«Ek», l’allenatore orfano che li ha curati come figli
Eroe o scriteriato incosciente? È il dilemma che si pone considerando la figura di Ekapol Chantawong, il venticinquenne allenatore dei dodici ragazzini rimasti intrappolati per diciassette giorni nella grotta thailandese, un incubo che tutto il mondo ha vissuto con angoscia prima dell'insperato felice epilogo. Sul Corriere della Sera dell'11 luglio 2018 un bell'articolo di Francesco Battistini.
«Vai Adul, tocca a te». Appena l’ultimo dei suoi bambini è uscito ed Ek è rimasto solo nella grotta, ultimissimo della fila a immergersi, per un’ora il Mister è tornato il bambino solissimo che è sempre stato. Come quando aveva dodici anni e perse d’un colpo il papà, la mamma e il fratellino. Dopo diciotto giorni di nero, per un’ora Ek non è stato più il viceallenatore coraggioso che ha tenuto la squadra dei Wild Boars nel più difficile dei ritiri, li ha nutriti togliendosi il cibo, li ha motivati trasmettendo la calma: a 25 anni, Ek è ridiventato un orfano di tutto. Di nuovo. Senza luce, senza squadra, e chissà con che vita ad aspettarlo fuori.
«Vai Adul, tocca a te». Ekapol «Ek» Chantawong s’è tenuto stretto al penultimo dei salvati, Adul, che ha solo undici anni di meno, gioca da ala ed è il cinghialotto a cui il viceallenatore s’è tanto affezionato nella grotta. «Questi ragazzi sono il mio fratellino moltiplicato per dodici», ha sempre detto Ek, ma ora Adul lo è di più: un orfano birmano, come lui. Che fu mollato da piccolo ai preti di Chiang Rai, come a Ek capitò di finire dalla nonna, crescendo a pane & pallone. Adul è uno dei 100 mila profughi che in Thailandia non hanno diritto a nulla — una carta d’identità, un passaporto, un lavoro, uscire dalla provincia, comprarsi una casa, sposarsi, votare… — ed è uno di quei bambini del Triangolo dell’oppio che per essere qualcosa hanno solo il calcio. E per essere figli hanno solo l’allenatore, o nemmeno quello: il vice.
Il penultimo e l’ultimo si sono abbracciati, prima d’uscire dalla grotta. Ed Ekapol ha aspettato in silenzio che venissero a prenderlo, smagrito dal digiuno e schiacciato dai sensi di colpa. «Pazzo irresponsabile che ha portato dei bambini lì dentro!». «Eroe che li ha salvati con le sue parole!». Dentro Tham Luang, l’allenatore non ha sentito tutto quel che s’è detto fuori. I dubbi delle autorità: va processato? Il dibattito dei genitori: va perdonato? Non ha aspettato di parlare e quando i ragazzi hanno mandato su le loro letterine di saluto, Ek ne ha scritta una di scuse a mamme e papà: scusatemi d’avere fatto comprare ai bambini 28 dollari di merendine, d’aver fatto lasciare le ciabatte e ignorato il divieto all’ingresso della grotta, d’essere sceso a fare squadra incidendo nella roccia i nostri nomi…
(Quasi) tutto è perdonato. «Se non ci fossi stato tu — gli ha risposto la madre di Tee — come sarebbe sopravvissuto mio figlio?». Ai suoi calciatorini, in 288 ore Ek ha insegnato la melina della meditazione imparata da bambino a Lamphun, nei monasteri Theravada del profondo Sud: contemplate il vostro respiro, guardate la vostra mente, digerite il vostro stomaco, ignorate la vostra fame… È servito: addio ansia, i soccorritori inglesi sono rimasti stupefatti a trovare dopo undici giorni ragazzi così tranquilli, gentili, sorridenti perfino. Ek è il più grave di tutti, in ospedale. Fuori, l’aspettano poche cose. Una vita da vice. Il maiale piccante della nonna. E l’amicizia d’un bambino diventato adulto al buio, come lui.
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