La concertazione è finita?
Per molti un desiderio più o meno confessabile, che trova la decisa opposizione di Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola (articolo apparso su "Conquiste del Lavoro").
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E’ curioso che, prima di discutere del merito dei problemi, molti commentatori degli eventi di questi giorni abbiano salutato, con gioia mal dissimulata, la cosiddetta fine della concertazione. La strabiliante novità della trattativa sul mercato del lavoro sarebbe che un provvidenziale governo tecnico, ha tirato dritto, ha rotto trionfante gli indugi senza spaventarsi delle forze sociali, e dimostrato al popolo tutto e all’Europa intera come si fa a tagliare i nodi quando sono in gioco i superiori interessi della moneta, della patria, della comunità continentale, del mercato mondiale.
Sarebbe stata seppellita così, senza gloria e senza onore, la seconda Repubblica; di più, si sarebbe infranto il malefico tabù consociativo iscritto nel codice genetico della nostra costituzione materiale. E Monti ne è tanto convinto da ammonire che il suo disegno di legge è sacro e immutabile; il parlamento dovrà rassegnarci e fare quello che gli verrà chiesto.
Penso che si stia superando ogni limite di ragionevolezza e di buon gusto, altro che stile inglese e sobrietà. Siamo ai rimbrotti infastiditi, alle note in condotta; così si inciampa nella caricatura del decisionismo, nella messa ai margini della politica, nemmeno così grave e immeritata se non portasse dietro lo svilimento della democrazia.
C’è da sperare che torni la calma e ciascuno prenda modesta coscienza del suo ruolo. Ogni attore capisca che può interpretare solo un parte e non tutta la commedia, stabilendo le battute e i movimenti in scena degli altri. La democrazia - dobbiamo ricordarlo a dei professori? - è un gioco plurale e mobile, aperto e libero, senza finale scritto; nei casi migliori è un rischio ben calcolato, il cui unico vanto (osservava il grande maestro Bobbio) è nei cambiamenti senza spargimento di sangue, vero o metaforico.
Lontana da noi l’intenzione di dipingere un ritratto luciferino di Monti, della cui opera meritoria siamo grati e lo saremmo ancora di più se fosse meno burbanzosa. Né ci confondiamo col coro di quelli che, dopo averci lasciato sull’orlo del baratro, ostentano o fingono rimpianti per i capi unti dal carisma del suffragio elettorale. La politica tornerà al comando, non c’è paura, e l’augurio è che faccia meno danni possibile. Non pare sia questa l’incognita, la domanda è semmai in che condizioni arriverà il paese al 2013; se in via di guarigione o a membra sparse, se rinvigorito dalla cura o stremato e impotente. Trovare la misura giusta nella terapia è più importante che indovinare il farmaco; ciò vale in medicina e soprattutto nella vita pubblica.
Certo, Monti non può lamentarsi: in tanti lo aiutano a sbagliare. La compagnia che lo circonda non sembra delle più felici. I partiti praticano un rimpiattino indecoroso; appoggiano, si negano, giurano, ritrattano, si scansano, invadono, si allineano, frenano. Soprattutto parlano d’altro, più ansiosi della loro sorte che di quella dei cittadini, più impegnati a farsi dispetto che a trovare ragioni autentiche di solidarietà per il bene comune. Non c’entra la normale dialettica politica.
Siamo invece di fronte alla continuazione, con altri mezzi, del bipolarismo malato che ha provocato lo stallo italiano e incoraggiato la speculazione delle borse. La seconda Repubblica non muore, il suo spettro ci minaccia ancora. E per fugarlo ci vorrebbe più concertazione,non meno. Di quella vera, non delle imitazioni grottesche che circolano di questi tempi. Di concertazione nel senso buono della parola, il paese ne ha visto molto poca; farla diventare una sciagura nazionale ora finalmente estirpata, come cantano i vati del montismo, è una solenne bestemmia, una parodia becera della realtà.
La concertazione è figlia del caso e della necessità, come si profilano negli anni cruciali delle crisi (e dei riassetti mancati) delle grandi imprese, della immane tassa petrolifera, dell’inflazione incontenibile, dei blocchi contrattuali, della difficoltà istituzionale e politica di venirne a capo; del protagonismo di un movimento sindacale adulto e carico di responsabilità che andavano ben oltre la sua rappresentanza (piacesse o meno, sia alla destra fantaliberista che alla sinistra irredentista ). Non ci fu allora nessun attentato alla sovranità parlamentare, nessuna interferenza nell’autonomia dei governi, nessuna ferita insanabile per la nostra convivenza. E nessun cedimento del sindacato a una linea accomodante e subalterna.
Quella concertazione salvò il paese dal caos e gli permise di entrare in Europa dalla porta principale (e Monti, brusselliano fervente, pare averlo scordato, insieme ai vari Bertinotti, Cofferati, Sacconi: algidi detrattori della concertazione, o ignari del suo valore). Negli anni successivi la concertazione ha indirizzato verso le scelte meno improvvisate o pericolose per i ceti deboli (e pagatori in prima istanza del debito pubblico) e, più di recente, ha scongiurato la macelleria sociale: con o senza la CGIL, con governi più o meno recalcitranti o decisi ad andare per i fatti loro, con parlamenti più o meno distratti o indifferenti.
Dove starebbe il male di questa strategia o come la si voglia chiamare? E’ stato questo a impedire la crescita del paese, a fargli mancare l’appuntamento con la postmodernità asiatica e californiana? Se lo pensano i professori al governo, siamo messi male.
Ancora più stupore suscitano gli attori sociali, alcuni dei quali danno l’impressione che molte vicende siano capitate a “loro insaputa”. Forse sono i maggiori colpevoli del vicolo cieco in cui rischia di schiantarsi l’ultima tornata concertativa: mai nata, secondo qualcuno, ma questo aggrava la questione non assolve dalle colpe. Quando si affronta la concertazione come fosse un tavolo da poker, quando ci si siede con la riserva che alla fine vince chi racconta la bugia più furba; quando non si spinge per ottenere un risultato utile (e di risultati utili al mondo del lavoro e al Paese la Cisl li ha ottenuti in questa difficile trattativa), ma per scaricare sugli altri il peso del fallimento, è chiaro che l’epilogo è segnato. A perdere rischiano di essere solo i giocatori in buona fede. Non inesperti o creduloni, ma solo desiderosi di trovare una mediazione onorevole che non sacrifichi le ragioni e le aspettative di alcuno e serva al paese.
Ci si chiede a chi giovano tattiche così negative e suicide. Ci si chiede, con grande rammarico, quali siano le alternative se non una tecnocrazia eterodiretta o un’anarchia strisciante dove c’è posto per tutti i fondamentalismi.
Francesco Scrima