Capodanno
Re, Papa e imprese. Così il 1° gennaio diventò festa civile. La ricostruzione delle vicende politico-giuridiche attraverso le quali, nel nostro Paese e non solo, il Capodanno è stato riconosciuto ufficialmente come festività (Alfonso Celotto e Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa, 31 dicembre 2017)
L’estate del 1874 sprigionava i primi tepori, quando Vittorio Emanuele II si ritirò in una delle residenze di caccia dei Savoia, il castello (in realtà una palazzina a un piano) di Sant’Anna, Cuneo. Lì il 23 giugno «per grazia di Dio e volontà della nazione», il re d’Italia «sanzionò e promulgò» una legge di una riga: «All’elenco dei giorni festivi è aggiunto il primo giorno dell’anno». Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, l’11 luglio, il Capodanno diventò festa per gli italiani.
L’iniziativa era partita da due ministri del governo Minghetti II (ultimo della destra storica), ormai dimenticati dai più: Gaspare Finali (Agricoltura, Industria e Commercio) e Paolo Onorato Vigliani (Grazia, Giustizia e Culti). Entrambi di antica fedeltà massonica. Si trattò di quello che le odierne cronache politiche definirebbero un blitz: una laconica legge di conversione infilata nel calendario parlamentare pochi giorni prima della chiusura estiva, che allora cominciava a metà giugno. L’obiettivo era dare certezza di legge all’annosa questione delle feste religiose e civili.
Prima si festeggiavano solo «Natale, Epifania, Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, Concezione, Natività e Assunzione della Beata Vergine Maria, Santissimo Corpo di Cristo, Beati Apostoli Pietro e Paolo, Ognissanti e Celeste Patrono di ciascuna diocesi, città o terra». Così recitava il Regio Decreto 5342 del 1869 che aveva «esteso per gli effetti civili a tutto il Regno il calendario dei giorni festivi già in uso nelle antiche Provincie dal 6 settembre 1853 in appresso».
Unificazione difficile
Era stato il congresso delle Camere di Commercio, riunito a Genova nel 1869, a sollecitare un intervento del governo per disboscare la giungla delle festività del neonato Regno. A dispetto dell’Unità, ogni territorio aveva conservato i suoi usi. Se i morigerati sabaudi festeggiavano 10 giorni l’anno oltre alle 52 domeniche, altrove si largheggiava. «Le feste - scrivevano i ministri nella relazione al re - sono tanto numerose che in alcuni luoghi giungono persino al numero di 30», il che comportava «abuso e detrimento economico». Il re ne fu convinto e appose la sua «augusta firma» sul decreto.
Il calendario del 1853 era stato frutto di una lunga trattativa segreta tra lo Stato sabaudo e la Chiesa romana. Era stato chiesto al Pontefice di «tagliare» il consistente numero di festività. Infine l’elenco fu ridotto «senza offendere le popolazioni». Papa Pio IX diede il suo assenso scritto con un Breve apostolico consegnato al vescovo di Saluzzo. Il Capodanno, sebbene di origine religiosa (la Chiesa celebra la solennità della Madre di Dio), ne uscì sacrificato.
Rapporti mutati
All’epoca le festività erano tutte religiose e rappresentavano un delicato bilanciamento fra Stato, Chiesa e tradizioni popolari. Lo Stato (confessionale, a norma di Statuto, ma con un’anima liberale) pretendeva di fissare i calendari amministrativi. La Chiesa rivendicava l’ultima parola. Il popolo, va da sé, amava festeggiare il più possibile secondo le mille tradizioni di una nazione e cento città. Ogni modifica del calendario veniva attentamente soppesata. «La competenza era mista, si agiva con particolare cautela secondo la via diplomatica», scrive Maria Rosaria Piccinni, autrice del libro «Il tempo della festa tra religione e diritto» (Cacucci).
Eppure, con la famosa leggina ad hoc, nel 1874 spunta il Capodanno, una festa tipicamente napoleonica. Perché?
Gli atti parlamentari non aiutano. Secondo Aldo A. Mola, storico della monarchia, «la risposta non va cercata nel 1874 ma nel 1869, che segna rottura piena tra Regno d’Italia e Stato Pontificio». Rottura militare (dopo la battaglia di Mentana nel 1867) e politica, con gli intralci che Pio IX poneva alla vita privata di Vittorio Emanuele II (a partire dal matrimonio morganatico con Rosa Vercellana), che sarebbe culminata nell’apertura della breccia di Porta Pia nel 1870. Celebrata ogni anno il 20 settembre con una nuova festività, istituita senza bisogno di una legge «essendo già tale nel cuore degli italiani». Il clima era pessimo. Così, con atto unilaterale, nel 1874 governo e re introdussero il Capodanno nell’elenco delle festività, riconoscendo al primo giorno dell’anno un particolare valore nella tradizione popolare. Valore certificato diversi anni dopo, nel 1911, anche da Pio X. Con un Motu Proprio ridusse il numero dei giorni festivi da 36 a 8 per fronteggiare l’accresciuto costo della vita, ma salvò il Capodanno.
Politica e burocrazia
Del resto è destino del Capodanno essere festa soggetta al mutare dei regimi politici.
Fu Giulio Cesare con il suo calendario nel 46 a.C. a spostare l’inizio dell’anno da marzo a gennaio. Ma per consolidare questa data, almeno in gran parte dell’Occidente, si dovette attendere il calendario Gregoriano e soprattutto la riforma di Innocenzo XII del 1691.
In altre parti del mondo il Capodanno ha date diverse, a partire da quello cinese collegato al novilunio di gennaio. Ma dal punto di vista della burocrazia l’aspetto più curioso è il periodico tentativo di modificare i calendari per legge, soprattutto a seguito di rivoluzioni e cambi di regime.
Il caso più noto è la Francia illuminista. Il nuovo calendario scritto da scienziati e basato sul sistema decimale, decristianizzato e ispirato ai valori della agricoltura, lo fissò nella terza decade del nostro settembre, che corrispondeva al 1° Vendemmiaio. Entrato in vigore nel 1793, fu abrogato da Napoleone il 22 fruttidoro anno XIII (il 9 settembre 1805).
Anche Lenin provò a cambiare il calendario per legge. Dal 1929 introdusse una modello basato su settimane di 5 giorni, al chiaro scopo antireligioso di bandire la domenica. Tutti i lavoratori furono divisi in cinque gruppi basati sui colori. Il riposo turnario evitava l’interruzione della produzione industriale, ma alimentò il malcontento perché complicava le relazioni familiari.
Fascismo e Repubblica
Mussolini decise di contare «il tempo dell’Era fascista» a partire dalla marcia su Roma del 1922. Primo giorno dell’anno il 29 ottobre. L’obbligo di aggiungere in numero romano l’anno dell’era fascista accanto a quello cristiano, disposto da una circolare del capo del governo, entrò in vigore nel 1927. Come se non bastasse, nel 1930 la marcia su Roma diventò festività solenne anche del calendario gregoriano. Ovviamente per legge, la numero 1726, intitolata «Modifica dell’elenco delle feste nazionali, dei giorni festivi a tutti gli effetti e delle solennità civili».
Abbiamo dovuto attendere la Repubblica per fare pace col Capodanno, ed è servita un’altra legge. Anzi due. La numero 260 del 1949, «Disposizioni in materia di ricorrenze festive», che lo colloca al primo posto. E la 121 del 1985, che recepisce la revisione del Concordato Stato-Chiesa e lo riconosce come festa anche religiosa.
E così il Capodanno è festa per tutti gli italiani. Unificati, nel primo giorno dell’anno, anche se con un secolo di ritardo.
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