Lavoro globale difesa globale
L'emergenza lavoro non può essere affrontata efficamente limitandosi a intervenire in sede nazionale sulle forme contrattuali: serve pensare e agire a livello globale, perchè questa è oggi la dimensione con cui le dinamiche socio economiche devono necessariamente fare i conti. Una via molto impegnativa e difficile da percorrere, ma per Leonardo Becchetti (Avvenire, 17 luglio 2018) l'unica che può risultare davvero risolutiva.
Le polemiche e il dibattito sulle misure sul lavoro contenute nel Decreto Dignità (causali e modifiche della durata massima dei contratti a termine, con il 'giallo' della previsione degli 8mila posti di lavoro a rischio) dimostrano ancora una volta che una delle vie principali attraverso le quali i governi cercano di risolvere il problema è quella delle modifiche delle forme contrattuali. Al di là delle polemiche infuocate di questi giorni dobbiamo riflettere sul fatto che molto spesso le politiche adottate con le migliori intenzioni non tengono conto fino in fondo che siamo parte di un sistema globalmente integrato.
E che dunque ogni stretta sulle forme contrattuali rischia di produrre un aumento del costo del lavoro che riduce ulteriormente la competitività delle imprese che lavorano nel nostro Paese rispetto ai concorrenti di Paesi poveri o emergenti che hanno costi del lavoro molto più bassi. Con l’effetto paradossale di mettere a rischio posti di lavoro o alimentare il lavoro nero. In un sistema globalmente integrato difendere il lavoro 'in un solo Paese' è impossibile se non si adottano misure che difendono il lavoro ovunque. E ridurre la flessibilità da noi, aumentando diritti e tutele finisce per essere controproducente se non si interviene sull’iperflessibilità dei nostri concorrenti internazionali.
È assolutamente vero che una via d’uscita maestra è quella degli investimenti, dell’innovazione, della crescita delle competenze, della qualità e della tecnologia e dell’ammodernamento del Sistema Paese. È pur vero però che la politica è chiamata a dare una risposta oggi all’Italia che non ce la fa, a quei due terzi del Paese che secondo una recente indagine della Fondazione Hume si sentono mancare il terreno sotto i piedi (perché disoccupati, precari o piccoli artigiani, commercianti e imprenditori che faticano a restare a galla) e non godono della maggiore sicurezza, stabilità e tutele dei dipendenti pubblici o delle grandi imprese private (http://www.fondazionehume.i t/dossier-hume/la-terzasocieta/).
Due terzi che trasformano poi quel disagio in rancore e protesta e danno luogo ai terremoti politici che stiamo vivendo oggi. La risposta disordinata e scomposta al problema è quella trumpista ma è sbagliata. Iniziare una guerra contro altri Paesi con i dazi finisce per generare una serie di azioni e reazioni alla fine delle quali stiamo tutti peggio. La risposta dell’Unione Europea messa a punto nel dicembre scorso è leggermente più evoluta. Si tratta del dazio antidumping che scatta se un Paese terzo ha un prezzo del prodotto palesemente inferiore a quello di un Paese vicino con economia simile.
Una risposta più articolata e incisiva, complessa ma possibile, che può mettere d’accordo globalisti e sovranisti c’è. I dati internazionali sulla parità di potere d’acquisto tra Paesi e le metodologie per il calcolo di salari decenti in ogni Paese (quelli che consentono di consumare un paniere di beni essenziali che porta al di sopra della soglia di povertà locale) esistono. È pertanto possibile calcolare il livello di salari decenti Paese per Paese. A questo punto l’Unione Europea potrebbe decidere che prodotti di filiere nelle quali il lavoro è al di sotto del salario decente devono pagare una tassa sui consumi particolarmente elevata (Social consumption tax). Non si tratterebbe di un dazio in questo caso (e, dunque, non si tratterebbe di una mossa ostile verso un Paese terzo come le prime due che abbiamo descritto) perché la regola, costringendo a vigilanza effettiva ed efficace, si applicherebbe anche ai prodotti nazionali o comunitari che finissero sotto la soglia.
Come è noto il problema dello sfruttamento del lavoro – con e senza quello che chiamiamo 'caporalato' – esiste ovunque, e i Nord e i Sud del mondo sono anche tra noi. La corsa al ribasso sul costo del lavoro che alimenta precarietà e sottoccupazione è una malattia profonda del sistema economico che spinge in quella direzione grazie alle due forze principali del massimo profitto e del benessere del consumatore con la concorrenza. In un sistema chiuso il potere contrattuale dei sindacati era sufficiente a controbilanciarla, assicurando una ripartizione meno squilibrata dei benefici della crescita. Oggi non è più così perché un sindacato globale che protegge una forza lavoro mondiale con interessi comuni è di là da venire. Se la nostra politica vuole veramente affrontare alla radice il problema non può, dunque, che iniziare essa stessa, per quanto arduo possa essere, a ragionare e agire seriamente in sede internazionale per 'difendere il lavoro ovunque'. E deve farlo senza illudersi e illudere sull’esistenza di 'barriere di salvataggio'. Non ne esistono in grado di reggere. Solo un approccio globale secondo giustizia può difendere il lavoro anche in Italia.
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