Gli impoveriti e gli spensierati
"Ciascuno di noi, sia pure con gradazioni differenti, sperimenterà un Natale più solitario del solito, più intimo e magari meno chiassoso. Proprio per questo può essere più fraterno, più generosamente condiviso attraverso gesti concreti di solidarietà oltre che nella ritrovata consapevolezza di un destino universale" (Alessandro Zaccuri su "Avvenire" del 16 dicembre 2020).
Non per tutti sarà un Natale povero, ma di sicuro per molti sarà un Natale più povero. Non tanto per chi già prima della pandemia viveva in condizioni di indigenza, forse, quanto piuttosto per chi stava al margine, in una condizione di equilibrio precario che le serrate per pandemia degli ultimi mesi hanno drammaticamente compromesso. Specie nelle grandi città la sopravvivenza economica è spesso questione di spinte contrapposte. Un po’ come stare su una giostra, che deve girare a velocità sostenuta e costante, altrimenti qualcuno finisce per cadere o, peggio, per essere espulso dal marchingegno.
Il caso di Milano, bruscamente declassata nelle classifiche che registrano la qualità della vita, è sintomatico di una situazione più vasta. Sono contraddizioni rimaste a lungo latenti, come tanti altri fenomeni portati alla luce da questo 2020 di emergenza permanente. Adesso è costretto a rendersene conto anche chi si trova in condizioni di relativo benessere o addirittura di conclamato privilegio.
Adesso il problema non è più la povertà, ma l’impoverimento. Di questo parlano le immagini di cui si discute negli ultimi giorni, le istantanee speculari e contrapposte degli assembramenti per le compere natalizie e delle code davanti alla mense per i bisognosi. Incontrollabili, almeno in apparenza, i primi, che del resto fanno seguito ai provvedimenti di riapertura delle attività commerciali e di ripresa della libera circolazione decisi dal Governo. Ma a preoccupare ancora di più sono quelle persone che si mettono in fila prima dell’alba, incalzate dalla fame e non di rado dalla disperazione (e meno male che adesso cominciano a vederle tutti, anche chi sinora ha girato la testa dall’altra parte).
Troppo facile prendersela con le smanie per regali e cenoni, troppo semplice tirarsi fuori con qualche capriola da benpensante. Una così lunga esposizione all’imprevisto dovrebbe averci ormai insegnato che occorre salvaguardarsi non solo dal contagio da Covid-19, ma anche e specialmente da quella mentalità del contagio che – come osserva il direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii – minaccia di inquinare i rapporti interpersonali. Alla lunga, è la struttura stessa del Paese che potrebbe cedere sotto l’urto del risentimento sociale generato da quella diseguaglianza che fino a non molto tempo fa sembrava una questione remota, da dibattito sulle storture della geopolitica, e che ora invece si manifesta in tutta la sua brutalità anche vicino, vicinissimo a noi.
Questo è la realtà resa più evidente dalla «pandemia sociale» (che su queste pagine abbiamo cominciato a indagare e raccontare sotto il sole d’estate). Questo è stato, fin dal principio, uno dei temi portanti del pontificato di Francesco.
E il Papa lo affronta in ogni suo aspetto nella Fratelli tutti, la sua ultima enciclica coraggiosamente pubblicata nel pieno della tempesta globale, richiamando con convinzione e fermezza al bene primario della fraternità e dell’amicizia sociale. Si tratta di una chiave indispensabile per affrontare le incertezze e, non nascondiamocelo, le malinconie di un Natale ormai imminente e mai così misterioso. La fraternità come punto di contatto tra i credenti, che nel Bambino di Betlemme riconoscono la comune condizione umana di figliolanza da Dio, e i non credenti, che non possono rinunciare a interrogarsi sulle ferite provocate dal coronavirus e, prima ancora, sulla fragilità che la malattia ha smascherato.
Ciascuno di noi, sia pure con gradazioni differenti, sperimenterà un Natale più solitario del solito, più intimo e magari meno chiassoso. Proprio per questo può essere più fraterno, più generosamente condiviso attraverso gesti concreti di solidarietà oltre che nella ritrovata consapevolezza di un destino universale. La folla che si accalca davanti alle vetrine è il segno che la giostra sta cercando di rimettersi in movimento. Dovesse fermarsi un’altra volta, le richieste di aiuti per le necessità essenziali (mangiare, dormire, avere cura della propria persona) crescerebbero ulteriormente, con conseguenze che al momento risultano imperscrutabili. Pensare un Natale di fraternità significa in primo luogo sforzarsi di pensare un’alternativa sul piano economico e sociale, in una prospettiva di inclusione allargata e di cittadinanza responsabile. Non sarà per domani, d’accordo, e neppure per il prossimo anno. Ma è oggi, in questo Natale a distanza di sicurezza, che dobbiamo ostinarci a desiderare gli abbracci e a fare, piccola o grande, la nostra giusta parte.
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