Ciò che abbiamo fatto del nostro duro dolore
Rilanciamo volentieri un articolo uscito su "Avvenire" di martedì 30 marzo 2021 pubblicato da Daniele Mencarelli, uno scrittore che scrive anche per la nostra Rivista e per l’Agenda Mese.
Il momento è critico. Come di chi vede un orizzonte che non riesce mai a raggiungere, al punto da iniziare a credere che si tratti di un miraggio, o un’allucinazione.
La pandemia ha scavato solchi nell’economia delle nazioni, e cosa più ben più grave, nella psiche e nel morale di tantissime persone. Tra i sofferenti occupano un posto di rilievo, loro malgrado, quelli che in questa roulette russa con il destino hanno perso i propri familiari senza nemmeno potergli dare un ultimo saluto, qualcosa di inimmaginabile sino a poco più di un anno fa, ben oltre i limiti dell’umana pietà.
Un’altra categoria, se di categorie si può parlare, che ha subìto frontalmente il Covid-19 è senz’altro quella dei più giovani, privati della loro vita, reclusi in casa senza poter svolgere tutte quelle attività, in primis la scuola, fondamentali per la loro crescita, e il loro benessere. Non è un segreto, in molti ne stanno parlando. Pagheremo per anni quello che i nostri figli hanno vissuto in questi mesi. Quello che colpisce, però, è altro. Avendo con la mia attività un osservatorio privilegiato, che mi permette quotidianamente di incontrare, seppur a distanza, centinaia di giovani, ne voglio raccontare uno per tutti.
Scuola del nord Italia. L’incontro online è giunto al termine, quando oramai siamo ai saluti prende la parola Marco, il nome è di fantasia. Come inizia a parlare capisco perché lo abbia fatto solo alla fine, si strappa le parole di bocca una a una, con fatica enorme. Il virus gli ha portato via il nonno. Come da copione, nessuno lo ha potuto salutare, se n’è andato e basta. Oltre al cordoglio per la scomparsa del nonno, Marco soffre per altro, definirlo non è facile, si potrebbe dire che a farlo penare è il tentativo da parte di tutti di allontanarlo dal suo dolore. A partire dai genitori, in assoluta buona fede sia chiaro, il leit motiv si può riassumere in tre parole: “Non ci pensare”.
Marco, parliamo di un ragazzo di 16 anni, ride dal nervoso. Che significa non pensarci? E ammesso che sia possibile, perché? In fondo il tentativo di sotterrare il dolore è un po’ come tradire il nonno. Perché il dolore per la sua morte è grande quanto l’amore che si provava per lui. Anzi, in fondo è la stessa cosa.
La rivelazione è un animale indomabile, è lei a scegliere il quando e il come.
Marco, con parole semplicissime, dice quello che in tanti non riescono a mettere a fuoco. Ovvero il tentativo incessante della nostra epoca di ridurre il dolore a una pratica che si può e si deve omettere dalla nostra vita. Perché, in buona sostanza, non serve a niente, è un intralcio, una perdita di tempo faticosa. Allora dobbiamo giustamente fare a meno di pensarci, come? Semplice, attraverso le tante distrazioni che ci vengono offerte. Ma il dolore è il rovescio dei nostri sentimenti quando vengono attaccati, messi alla prova dal tempo, dalle tante avversità, su tutte quella più alta e ineludibile. La morte.
Negarci la sofferenza, al dunque, è negarci l’amore nella sua misura più vera e grande. Come spesso accade, sono i giovani, quelli con il cuore esposto alle intemperie, a essere nostri maestri.
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