La Buona Scuola tra azzardi e scarse risorse
«Logica vorrebbe che, prima di stabilire quanti docenti assumere, si capisse quali ci servono - le competenze di insegnamento davvero utili alle scuole – e dove. La Buona Scuola fa il contrario.» (Andrea Gavosto, La Stampa, 23 novembre 2014)
Quanto è buona la Buona Scuola? Presto dovremmo sapere che cosa pensano famiglie, insegnanti e studenti dell’ambizioso progetto di rinnovamento del sistema d’istruzione presentato dal Governo, alla fine di una consultazione popolare, di certo ampia, ma forse non quanto l’esecutivo si attendeva.
Da parte nostra, resta un giudizio positivo sull'intenzione di riportare la scuola in cima all'agenda pubblica, come leva decisiva per la ripresa del Paese. Ma rimangono anche perplessità sul merito di proposte chiave e la loro realizzabilità. Agli scettici della prima ora, il ministro Giannini ha risposto che per la Buona Scuola ci sarebbero state sufficienti risorse aggiuntive. Dalla legge di stabilità non risulta: i soldi per il momento verranno da tagli all'interno del bilancio del ministero. Per il futuro – e si parla come minimo di tre miliardi all’anno – non si sa. Peraltro, anche se l’iter parlamentare non è concluso, queste risorse potrebbero non andare a tutti i progetti della Buona Scuola (ad es., l’alternanza scuola-lavoro, la formazione dei docenti, la nuova didattica), ma soltanto a uno di questi, quello politicamente più spendibile: l’assunzione in un colpo solo dei 148 mila insegnanti precari «storici» delle graduatorie ad esaurimento (Gae).
E qui entriamo nel merito. Perché siamo tutti d’accordo sull’abolizione di questo perverso marchingegno, ma non a qualunque prezzo. Il modo proposto dalla Buona Scuola sembra un azzardo: il problema è che domanda (fabbisogno di docenti) e offerta (competenze didattico-disciplinari degli iscritti alle Gae) non s’incontrano. Ci sono, infatti, due squilibri che difficilmente potranno compensarsi. In primo luogo, mentre in alcune aree di insegnamento (ad es. matematica nelle medie) non vi sono abbastanza docenti anche attingendo a piene mani dalle Gae, in altre materie vi è invece una sovrabbondanza di offerta: per dire, nell’area musicale, a fronte di un fabbisogno di circa 500 docenti all’anno, gli iscritti alle Gae sono almeno dieci volte tanto. Il secondo squilibrio è territoriale: l’evoluzione della popolazione studentesca farà aumentare le cattedre al Centro-Nord e diminuire quelle al Sud, ma gli iscritti alle Gae sono in maggioranza residenti nelle regioni meridionali. Molti docenti sono disposti a migrare, ma non è detto che al Centro-Nord trovino le cattedre «giuste» per il loro profilo professionale.
Logica vorrebbe che, prima di stabilire quanti docenti assumere, si capisse quali ci servono - le competenze di insegnamento davvero utili alle scuole – e dove. La Buona Scuola fa il contrario. Il rischio, molto concreto, è che lo svuotamento delle graduatorie non arricchisca l’offerta formativa, ma anzi blocchi per anni l’accesso alla scuola di docenti più giovani e preparati. In ogni caso, la promessa di assunzione non può essere disgiunta dal coraggio della selezione: almeno un quarto degli iscritti alle Gae non hanno alcuna «continuità» di insegnamento, solo sporadiche supplenze brevi o talvolta neppure quelle. Come condizione dell’assunzione, serve una verifica a carattere nazionale almeno delle competenze didattiche.
L’altro grande dubbio sulla Buona Scuola riguarda la valutazione. La proposta è abolire gli scatti di anzianità (principio in sé condivisibile), premiando invece ogni tre anni i due terzi dei docenti di ogni scuola identificati come «migliori», con notevole oscurità su come e chi lo decide. In compenso, la carriera resterebbe piatta com’è ora, mentre per attrarre i giovani migliori nella scuola bisognerebbe offrire loro una prospettiva di sviluppo professionale. Inoltre, il modello non solo postula dentro ogni scuola una competizione fra docenti nociva per quel lavoro «di squadra» che sempre è l’insegnamento, ma incoraggia gli esclusi dal premio, non a migliorarsi, ma a trasferirsi in scuole dove ci sono colleghi «peggiori». Come rendere coerente questo assurdo meccanismo con quel circolo virtuoso di «valutazione delle scuole/miglioramento del lavoro collegiale dei docenti/qualità dei risultati degli studenti» che da più di 10 anni – con fatica e troppa lentezza si sta cercando di mettere in piedi in Italia? Durante la consultazione pubblica, nessuno, a partire dal ministro, è stato capace di spiegarlo.
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