Quando il giudice si inventò giornalista
Nel giorno in cui ricorre il ventisettesimo anniversario della strage di Capaci, Francesco La Licata ricorda su La Stampa (23 maggio 2019) il periodo in cui Giovanni Falcone accettò di scrivere per il quotidiano torinese, diretto allora da Paolo Mieli. La memoria è lo spunto per una riflessione sul rapporto, non facile, del giudice col mondo dell'informazione, e per provare a chiedersi come Falcone avrebbe vissuto oggi quel rapporto.
La settimana scorsa, esattamente sabato 18, Giovanni Falcone avrebbe compiuto 80 anni, un’età che può consentire a chiunque di allentare un po’ i freni inibitori o la consueta riservatezza istituzionale ed esprimersi più liberamente sullo spirito dei tempi. Sappiamo che non si fa la storia con i “se” e non ci si dovrebbe neppure servire del pensiero di chi non c’è più e, quindi, non può né smentire né confermare. Ma resta grande la curiosità, quasi il naturale istinto di chiedersi come Falcone avrebbe vissuto il particolare momento della nostra vita attuale, specialmente in relazione alla comunicazione, ai giornali, alle fake news, alle problematiche racchiuse nell’uso di Internet. Curiosità spontanee, soprattutto per chi ha conosciuto da vicino il giudice e ne ha condiviso parte del percorso umano e professionale.
Non è stato facile, sin dall’inizio della sua attività, il rapporto tra Giovanni Falcone e l’informazione. Il giudice nutriva un’irrefrenabile ritrosia e diffidenza nei confronti dei giornalisti. Non amava la diffusa attitudine di molti cronisti alla banalizzazione. Non nascondeva l’irritazione quando qualche domanda gli sembrava maliziosa o tesa semplicemente a rinfocolare polemiche inutili. «Mi sembra», diceva, «di perdere tempo, di sviare l’attenzione dai problemi seri, la lotta alla mafia, alle banali liti di cortile». Figurarsi cosa avrebbe da dire oggi.
Quando prese possesso della sua stanza blindata nel bunker del Palazzo di Giustizia di Palermo - era l’inizio degli anni Ottanta - come primo accorgimento pretese l’installazione di un videocitofono. Qualcuno giudicò una snobberia quella richiesta, ma per lui quello strumento si rivelava essenziale per poter selezionare le persone che chiedevano udienza e respingere con perdite i cronisti. Per parlargli bisognava fare estenuanti tentativi e qualche possibilità di successo rimaneva solo se la maggior parte dei giornalisti, stanca, si arrendeva e andava via.
Questo atteggiamento durò parecchio e spesso per parlargli tranquillamente bisognava attendere il buio e saltare la cena. Il tentativo di intervistarlo era un romanzo a puntate, e quando rispondeva erano monosillabi.
Poi cambiò atteggiamento, anche grazie al confronto con quei cronisti che si erano conquistati la sua fiducia. Capì appieno l’importanza della comunicazione, soprattutto nel momento in cui si sentiva accerchiato politicamente e al centro di feroci campagne di delegittimazione. Cominciò a farsi intervistare, ma solo quando sentiva la necessità di non poter delegare alla mediazione giornalistica la rappresentazione di problematiche importanti e difficili. Anche per le interviste metteva in atto la sua selezione, ovviamente attirandosi ulteriori antipatie da parte di chi veniva deluso. Falcone non se ne curava, come non si curava di rendersi simpatico alla politica, col risultato disastroso di ritrovarsi sempre nella tempesta e nelle prime pagine.
La svolta arrivò col trasferimento a Roma, all’inizio degli anni Novanta, quando accettò l’invito rivoltogli dal direttore Paolo Mieli di scrivere per La Stampa. Cedette dopo un lunghissimo martellamento che portai avanti insieme con Marcello Sorgi, allora capo della redazione romana. Falcone era preso da mille dubbi, temeva accuse di opportunismo, ripensava a tutte le volte che era stato indicato come un professionista dell’antimafia. Gli sembrava quasi sconveniente che un magistrato scrivesse su un giornale, e si convinse solo dopo un risolutivo colloquio torinese con Norberto Bobbio, a cui il giudice si rivolse per essere confortato sulla liceità della propria scelta.
Cominciò, quindi, il rito settimanale del pranzo a tre (Falcone, Sorgi e io) nella bellissima terrazza dell’Eden, alle spalle di via Veneto. Era una battaglia continua, sia per la scelta degli argomenti, sia per la scrittura che lui avrebbe voluto «la meno giornalistica possibile», temendo appunto di essere frainteso o di inciampare in una parola che riteneva inadeguata o poco istituzionale. Così, spesso la frase a effetto, buona per il titolo, andava messa «a tradimento», dopo l’ennesimo dibattito.
Ma Falcone aveva ormai compreso perfettamente l’importanza di poter esprimere direttamente il proprio pensiero, pur mantenendo tutta la sua diffidenza per lo strumento. Già qualche anno prima aveva tentato di conquistarsi un posto da dove trasmettere il proprio sapere. Era il 1988 e la facoltà di Magistero di Palermo (preside il professor Gianni Puglisi) lo aveva invitato a tenere alcuni corsi sul tema «Linguaggio e comportamenti della mafia». Con grande dispiacere di entrambi, il giudice fu costretto a rifiutare per le polemiche strumentali insorte, anche a proposito di eventuali pericoli per l’incolumità degli studenti. Eventualità remota, dal momento che le lezioni si sarebbero tenute nell’aula bunker dove si era celebrato e concluso il maxiprocesso.
Falcone tradì il rammarico in una lettera a Puglisi: «Mi sembrava un’occasione propizia per mettere finalmente ordine e dare sistemazione teorica a una messe imponente di dati [...] ma l’enfatizzazione fin da adesso di questa iniziativa rischia di snaturarne gli scopi». Dura con l’ambiente accademico la reazione di Puglisi: «Non vorrei che in nome della sicurezza si sacrificasse un contributo di eccezionale livello». Pensiamo per un attimo a oggi, a Falcone ottantenne che parla di mafia e politica. Forse sarebbe invitato a tacere o candidarsi.
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