L'integrazione nell'interesse nazionale
"L’integrazione dei migranti è un test di crescita per ogni democrazia industriale, capace di rafforzarne la prosperità come di indebolirne la solidità, e l’Italia non fa eccezione." (Maurizio Molinari, La Stampa del 2 luglio 2017)
L’integrazione dei migranti è un test di crescita per ogni democrazia industriale, capace di rafforzarne la prosperità come di indebolirne la solidità, e l’Italia non fa eccezione. Ecco perché è opportuno affrontare senza perifrasi la sfida che abbiamo davanti, guardando oltre liti politiche interne e dispute internazionali.
Di fronte ad una simile prova altre democrazie dell’Occidente hanno reagito declinando in maniera non uniforme l’interesse nazionale, ma puntando sempre a rafforzare la propria sovranità. Quando alla fine dell’Ottocento i bianchi, anglosassoni e protestanti decidono di aprire le frontiere della giovane repubblica americana alle masse di migranti cinesi, cattolici ed ebrei accettano il principio di diventare minoranza numerica nella nazione che hanno creato ponendo le basi di quella che è ancora oggi la più prospera democrazia del Pianeta. Quando Gran Bretagna, Portogallo e Paesi Bassi liquidano i propri imperi, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, stabiliscono regole che consentono l’immigrazione dalle ex colonie perché consapevoli del patrimonio di manodopera e conoscenze che possiedono.
Quando nel 2013 la Spagna viene sorpresa dai migranti in arrivo dal Sahel, Madrid assicura ai Paesi di provenienza – come il Senegal – quantità di investimenti tali da trattenerli ed al tempo stesso ricorre al pugno di ferro contro gli illegali spingendosi, d’intesa con il Marocco, anche a rimedi estremi contro le barche dei trafficanti per ostacolarne i piani criminali. Quando la Germania di Angela Merkel subisce nel 2015 l’impatto dell’onda dei profughi siriani stanzia 94 miliardi di euro per 5 anni al fine di integrarli, a cominciare dal mondo del lavoro, e al tempo stesso sigla accordi di ferro con la Turchia ed i Paesi balcanici affinché chiudano le frontiere, riducendone l’arrivo fino a bloccarlo del tutto. Quando nello stesso 2015 l’Australia teme l’invasione dei diseredati dalle acque dell’Estremo Oriente schiera la marina militare, spingendosi fino a concentrare i migranti in singole isole per poi consegnarli ad altre nazioni del Pacifico, in cambio di investimenti. E quando nel 2005 Israele viene investito dai migranti dell’Africa Orientale, giunti a piedi attraverso il Sinai, li accoglie applicando regole ferree: chi lavora può restare solo un numero limitato di anni, gli altri torneranno indietro anche grazie ad accordi economici con Paesi terzi pronti ad accoglierli.
In ognuno di questi casi si è trattato di scelte difficili, controverse, segnate da errori, passi falsi e polemiche, che hanno lacerato le opinioni pubbliche e obbligato i leader dei rispettivi Paesi ad affrontare seri rischi politici pur di tutelare le singole declinazioni dell’interesse nazionale ovvero rafforzando lo Stato. In nessuna delle democrazie industriali l’integrazione dei migranti è stato un processo indolore e per alcuni, come la Francia e il Belgio, gli errori compiuti sono stati tali e tanti da far nascere quartieri-ghetto dove emarginazione e povertà hanno generato prima le baby gang criminali e poi il jihadismo più sanguinario.
Tale cornice aiuta a comprendere perché quanto sta avvenendo in Italia con l’arrivo di decine di migliaia di migranti attraverso il Mediterraneo è la fine di un’eccezione: non aver dovuto fare i conti con arrivi massicci di stranieri intenzionati a rimanere è stato nel Novecento un singolare privilegio che era destinato a finire. Essere arrivati fra gli ultimi a fronteggiare tale sfida ci consente di poter apprendere da successi e fallimenti altrui nella definizione del nostro interesse nazionale. A tal fine è opportuno enumerare quattro punti fermi. Primo: i migranti costituiscono un’opportunità di crescita e sviluppo se vengono integrati altrimenti l’effetto è opposto perché l’emarginazione nutre ogni sorta di estremismi. Secondo: per integrarli bisogna regolarne gli arrivi in base alle proprie potenzialità di accoglienza garantendo a chi resta parità di diritti in cambio di assoluto rispetto della legge. Terzo: ciò significa dover varare leggi aspre, a volte impopolari ma necessarie perché l’integrazione dello straniero non è una passeggiata in un giardino di rose: richiede sacrifici a chi accoglie ed a chi arriva. Quarto: chi accoglie è chiamato ad accettare la ridefinizione dell’identità collettiva della comunità a cui appartiene da generazioni così come chi arriva è chiamato a rinunciare ad una parte importante dell’identità di origine per sostituirla rapidamente con quella del Paese dove ha scelto di risiedere. 6
Per gli uni come per gli altri è un percorso molto duro. L’interesse dell’Italia è dotarsi di provvedimenti, leggi e politiche che lo rendano possibile, sulla base di principi condivisi: non tutti i migranti che sbarcano possono rimanere perché una nazione sovrana non è una porta girevole, ma chi viene accolto deve poter intraprendere un cammino verso la cittadinanza che include l’integrazione nel sistema produttivo; il traffico di esseri umani è un nemico spietato da combattere con la stessa determinazione necessaria per dare accoglienza a chi fugge da guerre e persecuzioni; stabilità e sviluppo dei Paesi di provenienza dei migranti riducono le diseguaglianze geografiche che generano esodi di massa.
Poiché coniugare integrazione e sovranità è una sfida nazionale per essere vinta necessita il coinvolgimento di tutte le forze politiche del Paese, che si trovino al governo o all’opposizione poco importa, e in ultima istanza il sostegno e l’attenzione di tutti i cittadini italiani, a prescindere dalle fedeltà di credo o di partito.
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