La lezione di Guernica vive ancora oggi
"Guernica non è il passato: è il presente. È una guerra che ci parla, ci spiega, ci offre terribili insegnamenti". Domenico Quirico ci propone, su La Stampa del 23 aprile 2017, l'intervista con l'ultimo sopravissuto di Guernica, la città bombardata dagli aerei tedeschi e italiani il 26 aprile del 1937, alla quale Pablo Picasso dedicò uno dei suoi più celebri dipinti ("un cimitero di civili, un grido straziante che Picasso fissò sulla tela").
Sì. Uomini come Luis Iriondo mi lasciano sempre senza fiato. Aveva quattordici anni il 26 aprile del 1937 quando i bombardieri tedeschi e italiani scesero su Guernica per stuprarla a colpi di bombe, per innaffiare le strade di fuoco, di esplosivo e di ferro: un cimitero di civili, un grido straziante che Picasso fissò sulla tela. Lo incontro vicino alla chiesa di Santa Maria. Si è salvata dalla distruzione, i «moros» di Franco la usarono come accampamento dopo la «reconquista», poi le donne di Guernica dovettero ripulirla in segno di umiliazione.
Luis è un sopravvissuto, parola terribile del Novecento. Bisogna esser folli per credere, dopo aver vissuto il primo bombardamento terroristico della Storia, credere ancora nel potere dell’uomo sul suo destino. Sperare in una vittoria dello spirito sulle forze del male, credere in dio, credere nell’uomo e in una riconciliazione tra loro. E invece Luis comincia a raccontare e la muraglia sembra meno alta, meno invalicabile. D’un tratto tutto diventa presenza, tutto diventa semplice, vero, possibile. Significa che non siamo soli e vinti, che le forze disperse si riuniscono, sempre, da qualche parte.
«Era una bella giornata come oggi, il cielo chiaro, pregna di umidità e di fermenti. Era lunedì, il giorno del mercato, dicevano l’avrebbero sospeso, la guerra si avvicinava, ma la piazza era piena di contadini e di bestie. Il mercato per noi di Guernica era la festa, al pomeriggio c’era la partita di pelota. Fu per questo che proprio quel giorno mia madre mi autorizzò per la prima volta a indossare i pantaloni lunghi: dai, ero un uomo adesso, non ero più un bambino, solo per la festa, ammonì mia madre. Non andavo più a scuola, c’era la guerra, il mio istituto l’avevano ultimato nel ‘33 ed era già chiuso, diventato caserma! Mia madre non voleva che ciondolassi senza far nulla e aveva chiesto al direttore della banca di impiegarmi come apprendista, portare le lettere, piccole commissioni, non maneggiavo certo i soldi. Ero al lavoro quel pomeriggio, io e un rifugiato di Lekeitio, un paese già occupato dai franchisti. Il bombardamento venne alle 16 e 20. Fu allora che le campane di Santa Maria cominciarono a suonare. No, non era per la messa, era l’allarme per gli aeroplani che si stavano avvicinando. Prima si usavano le sirene della fabbrica d’armi che era in città.
Poi si erano accorti che creava confusione, molti pensavano che segnalasse la fine del turno e restavano a casa, sulla montagna che sta proprio sopra Guernica, il Kosnoaga, alcuni soldati dalla vista lunga quando scorgevano gli aerei nemici, c’erano solo aerei nemici ormai in cielo, salire da Burgos o da Vitoria facevano segnali agitando bandiere e allora giù, le campane suonavano suonavano, ma c’erano stati molti allarmi, il fronte era a venti chilometri, ma non era mai successo nulla. Per questo non volevo correre nei rifugi ma il profugo di Lekeitio insistette: non sfidiamo la fortuna, mi costrinse, io sono vivo per questo lui invece è morto nel bombardamento».
La Maginot disfatta
Sono salito a Guernica in un paese ariostesco di rocce a picco e mare spumoso, frondami umidi e torrenti sonori, annegato nella luce ardente della primavera. Ascolto la lingua basca residuato, forse, dei primi idiomi del mondo. Da quassù scopro Bilbao, la profonda «ria» fino all’oceano. Bilbao era il «cinturon de hierro», la cintura di ferro, una sorta di Maginot costruita con l’aiuto di tecnici russi e francesi. Per il governo di Valenza era impenetrabile. Come tutte le Maginot si disfece in un istante. Seguo la strada da cui avanzarono le frecce nere della Agregation legionaria italiana, i requetés con le boine, i berretti a cencio, rosso sangue, e i terribili tabores marocchini del generale Mola.
