Sono in ritardo i ragazzi o la scuola?
"Chiediamoci la ragione per cui quegli stessi adolescenti che la mattina, stanchi e svogliati, danno il cinque per cento delle loro potenzialità, il pomeriggio sono molto più attivi e perspicaci. E se non fossero poi così scarsi come questi strumenti di valutazione testimoniano?" Nel dibattito apertosi dopo la pubblicazione degli esiti delle prove Invalsi interviene Eraldo Affinati (La Repubblica, 14 luglio 2019), portando sotto la lente anche l'attendibilità delle prove Invalsi come strumento di effettiva misurazione delle capacità e delle conoscenze degli alunni.
I risultati scarsi, secondo alcuni disastrosi, fatti registrare dagli studenti italiani nelle recenti prove Invalsi per quanto riguarda la matematica, l'inglese e l'italiano, insieme alla difformità regionale con il Sud in grave difficoltà, hanno aperto un dibattito che non dovrebbe riguardare solo gli addetti ai lavori. Stiamo parlando del nostro futuro: in un Paese civile questa dovrebbe essere, strettamente intrecciata a quella educativa, la prima emergenza da affrontare. Invece, come sappiamo, il fuoco mediatico si accende e si spegne ogni anno, quando i dati vengono diffusi, nel giro di pochi giorni.
Partiamo dalla nota dolente legata alla problematica comprensione del testo scritto da parte degli alunni di terza media e di quinta superiore. Si tratta della punta emergente di un iceberg gigantesco, come se le approssimazioni, le lacune, gli errori rilevati in aula, ben lungi dall'essere corretti soltanto con la matita blu e rossa, smascherassero uno stravolgimento nelle forme del nostro pensiero. La rivoluzione informatica che stiamo vivendo spinge i ragazzi a leggere sugli schermi, grandi e piccoli, in modo diverso rispetto al passato ma con forma ermeneutica di qualità non inferiore. È una mutazione che certi studiosi definiscono antropologica perché innesca nei giovani nuovi meccanismi logici, meno deduttivi e più associativi, con tempi di concentrazione inferiori e maggiori capacità di passaggio, spesso intuitive, complicate da certificare, da un contesto all'altro. Ad esempio, queste ultime frasi che ho appena scritto, nella loro apparente cripticità, appartengono all'antiquato schema novecentesco che i post millennials si sono rapidamente lasciati alle spalle: una visione svanita. Se qualcuno di loro riscoprisse i canoni e gli stili a cui noi facciamo riferimento, li potrebbe considerare alla maniera di fregi architettonici, una sorta di linguistica archeologia industriale, come tale affascinante, tuttavia da conquistare, assai poco naturale.
Non è semplice per la scuola adeguarsi a questo cambiamento epocale ed è anche troppo facile criticare i suoi ritardi e le sue disfunzioni. Non basta portare il tablet in classe o affermare l'uso del registro elettronico. Per ristabilire le gerarchie culturali nel mare magnum del web sarebbe piuttosto necessario trasformare la testa di noi tutti: insegnanti, allievi, ma anche genitori. Se fossimo di fronte a uno scarto ormai insostenibile fra il modo in cui noi docenti spieghiamo e i nostri studenti apprendono? Se non potessimo conoscere sino in fondo la vera personalità degli adolescenti continuando a utilizzare il vecchio cliché del secolo scorso, cioè lezione frontale, contenuto da trasmettere, voto da assegnare e competenza da accertare? Il rischio di trasformare la lettura creativa di un brano antologico in un esercizio da settimana enigmistica è sempre in agguato. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli. Facciamone uno solo. In uno di questi test, compreso nel pacchetto destinato agli studenti in procinto di affrontare gli esami di Stato, si analizza una poesia di Giovanni Raboni, il cui primo verso recita: "L'autunno ha a volte luci così terse". Allo studente viene chiesto il significato dell'aggettivo "terse" in questo testo. Le opzioni proposte sono quattro: "pulito/trasparente, brillante/luminoso, vitreo/lucente, splendente/lucido". Siamo proprio sicuri che questa griglia ci aiuti a scrutinare la capacità di comprendere un testo lirico? Poi chi la sbaglia magari va ad aggiungersi alla folta schiera del 35 per cento di quelli che non sanno leggere.
E, allargando ancora di più il campo: siamo davvero persuasi che una semplice risposta corrisponda a una vera conoscenza? Certificare la cosiddetta qualità scolastica è particolarmente difficile: dobbiamo conoscere il punto di partenza dello studente per verificare il percorso che ha compiuto: solo chi è stato con lui tutto l'anno può saperlo. Inoltre esistono tempi e forme di apprendimento assai diverse da persona a persona. Molto, se non tutto, dipende dalla relazione umana che scatta fra docente e discente. Gli standard di valutazione oggettiva ormai hanno trionfato su scala europea. Eppure i nostri studenti, quando vanno all'estero, non sfigurano affatto nei confronti dei loro coetanei francesi, inglesi o tedeschi; anzi, in molti casi li surclassano. Sulla questione meridionale, eterna infrangibile spaccatura italiana, avrei molto da raccontare: vado nelle scuole del sud e trovo sempre una potenza fortissima negli occhi degli studenti e dei docenti che incontro. Le strutture sono spesso inadeguate. I professori lottano a mani nude contro il degrado. Le intuizioni dei giovani lettori risultano a volte folgoranti. Non sarà che molti di loro rifiutano il sistema di valutazione che oggi li colloca nelle posizioni più basse della classifica? Dovremmo trasferire il vecchio mondo dentro il nuovo: ci aiuteranno i giovani laureati, futuri insegnanti, digitali di formazione ma consapevoli del peso della tradizione. Dobbiamo nutrire nei loro confronti una fiducia presuppositiva. Anche perché non abbiamo altra scelta.
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