Quei messaggi segreti che possono aiutare i bambini autistici
"È nascosto, sommerso, difficile da decodificare. Eppure un linguaggio, nei bambini con l'autismo, esiste." (Elena Dusi, La Repubblica del 27 ottobre 2016)
È nascosto, sommerso, difficile da decodificare. Eppure un linguaggio, nei bambini con l'autismo, esiste. Un gruppo di ricercatori inglesi ha dimostrato che sedendosi accanto ai genitori, e insegnandogli con pazienza a interpretarlo, alcuni dei sintomi della sindrome possono essere ridimensionati.
"Non si tratta di una cura" mette le mani avanti Jonathan Green, neuropsichiatra infantile dell'università di Manchester e coordinatore del progetto "Pact", i cui risultati sono pubblicati oggi su The Lancet. Pact è l'acronimo di "Preschool Autism Communication Trial". I ricercatori hanno preso 152 bambini fra i 2 e i 4 anni e hanno seguito i loro genitori per un anno, filmando le loro interazioni con i figli e poi sottoponendoli a una serie di sedute, parte di persona e parte via web. Ogni gesto, ogni suono e ogni "bizza" del bambino è stata analizzata. Il linguaggio criptato che tanto spesso in famiglia passava sottotraccia, sommerso dall'ansia o dalla necessità di dover affrontare un pianto o una crisi di rabbia improvvisi, con gli specialisti veniva analizzato, scomposto e decodificato.
I genitori hanno seguito 12 sessioni negli ospedali di Manchester, Newcastle e Londra nel corso di sei mesi, seguite da altri sei mesi di feedback via web con i terapisti. Loro compito, una volta tornati a casa, era di passare almeno mezz'ora al giorno osservando attentamente il ragazzo, giocando con lui e provando a interpretarne il linguaggio. I bambini sono stati valutati con un punteggio messo a punto per misurare il livello di gravità dell'autismo. I test si sono svolti alla fine dell'anno di intervento e poi, periodicamente, per altri sei anni. In questo lasso di tempo sono stati confermati miglioramenti nelle relazioni sociali e nella tendenza ad adottare comportamenti ripetitivi. Il punteggio relativo ai sintomi si è ridotto del 17%. L'indice di gravità dell'autismo è passato, in media, da 7,9 a 7,3. Fra i bambini sottoposti al programma, dopo i sei anni di osservazione, il 46% è stato classificato come grave (si partiva dal 55%). Nel gruppo di controllo (quella sezione dei volontari che, negli studi clinici, viene privata dell'intervento per poter fungere da parametro di riferimento) i casi gravi erano invece il 63%, rispetto al 50% iniziale. Sono invece rimaste intatte le difficoltà di linguaggio e l'ansia. Con il tempo, i benefici sono leggermente diminuiti. Ma la sfida della ricerca sull'autismo, in tutto il mondo, oggi è proprio quella di anticipare il più possibile la diagnosi, in modo da intervenire quando il cervello è ancora plastico e ricettivo.
"Il vantaggio di questo approccio – spiega Green – rispetto a un intervento diretto sul bambino è che i risultati si fanno sentire nella vita quotidiana, e all'interno del contesto familiare". Per ogni ragazzo, durante l'anno di intervento, si cerca di sviluppare un vocabolario personalizzato. "I genitori hanno un grande desiderio di aiutare i loro figli – aggiunge Green – ma spesso si sentono sperduti in mezzo al mare. Sentono che le loro qualità di padre e di madre non sono sufficienti ad affrontare la situazione". Lo stesso programma, con alcuni adattamenti culturali, è stato applicato ad alcune famiglie in India e Pakistan. Per cercare di rilevare le prime tracce di autismo nei bambini molto piccoli, il metodo è stato usato alla fine del primo anno di vita anche nei fratelli minori dei ragazzi colpiti dal disturbo. Nell'autismo esiste infatti una chiara componente genetica. Nel corso degli anni sono stati individuati vari frammenti di Dna che giocano un ruolo nella malattia. Ma nessuno di questi geni si è rivelato decisivo per sviluppare il disturbo (e per provare a mettere a punto una cura). La diagnosi oggi avviene osservando i disturbi del linguaggio e della socialità. Segni che non compaiono in maniera chiara prima dei 3-4 anni di età.
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