ancora, i turni lunghi in particolare per chi non ha un contratto stabile ed è quindi in difficoltà ad opporsi. Un quadro che potrebbe essere facilmente sovrapposto a quello delle catene di montaggio delle grandi industrie italiane di 50-60 anni fa. Con la differenza che, nel modello spiccatamente taylorista di allora, l’organizzazione era affidata a occhiuti responsabili di 'tempi e metodi' che cronometravano e stabilivano ogni mossa; oggi sono occhi elettronici, sensori e soprattutto algoritmi a calcolare e comandare i tempi di ogni singola operazione, delle consegne sempre più rapide. Un’intelligenza artificiale certamente efficiente, eccezionale nel guidare tutti i processi solo leggendo un codice a barre, ma probabilmente meno capace rispetto a un’intelligenza 'umana' di tener conto delle esigenze, delle possibilità e in qualche caso della dignità delle persone.
In difficoltà a 'leggere' le sensibilità che guidano tutti noi a differenza di robot e merci. Con i manager locali incapaci (o impossibilitati dalla casa madre) di fermarsi a discutere con i rappresentanti dei lavoratori dei possibili miglioramenti della condizione delle persone. Lo sciopero di ieri per la prima volta è stato organizzato dai sindacati confederali per l’intera filiera di Amazon, potenzialmente 40mila lavoratori, compresi i servizi in appalto ad altre società. Secondo i sindacati confederali hanno aderito dal 75 al 90% dei dipendenti; secondo l’azienda tra il 10% e il 20%.
Al di là della guerra delle cifre – anche in questo caso un classico dei metalmeccanici dei decenni passati più che di un’azienda dei servizi 4.0 – nei prossimi giorni si misurerà la capacità del gruppo di Jeff Bezos di interpretare la situazione scegliendo il braccio di ferro o l’apertura al confronto. Al di là delle polemiche sulla concorrenza più o meno leale con il commercio tradizionale, Amazon ha certamente offerto, anche in Italia, nuove possibilità occupazionali assieme a prestazioni impensabili fino a qualche tempo fa. Ma il prezzo di un servizio Prime – che con 36 euro l’anno è comprensivo pure di una vasta offerta televisiva – non può essere la riduzione dei lavoratori a macchine efficienti, la compromissione delle loro condizioni di lavoro. Prime le persone. Altrimenti a sorridere davvero resteranno solo i pacchi e non i lavoratori e le lavoratrici, non la gente.
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