Layla, la neonata scampata all'IS che dorme in una cassetta
"Professionisti che vivono nel rischio e nelle privazioni da anni, che l’estate scorsa hanno accompagnato Unicef e Unhcr in missioni di primo soccorso spericolate dentro a città assediate dall’Is. Provvedono alle scuole, alle vaccinazioni, alle terapie d’appoggio per i traumatizzati, allo smistamento del cibo e al rifornimento idrico. Grillo dovrebbe venire a scusarsi per aver malignato sul loro stipendio". Reportage di Gad Lerner sulla drammatica realtà dei rifugiati nel Kurdistan iracheno, 1.800.000 persone costrette a sopravvivere lontano dalle loro case (La Repubblica, 5 novembre 2014)
L'aereo da Amman devia la sua rotta per non sorvolare le roccaforti del Califfato che ha umiliato il mondo civile prendendosi Mosul e facendone uno dei centri di un regime fondato sul terrore e sull’esaltazione della morte. È l’Unhcr, ovvero l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che ci ha chiamati a condividere qui a Erbil, nel Kurdistan iracheno, un’esperienza che non potrà lasciarci indifferenti: cosa significa davvero offrire rifugio a intere popolazioni in fuga da una guerra di sterminio; mentre a pochi chilometri di distanza infuriano i combattimenti grazie a cui i peshmerga curdi stanno bloccando l’avanzata delle brigate internazionali del jihadismo sunnita.
Insieme alla portavoce italiana dell’Unhcr, Carlotta Sami, atterriamo a oriente di Mosul di soli cinquanta chilometri, rassicurati dal ritrovarci nell’unica regione irachena in cui vige tuttora il rispetto dei diritti umani. L’estate scorsa, in meno di tre settimane, il Kurdistan iracheno si è visto arrivare in casa più di 800mila disperati da dissetare (siamo in mezzo al deserto), sfamare, risanare. Faceva un caldo terribile, così come ora fa freddo. Ai profughi iracheni – un mosaico di etnie, lingue e confessioni religiose diverse – si aggiungono 220mila transfughi siriani. Gli ultimi sono quelli scappati da Kobane, passando dalla Turchia.
Ci sono città, come la settentrionale Dohuk, che ormai contano tre o quattro profughi per ogni residente. Li hanno dovuti ammassare nelle scuole, nei centri commerciali, sotto i ponti, nei giardini pubblici. Dappertutto. E poi naturalmente ci sono gli attendamenti dei campi profughi: non bastano mai. Per evitare che si trasformino in megalopoli ingovernabili di polvere e fango, progettano di allestire altri sedici campi profughi oltre a quelli già saturi. Lo scopo è di evitare situazioni caotiche e pericolose come il campo giordano di Zaatari, a ridosso del confine con la Siria, giunto a contare 140mila persone.
Nella catastrofe umanitaria, non si segnalano episodi rilevanti di ostilità da parte degli abitanti del Kurdistan. Di fronte a una vera invasione, a un esodo vero, nessuno qui indossa la ben nota maglietta “Stop invasione” esibita da Matteo Salvini per opporsi al passaggio sul suolo italiano di alcune decine di migliaia di fuggiaschi, per lo più intenzionati a raggiungere il Nord Europa.
«Te la senti di guardare delle immagini molto forti?», mi chiede un alto funzionario delle Nazioni Unite, prima di infilare una chiavetta Usb nel suo computer. È una precauzione che non adoperano, neanche di fronte ai loro numerosi bambini, i profughi delle tende che, prima di scappare, hanno dovuto respirare l’odore dei cadaveri abbandonati in mezzo alle strade di casa. Sui loro smartphone mostrano fotografie atroci di teste mozzate. Temo gliele facciano pervenire gli stessi assassini dell’Is, come strumento di guerra psicologica. I tagliagole ostentano la loro volontà di sterminio al fine di terrorizzare e ottenere sottomissione. Dai telefonini di alcuni miliziani uccisi, poi, gli operatori Onu hanno recuperato altre testimonianze di questa diffusa pornografia della morte: selfie scattati col prigioniero prima e dopo avergli sparato in testa; addirittura un mucchio di bambini fucilati. Li ho dovuti vedere con i miei occhi. Foto a colori, è l’unica differenza rispetto a quelle dei soldati nazisti in un’Europa 1941 che speravamo irripetibile.
Le due mani che si uniscono a formare un tetto sopra una famiglia di rifugiati – cioè il marchio dell’Unhcr – sono riprodotte su ognuna delle tende allineate a migliaia, spesso in mezzo al deserto, con barriere metalliche e di filo spinato a filtrarne l’accesso. Stanno diventando un logo abituale della contemporaneità come i simboli della Nike e della Coca-Cola.
Per rendere più sopportabili le piogge invernali a Gawilan, dove vengono concentrati i profughi di Kobane, si è deciso di gettare basi di cemento e, a fianco della tenda, latrine in muratura che sostituiscano le file di gabinetti chimici imbarazzanti e puzzolenti. Quel cemento aiuta la sopravvivenza, certo, ma è anche indizio di cronicità: stanno nascendo pseudo- città mostruose con cui il pianeta intero dovrà fare i conti, non solo il Kurdistan che le ospita.
