Abbiamo bisogno di dialogo più che di provocazioni
"La questione del rapporto tra violenza, religione e vita associata è e sarà al centro di quella nuova fase storica di cui siamo oggi solo gli albori, e che abbiamo chiamato globalizzazione" (Mauro Magatti, Corriere della Sera, 9 gennaio 2016).
La copertina di Charlie Hebdo – nella quale un dio generico, rappresentato come un assassino dotato di Kalashnikov, viene accusato della violenza che esplode nel mondo – è stata una provocazione che non poteva che polarizzare gli animi: da un lato il fronte religioso, che ha per lo più reagito con l'indignazione; dall'altro quello laico, che ha difeso la decisione della redazione francese di mettere sul banco degli imputati, senza distinzione alcuna, tutte le religioni.
In realtà, in un momento come questo, c'è da domandarsi se un tale risultato sia davvero quello che serve. O se non sia più utile, andando al di là della provocazione, capire non ciò che contrappone ma ciò che unisce credenti e non credenti.
Quello che sappiamo è che la relazione tra violenza e religione è storicamente ricorrente. Ma, nel dire questo, occorre subito aggiungere che la violenza non ha bisogno della religione per esplodere (nel XX secolo, ad esempio, è stata la politica, non la religione, a esercitare una violenza distruttiva). E che, d'altra parte, le religioni, anche quelle che parlano di un Dio creatore, non sono immuni dalla violenza e anzi, non di rado, ne sono state profondamente pervase.
In realtà, quando si parla di questo argomento, ce n'è per tutti. Credenti e non credenti.
Come ha chiarito l'antropologo René Girard, la violenza è una latenza presente in tutte le società: fondamentalmente, a causa della natura del desiderio umano che è sempre mimetico, dato che è per noi desiderabile ciò che è desiderato da altri. E proprio per questo il sacro, che ruota attorno a questo punto incandescente, è strettamente associato alla violenza e ai suoi usi.
Per questo, le due posizioni che sono echeggiate in questi giorni («eliminando la religione, elimineremo la violenza» e «la religione non ha niente a che fare con la violenza») sono sterili. Ciò è tanto più importante da ricordare oggi, nell'epoca della globalizzazione, in cui le diverse religioni — che sono ben lontane dallo scomparire — entrano in contatto reciproco.
Il punto è che, in questa nuova fase storica, proprio la questione della violenza è il terreno su cui i rapporti tra politica e religione vanno ridefiniti.
La violenza va rifiutata e combattuta. E ciò è compito della politica, che deve farsi carico di contenere e punire chi ne fa uso in modo illegittimo. Ma un tale impegno deve coinvolgere anche le religioni, dal momento che la violenza ha sempre a che fare con il senso della vita, l'insegnamento religioso, il dibattito teologico.
Il pensiero laico riconosca che, per quanti sforzi gli essere umani abbiano fatto fino a oggi, non bastano le argomentazioni razionali e le istituzioni politiche a governare l'animo umano. Che mantiene sempre un cono d'ombra, da cui storicamente sono uscite le atrocità più impensabili.
Il pensiero religioso riconosca che il sacro, avendo a che fare con la vita e con la morte, si muove su un terreno che lambisce sempre la violenza: nella storia, troppe volte il nome di Dio è stato brandito da uomini contro altri uomini.
La questione del rapporto tra violenza, religione e vita associata è e sarà al centro di quella nuova fase storica di cui siamo oggi solo gli albori, e che abbiamo chiamato globalizzazione.
Capire come far convivere 7 miliardi di persone, con culture e fedi diverse, interessi economici e politici divergenti, nel quadro di un comune pianeta a risorse limitate rimane una sfida che fa tremare i polsi. Per questo, invece che alimentare la faida tra credenti e non credenti, occorre cercare di costruire un terreno comune tra tutti gli uomini di buona volontà, facendo maturare sia la politica sia la religione così da renderle capaci di contribuire ad affrontare le enormi questioni che la nostra storia comune ci pone di fronte.
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