Sull'immigrazione la dialettica possibile tra Chiesa e Governo
La dimensione religiosa ha una visione che supera per forza i confini, mentre la cittadinanza impone il concetto e il rispetto di limiti. Due visioni complementari su cui ragiona Mauro Magatti sul Corriere della Sera del 20 agosto 2015
Il Mediterraneo è un piccolo mare sulle cui rive guardano mondi diversi: l'Islam povero e instabile dei nostri anni e un'Europa invecchiata ma ancora benestante, alla ricerca di una propria identità.
Al di là dei toni esasperati, le polemiche di questi giorni suscitate dagli interventi di papa Francesco (ripresi poi con toni accesi da mons. Galantino) sollecitano una riflessione urgente sul rapporto tra politica e religione nella sfera pubblica contemporanea.
Secondo gli ultimi dati, più di 100 mila rifugiati sono arrivati in Europa nel mese di luglio. Nessuno può più sottovalutare la questione. Tanto più che l'esasperazione del fenomeno arriva dopo un ventennio in cui l'immigrazione nel Vecchio Continente è tornata a essere significativa.
Politica e religione guardano i migranti con occhi diversi. Chi sono queste 100 mila persone arrivate in Europa nel mese di luglio? Per la Chiesa, esseri umani che, come tali, vanno accolti. Per lo Stato, cittadini stranieri che non hanno, di per sé, diritti, dato che sono «fuori posto».
La differenza è tutt'altro che banale, perché i nostri sistemi politici sono basati su un vincolo di cittadinanza. Al di fuori dell'area che così si definisce, non c'è politica. Ma, anche se concordiamo su questa premessa (e non potremmo fare diversamente), il problema non è risolto.
Negli Anni 90, l'Occidente giustificò gli interventi militari fuori dai suoi confini nazionali parlando di «ingerenza umanitaria». E non si trattava solo di un'astuzia: le democrazie occidentali hanno nel loro Dna una vocazione universalistica che le spinge oltre se stesse. Vocazione tutt'altro che facile da gestire: perché se è vero che un astratto cosmopolitismo rischia di fare molti danni, neppure ci si può accontentare di una irrealistica fissità.
Il nodo è la distanza tra la «nuda vita» delle persone che arrivano (in greco è «zoè») e il riconoscimento politico di queste vite («bios»). Distanza in un certo senso incolmabile che non va né demonizzata né negata.
L'intervento della Chiesa rischia di fare confusione se invade il campo della politica. È invece utile nella misura in cui ricorda alle democrazie europee a cominciare dai cittadini che dichiarano di riconoscersi nella fede cristiana – che vivono di questa contraddizione tensione e, scomodandole, le sollecita verso la ricerca di soluzioni più avanzate.
Ecco perché le due posizioni attorno a cui il dibattito tende a polarizzarsi (quelle vite «impolitiche» non sono affar nostro; una vita è immediatamente politica) non tengono. Per ragioni opposte. Da un lato, non esisterebbe nessuna comunità politica senza un limite. Non solo per ragioni pratiche ed economiche (costi, regole ...), ma anche culturali: una comunità politica esiste solo entro una cornice di senso, una narrazione condivisa. Che richiede tempo, investimenti, pazienza, coinvolgimento per essere creata. Dall'altro, non esiste una vita politica chiusa, priva di collegamenti, connessioni, scambi – talvolta anche traumatici - con l'ambiente esterno.
Da questo punto di vista, l'arrivo dei migranti come conseguenza di una globalizzazione che aumenta l'interconnessione senza fornire di per sé le soluzioni - ripropone in forma storicamente nuova l'antica questione dei rapporti tra politica e religione: un rapporto che in occidente è stato spesso problematico, ma anche generatore di una dialettica che ha fatto bene sia alla politica che alla religione.
Dalle polemiche di questi giorni si possono trarre almeno due indicazioni.
Sul piano politico, è sempre più evidente l'insufficienza dei nostri assetti istituzionali: il ritardo con cui si sta affrontando un problema di tale gravità - che può essere gestito solo grazie ad un concerto di azioni - rivela la necessità di arrivare ad una nuova e più chiara articolazione tra il piano nazionale e quello sovranazionale (a cominciare dalla Ue).
Sul piano religioso, nel porre il tema, la Chiesa è giustamente sollecitata a verificare la propria capacità di praticare per prima l'ospitalità di cui parla, sviluppando nel contempo le condizioni di un dialogo con l'Islam, rispetto al quale i termini della convivenza, in Europa e non solo, rimangono ancora in larga parte da chiarire.
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