Non sono venuto qui per una guerra antica, di ieri: Guernica è stato un orrore sperimentale, i suoi trecento morti sono state vittime esemplari. Già. Quante Guernica abbiamo vissuto dopo? Coventry, Dresda, Hiroshima e poi le città violentate del nostro tempo senza guerre, Aleppo, Grozny… città che sembran aver perduto la loro ombra. In questi ottanta anni quante volte abbiamo pensato che fosse l’ultima volta? Funziona sempre così: c’è l’impressione di un malinteso che confonde tutte le cose, (fino agli anni settanta la versione ufficiale nella Spagna franchista era che Guernica fosse stata incendiata dai rojos prima di fuggire…) si mescolano inestricabilmente bene e male, i colpevoli e gli innocenti, entusiasmo e crudeltà. Ho visto bene? ho ben capito? e poi vi dicono che tutto è finito che non si ripeterà… in fondo il mondo migliora si respira. Si respira fino al prossimo massacro che giunge di colpo, il tempo passa, passa.
«Ah i rifugi! l’avevano costruiti con sacchi di sabbia e qualche trave di ferro, alla buona, ma che sapevamo dei bombardamenti aerei a quel tempo? Il rifugio più vicino alla banca era nella piazza del mercato, già si sentivano le prime esplosioni, erano gli aerei italiani che cercavano invano di colpire il ponte all’ingresso della città, ma noi non sapevano nulla di questo. L’ingresso del rifugio era sotto una terrazza che chiamavano “el sacafaltas”: quando si ballava nella piazza le ragazze si radunavano lì per vedere lo spettacolo e scegliere l’innamorato, era la vita prima, prima della guerra, eravamo un centinaio in quel rifugio non c’era ventilazione né luce, eran rifugi fatti così, alla buona, dopo due minuti già urlavamo perché ci sentivamo morire soffocati, allora qualcuno ordinò di sederci a terra, perché c’è più ossigeno in basso, io ero in fondo al tunnel dove la volta era più bassa e c’era meno aria. Ma il pavimento era umido e sporco e la paura di rovinarmi quei magnifici pantaloni e dei rimproveri di mia madre era più forte del senso di soffocamento, rimasi in piedi, le esplosioni cessarono, uscimmo a respirare aria buona a sentirci rivivere, e invece era solo l’inizio».
La voce della morte
So cosa vuol dire essere sotto un bombardamento aereo, ciò che provarono per primi, nel Novecento, gli uomini le donne i bambini di Guernica. oggi gli aerei sono così veloci che quando la bomba cade sono già lontani, senti solo il sibilo, la voce della morte. Gli junker tedeschi della legione Condor e i Savoia Marchetti della Aviazione legionaria, invece, erano lenti. Avanzarono da Nord a Sud usando come traccia il percorso della ferrovia, quasi ala contro ala, ben allineati, squadriglia dopo squadriglia, e sganciarono spezzoni incendiari mescolati a bombe perforanti. Cinquemilacentodiciassette ordigni. Un torrente di fuoco e di polvere.
Ho visto anch’io come Luis, in altri luoghi del mondo, case sollevarsi lentamente e sfasciarsi nell’aria per poi ricadere. E il rumore, il rumore che ti inghiotte, devi scrollare la testa per poter ragionare e vedi gente attorno a te che ha la bocca aperta, sai che sta urlando disperatamente ma non li senti. E fiamme escono da terra, vortici d’aria ti afferrano facendoti ruotare, una via intera in un attimo diventa un mare di fiamme, luci gialle e rosse ricadono dal cielo come un nubifragio. Fu così: Guernica in poco tempo prese fuoco, fatta, com’era, di legno. Ascolto Luis raccontare: sì, si respira fuoco in quei momenti.
Che sappiamo di questo stare sulle soglie della morte e forse un po’ più in là, quando le bombe smantellano una città, di come si cammini nudi sotto lo sguardo di dio? Avvengono in quelle ore (tre ore durò Guernica) confidenze che voi riceverete di rado, per la semplice ragione che le soglie della morte non sono scritte da nessuna parte. E se voi tornate in quel luogo dove avete subito la prova del fuoco, con gente che non era là, vi sembrerà di non ricordare più nulla e di raccontare bugie. Giacché i ricordi di un bombardamento assomigliano ai ricordi di infanzia.
