Le cicatrici rimangano e siano monito
Abbattere monumenti legati a personaggi o vicende di cui la storia ha sancito la condanna: questione di cui si occupano le cronache di questi giorni, dopo il verificarsi di episodi che, come spesso accade, tendono a ripoporsi in parti diverse del mondo in una sorta di reazione a catena. Affronta il tema, sulle pagine di Avvenire (12 giugno 2020), Eraldo Affinati, e lo fa col supporto che gli viene da un diretto contatto con molte storie di sofferenza, dove la rimozione non si dimostra mai rimedio efficace per vincere i terribili traumi del proprio vissuto.
Sarebbe molto facile, forse troppo, smontare la patetica pretesa di quanti, pur praticando le sacrosante ragioni dell’antirazzismo, vorrebbero tornare indietro nel tempo per distruggere le testimonianze dei malfattori, in modo da cancellarle dalla faccia della terra. Partiamo dal Novecento e procediamo a passo di gambero. Primo esempio: dovremmo abbattere certe architetture presenti nel quartiere capitolino dell’Eur, ideato dal Duce, perché ospita frasi d’impronta fascista?
Secondo esempio: senza neppure entrare nell’arbitraria interpretazione storica che attribuisce a Cristoforo Colombo la responsabilità dei crimini coloniali, sarebbe auspicabile decapitarne la statua come hanno fatto ieri l’altro alcuni manifestanti a Richmond e a Boston? Terzo esempio: gran parte delle antiche sculture romane, specie quelle dei bassorilievi, altro non sono che la celebrazione dei crudeli eccidi compiuti dai legionari contro le popolazioni ribelli al potere imperiale. Seguendo l’ipotetico ragionamento, cosa aspettiamo per sbriciolare anche quelle?
Lasciamo da parte l’eventuale malafede di chi volesse speculare a proprio vantaggio sull’indignazione popolare. Scartiamo anche il grado più basso dell’iconoclastia: il semplice vandalismo. Immaginiamo che dietro l’ingenua richiesta di processare i delitti trascorsi smantellando le opere che li ricordano si nasconda un sentimento più nobile: la volontà di ricominciare da capo mettendosi alle spalle ciò che ci disturba. Molte delle persone che in questi giorni stanno protestando contro il vero e proprio assassinio del povero George Floyd a Minneapolis potrebbero appartenere a quest’ultima schiera. In tal caso dovremmo idealmente chiamare il professore di storia e filosofia chiedendogli di recitare, ancora una volta, la sua vecchia, amara, ma a quanto pare tuttora necessaria, lezione. «Il passato non è più, il futuro non è ancora», scriveva Sant’Agostino.
Cosa conta dunque se non il presente, inteso quale memoria in perenne ristrutturazione, visione delle azioni in cui siamo costantemente impegnati e febbrile attesa di un futuro sempre ignoto? Il tempo è un fiume che scorre sulle proprie morene trascinandosi via tutto: sarebbe illusorio credere di poter espungere da sé stessi le dolorose spine che hanno trafitto i nostri padri, così come le rose del cui profumo essi si sono inebriati. Al contrario: dobbiamo tenerci tutto dentro, cose belle e cose brutte, soltanto così riusciremo a prendere posizione, uscendo dall’indifferenza, per cambiare quello che siamo. Soprattutto il male umano, se vogliamo superarlo, fuori e anche dentro di noi, occorre attraversarlo, senza pensare di poterlo scansare buttandolo giù con un semplice scrollone.
Tante volte, nella mia esperienza educativa coi ragazzi immigrati, ho notato come non pochi fra loro tendessero a occultare i traumi vissuti attraverso l’elaborazione di un racconto fittizio che veniva assunto come autentico. Questa strategia si rivelava puntualmente inefficace, assomigliando a una fragile benda curativa pronta a staccarsi al primo ostacolo. Il compito da svolgere era assai più lungo, complesso e faticoso: bisognava raschiare sulla crosta della ferita, a costo di farla sanguinare, per affrontare la sofferenza e vincerla sul serio fino a trasformarla in una qualsiasi cicatrice. Il medesimo procedimento scatta nell’elaborazione della memoria collettiva: se vogliamo conoscere e giudicare il passato più tragico occorre scendere, a ogni generazione, anche a questo serve la scuola, nel cuore di tenebra presente dentro l’animo umano, prendendo coscienza di quanto accaduto.
Stiamo parlando di studio, analisi e riflessione. Per combattere il razzismo non serve scaricare sulle sue rappresentazioni materiali, ognuno ha le proprie, la nostra pur sincera indignazione. Certi segni trascorsi, perfino inquietanti, anziché venire eliminati, dovrebbero restare presenti quale monito eloquente riguardo agli errori di chi ci ha preceduto, offrendoci le tracce del giusto cammino da percorrere. È
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