L’orgoglio da riscoprire
Ma l’orgoglio nazionale è davvero un sentimento da riscoprire? Me lo sono chiesta spesso in queste ultime settimane, nelle quali il tema dell’orgoglio è stato posto a più riprese, fino a diventare centrale nel messaggio con cui la premier ha augurato a tutti noi “un Natale di orgoglio e serenità”.
A dire il vero, faccio un po’ fatica, di fronte al presepe (tradizione che, da umbra, sento appartenermi in modo particolare), a cogliere nel Bambino in fasce nella mangiatoia, e nella sua famiglia, quel tipo di messaggio. Serenità, certo: amore per gli ultimi, che sono i primi a incontrare il Salvatore. La pace in terra annunciata dagli angeli, sicuramente la speranza che più d’ogni altra riempie i nostri cuori nei tempi che viviamo. Niente, ma proprio niente che mi induca a un sentimento definito da dizionario Treccani come “stima eccessiva di sé; esagerato sentimento della propria dignità, dei proprî meriti, della propria posizione o condizione sociale, per cui ci si considera superiori agli altri”. Certo, esiste poi, come ci ricorda lo stesso dizionario, il legittimo orgoglio: “sentimento non criticabile della propria dignità, giustificata fierezza”. Voglio pensare che a questa accezione nobile del sentimento si riferisca la premier, nella sua esortazione.
Ma allora mi sento di dire che non lo considero poi così estraneo, e non da oggi, al sentire diffuso degli italiani, che di orgoglio nazionale credo ne abbiano sempre avuto e dimostrato a sufficienza. Penso, ad esempio, alle ricorrenti manifestazioni di giubilo nazionale, legate per lo più a eventi sportivi (le sole “competizioni” che dovrebbero vedere i diversi popoli impegnati l’uno contro l’altro), ben presenti nella memoria di tutti noi. Ero giovanissima, allora, ma ricordo molto bene lo sventolio di bandiere che invase ogni piazza italiana dopo la vittoria ai mondiali di calcio del 1982. Per ragioni anagrafiche, non ho memoria diretta del mitico 4-3 rifilato dall’Italia alla Germania allo stadio Azteca, ma mi dicono che anche allora non si lesinò certamente nelle espressioni di orgoglio. Del 1982 è ben viva, però, anche l’immagine di un Pertini esultante, e di sicuro orgoglioso, al cospetto del re di Spagna. Ben altro orgoglio rifletteva allora la sua figura, quello di un popolo intento a superare una delle prove più ardue, la sfida portata dal terrorismo, con una coralità di impegno di cui la stessa presidenza Pertini fu in qualche modo il simbolo. Sempre in ambito calcistico, sarebbero venute poi altre occasioni di orgogliosa euforia: nel 2006 (altro mondiale vinto), più di recente nel 2021 (vittoria agli europei). Anche in quest’ultimo caso, un orgoglio sportivo che si accompagnava a un altro grande sforzo corale del popolo italiano, quello profuso per affrontare il dramma della pandemia.
Non è stato solo il calcio a darci motivi, sempre in campo sportivo, di legittimo orgoglio. Altri avvenimenti sono ben presenti nella memoria, dei quali mi preme sottolineare un elemento di novità che si è fatto via via più rilevante: penso al peso che sta avendo, in discipline sia individuali che di squadra, la presenza di atlete e atleti che rendono le nostre compagini sempre più multietniche. Italiane e italiani che a pieno titolo condividono le soddisfazioni e l’orgoglio del popolo di cui fanno parte, avendo contribuito, spesso in modo decisivo, ad alimentarli.
In campi diversi da quelli sportivi, non mancano certo personalità che nel corso del tempo hanno dato lustro al nostro Paese, rendendoci come italiani giustamente orgogliosi: penso all’arte, alla musica, alla scienza, alle produzioni industriali e artigianali, alla ricerca. Tanti protagonisti, in tutto l’arco della nostra storia, per ognuno dei quali l’eccellenza nel proprio campo è sempre andata di pari passo con un atteggiamento di apertura al mondo. In cui l’appartenere a una “nazione” è stata sempre declinata in termini esattamente opposti a quelli che potremmo definire “nazionalistici”. L’eccellenza del made in Italy, del resto, si deve proprio alla possibilità e alla capacità di far circolare i frutti della creatività, dell’ingegno e del lavoro italiani in altri Paesi diversi dal nostro, in modo che ne possa essere universalmente riconosciuta la particolare qualità.
Per quanto possa sembrare discutibile, e ammettendo che in quanto sto per affermare vi sia un certo tasso di provocazione, credo che il popolo italiano abbia sempre e comunque conservato, in fondo, un buon grado di apprezzamento, e a tratti di orgoglio, per chi lo rappresenta in importanti istituzioni. È accaduto, e penso ancora accada, con molti Presidenti della Repubblica: quello attuale, per esempio, si è mostrato più volte punto di riferimento sicuro, condiviso e “trasversale” (per età, residenza, opinioni politiche) per tanti cittadini (il 73%, secondo un’indagine condotta pochi mesi or sono dal sociologo Ilvo Diamanti) che nutrono nei suoi confronti molta o moltissima fiducia.
Ecco, se c’è un “orgoglio nazionale” da rilanciare, è sicuramente quello, al momento piuttosto latitante, che si prova in generale per la classe politica e per le forme attraverso cui è chiamata a esercitare il suo ruolo di rappresentanza. Alle ultime elezioni il tasso di astensionismo ha raggiunto quasi il 40% (9 punti in più rispetto alle votazioni precedenti), un dato che dovrebbe far riflettere tutti e diventare, lo dico ben sapendo quanto possa rappresentare una pia illusione, l’oggetto di una strategia condivisa da tutti per rilanciare una partecipazione che appare molto vicina, se già non c’è arrivata, al livello di guardia.
Due semplici calcoli per dirci cosa significa, in termini di rappresentatività del Parlamento, il fatto che voti meno del 64% degli aventi diritto, come avvenuto nel 2022. Il partito più votato, che ha raccolto il 26,6% di consensi, rapportato all’intero corpo elettorale vale il 16,6%. Nemmeno due elettori su dieci. Il maggior partito di opposizione conterebbe – rispetto al totale degli elettori – il 12,2%. Poco più di un elettore su dieci. La coalizione di maggioranza, raffrontata all’intero corpo elettorale, non arriva al 30% (27,98%), quella di centrosinistra è sotto il 17% (16,68%). Non intendo minimamente contestare la legittimità dei ruoli che discendono dal voto, per me assolutamente indiscutibile in forza delle regole che ci governano, alle quali dobbiamo il massimo rispetto. Ma non andrebbe mai dimenticato che la massa degli astenuti vale oggi il 36,1% del corpo elettorale: una forza in grado si sovvertire, qualora decidesse di scendere in campo, qualunque assetto e ogni pronostico. Vale per tutte, indistintamente, le nostre forze politiche, di maggioranza e di opposizione, inclini a contemplare prevalentemente il proprio ombelico, nella convinzione che sia quello del mondo.
Se abbiamo voluto dedicare al tema della partecipazione quest’annata della nostra Agenda, è perché ne abbiamo ben presente il valore e la forza. L’orgoglio che vorremmo veder rifiorire è quello di un popolo che non rinuncia a far valere il proprio diritto di determinare le sorti del Paese in cui vive, utilizzando gli strumenti di espressione della volontà collettiva che fanno viva e vitale una democrazia. Un diritto che dovrebbe essere sentito da tutti anche come un dovere.