Dovrei ora riferire i racconti di atrocità subite, di fughe notturne, di figli dispersi, che attraverso traduzioni improvvisate abbiamo raccolto dentro le tende, dopo esserci tolti le scarpe, seduti sui materassini pieghevoli da campeggio che ne costituiscono l’unico arredo possibile. Tra gli yazidi, in particolare, considerati dai tagliagole una popolazione indegna perfino di essere convertita o sottomessa, aleggia la vergogna delle adolescenti imprigionate nei bordelli per miliziani sorti nella zona di Sinjar. Con analogo tremore si accenna ai bambini sequestrati per l’indottrinamento in apposite madrasse a Mosul.
Mi è rimasta impressa, fra i tanti, Layla, nata dieci giorni prima nel campo di Hersham, che ha per culla una specie di cassetta. Il padre, Mohamed Abid Sali, fuggito dai sobborghi di Mosul, mi mostra i segni del proiettile che lo ha trapassato e la fotografia della madre, anch’essa Layla, uccisa con tre fratelli da un’autobomba. In queste tende semivuote si trova spesso una televisione: insieme ai telefonini riempie il tempo di una reclusione permanente senza futuro immaginabile. Attendono permessi di lavoro, sognano di raggiungere familiari emigrati lontano prima della catastrofe.
Mi trovavo qui, tra i profughi stipati nel buio dell’enorme centro commerciale Ankawa con le scale mobili arrugginite, piuttosto che nel limitrofo giardino pubblico trasformato in tendopoli, quandoBeppe Grillo sproloquiava sul suo blog di “Affarenostrum”, insinuando chissà quali prebende lucrerebbero le organizzazioni non governative cui le Nazioni Unite subappaltano la gestione dei ricoveri.
Da Amman a Erbil avevo volato di fianco a Gaia Van Der Esch, 27 anni, coordinatrice regionale di Acted, l’ong in cui lavorava uno degli ostaggi decapitati dall’Is, l’inglese David Haines. Gira come una trottola per la regione. A capo del campo di Hersham c’è un’olandesina di 23 anni, Yasmine Colijn, una potenza generosa. Con loro tanti italiani di “Un ponte per”, “Terres des hommes” e altre organizzazioni. Professionisti che vivono nel rischio e nelle privazioni da anni, che l’estate scorsa hanno accompagnato Unicef e Unhcr in missioni di primo soccorso spericolate dentro a città assediate dall’Is. Provvedono alle scuole, alle vaccinazioni, alle terapie d’appoggio per i traumatizzati, allo smistamento del cibo e al rifornimento idrico. Grillo dovrebbe venire a scusarsi per aver malignato sul loro stipendio.
Certo è che stiamo parlando di un’impresa umanitaria costata finora più di 100 milioni di dollari, del tutto insufficienti a coprire il fabbisogno e a impedire che l’inverno si trasformi in una ulteriore tragedia. Gli stanziamenti governativi (Arabia Saudita in testa, seguita a molta distanza da Giappone e Usa) non potranno bastare mai. Unhcr copre già quasi il 20% delle sue spese con le donazioni dei privati e sarà imprescindibile aumentare questa percentuale. Per questo è stata lanciata una campagna di sottoscrizione anche in Italia.
Il governo regionale del Kurdistan è sottoposto a uno sforzo titanico per evitare la paralisi del suo territorio, trasformato in gigantesco rifugio e sottoposto agli attacchi dell’Is. Dal giugno scorso sta gestendo un silenzioso smistamento che deve tenere conto anche degli ostacoli linguistici (molti fuggiaschi parlano arabo, non curdo) e religiosi: gli sciiti vengono dirottati verso la città di Sulaymaniyah per destinarli poi all’Iraq meridionale; i cristiani cercano di raggiungere la Giordania e quando possibile l’Europa; i sunniti vengono separati dagli yazidi e dalle altre minoranze ormai a rischio di estinzione. Poi ci sono i turcomanni…
Oggi il nazionalismo curdo si erge in Iraq a garante di un equilibrio fragilissimo, supportato in ciò dagli interessi petroliferi e commerciali che hanno reso solido il rapporto con la confinante Turchia. Mentre a Est, silenziosamente, operano talvolta di supporto reparti di pasdaran iraniani. Ma le tendopoli della Mesopotamia insanguinata rappresentano un problema del mondo intero, indicano un fallimento della nostra civiltà. Questa desertica, inospitale retrovia di una guerra che dilaga ben oltre i confini della Siria e dell’Iraq, ha il volto dei bambini. Nel 2014 sono complessivamente 1 milione e 800mila le persone costrette in tutto l’Iraq a sopravvivere lontano dalle loro case. Più di metà sono minorenni. Non è forse un problema delle Nazioni Unite? Non è forse un problema nostro?
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