Ecco la mia famiglia di profughi. Caro presidente, lei disonora le radici stesse dell'America
"Prendiamo decisioni sbagliate quando vediamo con paura gli immigrati che trasformiamo in altro da noi. È per questo che gli americani hanno bruciato vivi cattolici irlandesi, hanno vietato per decenni l’immigrazione dalla Cina, hanno negato i visti alla famiglia di Anna Frank e internato i nippoamericani. E sì, in certi casi il New York Times ha partecipato a follie del genere. Ma non vi parteciperemo adesso." (Nicholas Kristof, La Repubblica del 30 gennaio 2017)
Il quotidiano su cui scrivo, sia detto a sua vergogna, ha periodicamente ceduto a quel genere di allarmismo xenofobo che il presidente Trump sta ora cercando di trasformare nella linea ufficiale dell’America. Nel 1875, il New York Times ammoniva severamente che troppi immigrati irlandesi e tedeschi (come i Trump) avrebbero potuto «privare gli americani di nascita e ascendenza della piccola quota che ancora conservano» a New York. Nel 1941 lanciava l’allarme, con un articolo in prima pagina, sulla possibilità che gli ebrei europei che cercavano disperatamente di ottenere visti per gli Stati Uniti fossero spie naziste. Nel 1942, mentre i nippoamericani venivano internati, il New York Times lasciava intendere con leggerezza che i detenuti stavano affrontando con animo lieto «un’avventura».
Prendiamo decisioni sbagliate quando vediamo con paura gli immigrati che trasformiamo in altro da noi. È per questo che gli americani hanno bruciato vivi cattolici irlandesi, hanno vietato per decenni l’immigrazione dalla Cina, hanno negato i visti alla famiglia di Anna Frank e internato i nippoamericani. E sì, in certi casi il New York Times ha partecipato a follie del genere.
Ma non vi parteciperemo adesso. Venerdì Trump ha firmato un decreto che sospende i programmi di accoglienza profughi e prende di mira i musulmani provenienti da determinati Paesi. È ipocrita che sia proprio Trump l’incarnazione odierna dell’ostilità agli immigrati, perché la sua stessa famiglia subì i contraccolpi dell’ostilità antigermanica, fingendo di essere di origine svedese. Ma la mia indignazione nasce anche da una ragione personale, e ci arriverò tra poco.
Kirk W. Johnson, ex funzionario americano in Iraq, teme che il decreto presidenziale bloccherà l’ingresso degli interpreti militari che hanno versato il sangue per l’America e a cui abbiamo promesso il visto. Mi ha raccontato di un interprete, soprannominato Homeboy, che aveva corso tra le pallottole per salvare un soldato americano ferito, finendo colpito a sua volta. Homeboy era sopravvissuto, ma aveva perso la gamba. Dopo anni aveva ottenuto un visto. Davvero Trump vuole tradire persone come lui, che hanno rischiato la vita per l’America?
Ma se la paura e la scarsa memoria ci hanno spinti periodicamente a prendercela con i rifugiati, c'è un altro filo conduttore che attraversa la storia americana, e che trova riscontro nell’accoglienza ricevuta da una persona per cui nutro profonda ammirazione: Wladyslaw Krzysztofowicz. E qui la faccenda diventa personale. Cresciuto in quella che all’epoca era la Romania e oggi è l’Ucraina, Krzysztofowicz fu incarcerato dalla Gestapo per aver aiutato una spia antinazista che lavorava per le potenze occidentali. Sua zia fu trucidata ad Auschwitz per attività spionistiche analoghe, ma lui riuscì a ottenere la libertà pagando una tangente. Quando la Seconda guerra mondiale si avviava al termine, fuggì dalla sua madrepatria, che stava cadendo in mano ai sovietici. Dopo un periodo di prigionia in un campo di concentramento jugoslavo, passò in Italia e poi in Francia, ma lì non riusciva a ottenere un permesso di lavoro. Perciò sognava di andare in America, che da quello che aveva sentito dire era aperta a tutti. Conobbe una donna americana che lavorava a Parigi, che convinse la sua famiglia, giù a Portland, a sponsorizzarlo insieme alla sua chiesa, la First Presbyterian Church della città dell’Oregon. Mentre stava sul ponte della nave Marseille e la baia di New York cominciava ad avvicinarsi, nel 1952, una donna di Boston si mise a chiacchierare con lui e gli citò le famose parole scritte sulla Statua della Libertà: «Datemi le vostre genti stanche, i vostri poveri, le vostre masse accalcate che anelano a respirare libere…». Krzysztofowicz parlava poco l’inglese e non capiva, perciò lei gliele scrisse su un foglio di carta e glielo porse, dicendo: «Lo tenga per ricordo, giovane uomo». Poi, mentre si allontanava, si corresse: «Giovane americano». Krzysztofowicz si tenne quel foglietto di carta, meravigliandosi che lui, un profugo che in patria aveva rischiato la vita perché non aveva appartenenza, ora, chissà perché, veniva considerato americano ancora prima di aver messo piede sul suolo americano. Era un’inclusività che lo lasciava stordito, che suscitò in lui un amore per l’America che ha trasmesso a suo figlio.
Questo filone di ospitalità rappresenta il meglio di questo Paese. La chiesa presbiteriana di Portland sponsorizzò Krzysztofowicz anche se non era presbiteriano, anche se era un esteuropeo in un’epoca in cui il blocco comunista rappresentava una minaccia per l’esistenza stessa dell’America. Dopo essere arrivato in Oregon, decise che il cognome Krzysztofowicz era impronunciabile per gli americani e lo abbreviò in Kristof. Era mio padre.
Recentemente sono tornato alla First Presbyterian Church per ringraziare la congregazione di essersi presa un rischio sponsorizzando mio padre, che è morto nel 2010. E la chiesa, sono felicissimo di dire, si sta muovendo per sostenere una famiglia di profughi quest’anno. Signor presidente, la prego di ricordarsi che questo è un Paese costruito da profughi e immigrati, suoi e miei antenati. Vietando loro l’accesso e denigrandoli, stiamo disonorando le nostre stesse radici. (Traduzione di Fabio Galimberti)
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