In nome del pubblico
Il "Buongiorno" di Mattia Feltri su La Stampa del 6 marzo 2019 prende spunto da quanto accaduto in un noto reality show per tracciare un quadro, a dir poco desolante, di una degenerazione del gusto e del buon gusto che diventa spia di una vera e propria decadenza di civiltà. Pronti ad accettare, legittimare e giustificare tutto "in nome del pubblico, per il piacere del pubblico, perché lo vuole il pubblico, che poi è soltanto un altro modo di appellarsi al popolo, in nome del popolo, perché lo vuole il popolo".
Lo spirito del tempo non va cercato nelle domande accondiscendenti di Fabio Fazio, o nell'ebbrezza da ora d'aria sovranista della Rai, o nell'amletismo di Mediaset, che ripudia la conduzione populistica dei talk, e poi ripudia il ripudio: lo spirito del tempo fiammeggia altrove, per esempio all'Isola dei famosi, là dove Riccardo Fogli, cantante di qualche portata, esibisce le caducità di settantenne a torso nudo e sandali di gomma. Dorian Gray aveva venduto l'anima al diavolo per l'eterna giovinezza e l'eterna bellezza, ribellione estrema al disastro mozzafiato di ogni essere mortale. Qui ci si vende per intero, pacchetto completo, al diavolo del circo: è tutto messo in conto, in cambio di un altro morso di celebrità ci si lascia pedinare dalle telecamere fin dietro i cespugli, e qualche anno fa un concorrente dalla fama declinante, come è la fama di ogni concorrente dell'Isola, per gettare la spugna dovette particolareggiare i sopraggiunti guai alle strutture vascolari del canale anale – ovvero l'epicentro della filosofia contemporanea.
Fin qui saremmo semplicemente al trash, o allo stanco dibattito sulla contraddizione fra la petulante richiesta di privacy della società moderna intanto che è impegnata a squadernare al mondo, via social, l'andamento degli amori, delle malattie e del punto di cottura della torta: io sono in quanto condivido. Vabbè.
Ma l'altra sera, all'Isola dei famosi, si è compiuto un passo ulteriore scandito dalla fissità del primo piano su Riccardo Fogli, al quale si comunicava che la moglie si intrattiene con un altro uomo. La notizia, diciamo così, era stata diffusa da Fabrizio Corona e inoltrata via studio in una precedente puntata al marito becco, senza rivelargli la fonte: lo spettacolo ha bisogno di suspense. E l'altra sera la conduttrice Alessia Marcuzzi, straziata di tormento, ha convocato Fogli per mostrargli la registrazione di un'elevata disputa da Barbara D'Urso a Domenica Live, dove si indagava l'infedeltà attraverso foto e altre prove documentali. Il clou doveva arrivare.
Nuova clip, ora con Corona, determinato a rivelarsi: caro Riccardo, sono io che ho messo in giro la voce perché ne ho gli elementi, sono qua dentro (sventola una cartellina o un computer, boh), e dimostrano che tua moglie ti tradisce da quattro anni; vedi, Riccardo, tu sei vecchio, tua moglie è giovane, e quando un vecchio sposa una giovane deve mettere in conto che lei insegua la gioventù fra più robuste braccia. Questo il messaggio, in una sintesi nobilitata.
Non è mica finita. Fogli rimane lì come uno spaventapasseri. E in studio si vibra di indignazione. Alda D'Eusanio suppone che a Corona il carcere non sia bastato e gliene augura ancora un po' (lei, che conobbe la gogna perché in una intercettazione sospirava all'idea di un bacino lì a Bettino Craxi). Alba Parietti rinverdisce la propria tradizione e spiega a Corona la vita attraverso le virtù terapeutiche del dolore, che evidentemente lui non ha assunto in dosi sufficienti (nel frattempo la cura continua a essere somministrata a Fogli).
Marcuzzi assiste afflitta come un eterno riposo. Un ipnotico terzetto di fabriziecorona, ma più parassitarie, perché di Corona non hanno nemmeno lo spavaldo e spaventoso coraggio di sé: si buttano a mani basse sul bottino intanto che biasimano il ladro. Fogli tracolla in singhiozzi e buonanotte ai telespettatori.
Eccolo qui lo spirito del tempo (e bastava cambiare canale per apprezzarlo ulteriormente, con le eroiche Iene a Parigi a chiedere il pizzo – ma per scherzo, eh – nel ristorante della figlia di Totò Riina). Viene in mente l'esperimento (vanno di moda) di un reality francese in cui il pubblico doveva punire con crescenti scariche elettriche il partecipante impreparato alle domande di cultura generale, fino alla scarica definitiva, con probabilità di morte, e che pure fu inferta.
Era tutto finto, tranne il pubblico, perché si voleva vedere fin dove può arrivare. E lo si è visto. E basterebbe. Ma fra uccidere il concorrente e umiliarlo, subito dopo la pubblicità, dichiarandolo vecchio e cornuto fino alle lacrime per l'insaziabile godimento da casa, la strada è ancora lunga e molte tappe andranno compiute, in nome del pubblico, per il piacere del pubblico, perché lo vuole il pubblico, che poi è soltanto un altro modo di appellarsi al popolo, in nome del popolo, perché lo vuole il popolo.
Poi, naturalmente, liberi tutti. Liberi di sfruttare, di essere sfruttati, di assistere allo sfruttamento, come si dice siamo tutti adulti e vaccinati, ognuno libero di spassarsela, di darsi un ruolo, uno stipendio o il senso di una leadership come crede; noi qui ricordiamo il finale di una vecchia canzone di Giorgio Gaber – «la lontananza è l'unica vendetta / è l'unico perdono» – sebbene non ci sia niente di cui vendicarsi e niente da perdonare, ma la lontananza, quella sì, è l'unico rimedio allo spirito del tempo.
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