«Quando è arrivata la nuova ondata, siamo di nuovo corsi nel rifugio. Stavolta avevo deciso che sarei rimasto per ultimo, mai più in fondo a quel tunnel, a costo di morire. Mi tirai dietro i sacchi di sabbia per fermare le schegge, adesso era come una unica esplosione, sembrava che entrasse da uno dei bracci della piazza dove è la scuola femminile e la percorresse tutta intera, allargando un lungo suono lugubre che sembrava entrarci dentro e poi c’erano raffiche di aria calda, un calore ripugnante che aveva il gusto di morte avevano raccomandato a noi ragazzi: se c’è un bombardamento stringete un oggetto tra i denti, dicevano che una esplosione più forte avrebbe potuto farci esplodere i visceri. Io mi ero portato dietro un bastoncino di dieci centimetri che stringevo in bocca fino a farmi male».
La preghiera spezzata
«Nel rifugio cominciammo a pregare, la preghiera che ci avevano insegnato al catechismo: Nostro signore Gesù cristo, dieci volte provammo e dieci volte una bomba ci spense la voce. Infine uscimmo dal rifugio: tutta Guernica era un braciere, la gente fuggiva verso la montagna, incontrai salendo un mio compagno di nome Eloy. Ci fermammo a guardare la città bruciare sotto di noi, le nostre case erano vicine, vedemmo le mura della sua crollare in un mare di fumo. Calmo, freddo, gelandomi il cuore Eloy mi disse: mia nonna e mia zia sono là: una è sorda e l’altra paralitica».
Allora Guernica non è il passato: è il presente. È una guerra che ci parla, ci spiega, ci offre terribili insegnamenti. Come assomiglia a quella di Siria, ad esempio! Guerre che avanzano con andamento di epidemia. Bashar come Franco, con potenti, determinati alleati totalitari, allora Germania e Italia, oggi Russia e Iran, contro le democrazie, timide e ipocrite. A Hitler e Mussolini che gli mettevano fretta, chiedevano avanzate risolutive, Franco rispondeva che in una guerra civile occorre una sistematica occupazione dei territori, che bisogna «ripulire», una rapida vittoria ti lascia invece il paese pieno di nemici. Anche Assad lo sa: è ostinatamente paziente, avanza da sei anni con metodo, riprende città e paesi uno ad uno, lascia che i suoi avversari li abbandonino, attende che le loro mischie interne li indeboliscano.
E poi come in Spagna la guerra serve come sanguinoso laboratorio, sulla pelle di un popolo intero, di nuove armi: i tedeschi misero alla prova i loro aerei micidiali, i russi di Putin esibiscono la tecnologia della morte ad alta tecnologia con cui hanno sostituito la ferraglia sovietica. Guerre feroci, entrambe: ottanta anni fa i generali africanisti ribelli, formati nei massacri delle terre del Rif, dove saccheggio tortura e assenza di pietà erano la norma, oggi i fanatici di dio della mischia siriana.
Gli altri curdi
E poi i baschi: i baschi che sono i curdi di oggi nel vicino oriente. Aspiravano, con vigore antico e disperato, alla autonomia. In nome di essa un giovane industriale dolciario, il lehendakari Aguirre, aveva proclamato lo stato separatista. La Repubblica faceva promesse. Chi potevano scegliere? Erano disposti a tutto, anche ad allearsi ai rossi, una incongruenza perché le pietre e le foglie della Biscaglia, dal ponte di Irun alle rocce oceaniche della Galizia, erano ferventemente cristiane e nulla avevano a spartire con i massacratori di preti e gli incendiari di chiese. Come i baschi i curdi resteranno con un pugno di rovine in mano. In questi luoghi, in fondo, quella guerra è finita solo due settimane fa, con la consegna delle ultime armi dell’Eta. Forse conviene attendere che la Spagna si disintegri da sola.
No, Guernica non è il passato. La memoria è rimasto un terreno di scontro politico: da una parte il partito conservatore, la Chiesa con i suoi 498 martiri, l’estrema destra, dall’altra una rivendicazione di memoria che si mescola a una revisione critica della transizione democratica da parte della sinistra radicale, Podemos, i neo comunisti. La guerra civile è lo specchio davanti a cui si rigiocano molti conflitti politici dell’oggi.
La canzone
E poi con Amaya, una giovane signora basca, vado a visitare il museo di Guernica intitolato alla pace. Quando una suggestiva rievocazione interattiva di quel giorno di 80 anni fa sfuma in una straziata canzone di bimba Amaya scoppia a piangere. Il passato con i suoi echi è in agguato dentro di te, primo o poi te lo ritrovi davanti, imperioso. Allora non puoi più scantonare. Sì: Guernica è davvero un macigno sul cuore.
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