Se "la vita è stare dentro gli eventi"
Per i cinesi i “tempi interessanti” sono una maledizione. Perché complessi. Per me, e per la generazione “salita in cattedra” in quegli anni, i Settanta hanno significato una stagione di protagonismo, innovazione, creatività. Anni “strepitosi”, a detta dello storico Miguel Gotor (1). Al centro della politica e della società troneggiavano, in termini di risorse investite e di priorità, la scuola e la cultura. Due divinità laiche alle quali tutti tributavano riverenza e omaggio.
Dopo mezzo secolo, piagato da due conflitti mondiali in rapida successione e da disumani totalitarismi, quella stagione innovativa dava vita a un nuovo paradigma politico-sociale: una democrazia dalle solide istituzioni, uno Stato e una società al servizio della centralità della persona-cittadino, una convinta partecipazione delle masse alla vita politica e sociale del Paese, una effervescente passione politica, un riformismo rigoglioso, un fruttuoso protagonismo della società civile (in primis, del “sindacato nuovo”). La carta costituzionale e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo si configuravano come le nuove tavole della legge. I francesi chiamano i Trente Glorieuses i tre decenni (1945-75) di implementazione del nuovo modello sociale: il Welfare, lo Stato sociale.
Credevamo entusiasticamente in quel nuovo paradigma di libertà, giustizia, riscatto sociale. La legge 1859 del ’62, la “nuova media unica”, rivoluzionava l’istituzione scolastica: si proponeva di renderla funzionale alla domanda di riscatto sociale delle masse, di partecipazione, mobilità sociale, modernizzazione economica, politica e sociale del Paese. In corpore vili, nella scuola reale non succedeva niente di particolarmente significativo. Non a caso “Lettera a una professoressa” (maggio del ’67) deflagrava come uno squillo di tromba: poneva tutti di fronte a una inadempienza costituzionale imperdonabile (la scuola di massa). Esiliato in un non luogo chiamato Barbiana, don Milani attraversava l’Atlantico, e tra la “meglio gioventù” americana, ribelle e protestataria, trovava la mission scolastica della nuova stagione politica: I care, mi stanno a cuore tutti i nuovi cittadini repubblicani destinati a essere sovrani del proprio destino, del Paese, dell’Europa.
Mi è stato chiesto di attenermi a quanto vissuto. Un’esperienza circoscritta, ma non irrilevante (2). Eravamo coscienti che a tempi cambiati dovessero corrispondere sistemi nuovi. Ma nelle scuole che ci accoglievano come nuovi prof tutto sembrava procedere as usual. Era una scuola ammuffita, povera nelle strutture e nelle infrastrutture, autoritaria, selettiva, nozionistica, inadatta alle masse. Senz’anima e senza passione. Fuori sincrono. D’altra parte, non ci voleva molto a capire che passare dalla formazione del “soldato del regime e dell’impero” a quella del “cittadino sovrano” non fosse una passeggiata sul red carpet. Mi imbatto, per caso, in un manuale sindacale per la prima elezione degli Organi Collegiali: rendiamo gioiosa la scuola e avanti con la lotta alla selezione, le due semplici raccomandazioni.
Criticavamo la Dc, attaccata al potere e al ministero della P.I. come cozze sugli scogli. E, tuttavia, era evidente come l’ottusità non risiedesse a Viale Trastevere, quanto nelle frange, sempre vive e vegete tra insegnanti e nella società, dei nostalgici, pigri, paurosi del nuovo.
Nel 1970-71, ad esempio, il ministro Misasi firmava una “maxicircolare” con cui si caldeggiavano l’uso della lettura dei giornali in classe, il passaggio dal voto alla valutazione e “i pacchetti di integrazione didattica” (l’accorpamento delle attività curricolari mattutine con il doposcuola). Con la legge 820/1971 il “tempo pieno” entrava trionfalmente nelle elementari. L’anno seguente, – è una chicca! –, il nuovo ministro P.I. Oscar Luigi Scalfaro, fama di cattolico fondamentalista, firmava una circolare nella quale si incoraggiava la “inventiva didattica”! Un auspicio che diventava legge il 31 maggio del 1974: “La sperimentazione nelle scuole di ogni ordine e grado è espressione dell’autonomia didattica dei docenti e può esprimersi:
a) come ricerca e realizzazione di una innovazione sul piano metodologico-didattico;
b) come ricerca e realizzazione di innovazione degli ordinamenti e delle strutture esistenti” (art. 1, decreto delegato 419).
La nuova “media unica”, la diffusione del tempo pieno nelle elementari e nella “media unica”, il protagonismo dei docenti (“corsi abilitanti” e titolarità per l’avvio delle sperimentazioni), gli Organi Collegiali (la gestione sociale della scuola): un pacchetto tutt’altro che meschino di innovazione e di modernizzazione del sistema scolastico. Le vie delle riforme, come quelle dell’inferno, sono lastricate di buona volontà. Annota recentemente Michele Serra:
“Non siamo mai stati un popolo a misura dei nostri valori costituzionali, magnifico dono di una minoranza ispirata, colta e soprattutto convinta che il fascismo fosse stato un mostro immondo, la democrazia un arcangelo giustiziere che portava la luce dopo le tenebre”(3).
Quella scuola è stata un successo. Sotto più punti di vista: in termini di investimenti finanziari, in strutture, personale, risultati (riduzione dell’analfabetismo, moltiplicazione di diplomati e di laureati). I buchi sistemici denunciati da decenni sono riconducibili a un collasso improvviso della partecipazione e dell’interesse politico e sociale per la scuola e la cultura; la passione politica viene sostituita dal ripiegamento nel disimpegno, nell’egoismo, nel consumismo e dalle stagioni del neoliberismo (Reaganeconomics), della finanziarizzazione dell’economia, dello smantellamento del Welfare, della globalizzazione, di una rivoluzione tecnologica incalzante, di populismi semplificatori e di passioni fredde.
Quel progetto di passione democratica, antifascista e riformista si inabissava di colpo. Repentinamente. Come sopraffatto da una stanchezza imprevista e imprevedibile. Due testimonianze a riprova di quel collasso, poco studiato e ancor meno compreso. La prima viene dalla sorprendente voce “scuola a tempo pieno” dell’Enciclopedia Pedagogica (6 tomi), databile seconda metà degli Ottanta e attribuibile al direttore Mauro Laeng: basta a scuola a tempo pieno, si diceva, troppo “scuolacentrismo”, non ci sono più le condizioni che l’avevano consigliato. D’accordo anche la sinistra, s’affrettava a sottolineare l’estensore della voce. Già all’alba degli Ottanta c’è chi lamenta (!?) un eccesso di laureati…
Va dato merito alla “minoranza ispirata, colta e democratica antifascista” evocata da M. Serra d’averci lasciato almeno due principi evergreen: la mission di una istituzione scolastica moderna (o, senza colpo ferire, il “patriota” ha sostituito il “cittadino sovrano”?) e la impossibilità di tornare a quell’insegnamento, a quella cattedra, a quel nozionismo, a quella incomprensione del popolo in formazione.
(1) M. Gotor, Generazione Settanta, Einaudi 2022
(2) E. Pichelan, Scusate il disturbo. La sperimentazione di integrazione scolastica, Editore Overview Padova, 2017.
(3) M. Serra, La grande mutanda italiana, “Il Venerdì”, La Repubblica, 21 luglio 2023