Gli Organi Collegiali: cinquant’anni e… li dimostrano
Nati alla fine degli anni ‘70 sull’onda delle trasformazioni politico-sociali caratterizzanti il decennio 60-70, gli Organi Collegiali hanno rappresentato la risposta istituzionale alla richiesta di una scuola democratica, aperta al territorio, improntata ad una gestione sociale e condivisa. Ma sono invecchiati, come il tempo che hanno attraversato, tempo che ha scardinato gli assetti precedenti, ridisegnando i profili istituzionali, e non solo quelli del sistema scolastico, con innumerevoli leggi di riforma emanate negli ultimi venticinque anni. Si pensi solo alla L. 59 15 marzo 97, al D.P.R. 275 del 1999, alla riforma del Titolo V (Legge Costituzionale n. 3 del 2001), alla L. 107 del 2015… è sufficiente una riflessione su tali provvedimenti, trascurandone altri pur se altrettanto importanti, per comprendere come appaia ineludibile il rinnovamento di organi collegiali affinché diventino espressione di nuovi equilibri istituzionali tra dimensione centrale e territorio e rispondano alla necessità di armonizzazione con le competenze e responsabilità dei dirigenti scolastici.
Si ricordi che gli Organi Collegiali, distinti tra organi di istituto e organi territoriali (livello distrettuale, provinciale e nazionale), nacquero nel 1974 quando non era stata ancora riconosciuta l’autonomia alle istituzioni scolastiche né era stata conferita la dirigenza ai capi di istituto e soprattutto non era stato riformato il titolo V della Parte II della Costituzione, riforma che ha trasformato tutto l’assetto del governo territoriale e sovvertito i tradizionali rapporti tra centro e periferia.
La riforma degli organi collegiali di istituto appare quanto mai urgente in una fase storica in cui, senza ribadire le criticità manifestate in questi anni, le cronache continuano a riportare le difficoltà di mediazione nel rapporto scuola famiglia da parte degli organi collegiali e il perdurante ricorso alla giustizia amministrativa per risolvere i conflitti. Il dialogo e la corresponsabilità escono di fatto perdenti e ciò conferma come la scuola abbia bisogno di partecipazione proprio nell’ottica di superare l’azione individuale e condividere gli interventi educativi.
Ma la riforma è ancora al palo, e pare non crederci più nessuno, anche perché annunciata da anni ad ogni legislatura senza però avere mai seguìto.
Ed è ancora più urgente se e come ripensare e riattivare quegli organi collegiali territoriali istituiti con il D.P.R. n. 416 del 1974, rimasti in vita per più di vent’anni con un funzionamento altalenante sia per la pletoricità della loro composizione che per il loro difficile incardinamento nel sistema scolastico considerato il rapido susseguirsi ed intrecciarsi di norme di riforma del sistema stesso e dell’assetto amministrativo del Paese.
Mi riferisco al Consiglio scolastico distrettuale e al Consiglio scolastico provinciale, non volendo affrontare la questione relativa al Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, ora CSPI, eletto nel 2015 a seguito di una sentenza del Consiglio di Stato.
Tali Organi erano stati previsti dal legislatore per mettere in relazione la scuola con la realtà sociale del territorio: “…il distretto scolastico realizza la partecipazione democratica delle comunità locali e delle forze sociali alla vita e alla gestione della scuola, opera… con l'obiettivo del pieno esercizio del diritto allo studio, della crescita culturale e civile della comunità locale…” e il Consiglio scolastico provinciale “…esprime pareri al provveditore agli studi e alla regione sui piani annuali e pluriennali di sviluppo e di distribuzione territoriale delle istituzioni scolastiche ed educative,… indica i criteri generali per il coordinamento a livello provinciale dei servizi di orientamento scolastico, di medicina scolastica e di assistenza psicopedagogica…, approva i piani provinciali istitutivi dei corsi di istruzione ed educazione degli adulti,…”.
La storia e il funzionamento di tali organi si interrompono nel 1999 quando il D.Lgs n. 233 del 1999 avrebbe dovuto abrogarli individuando tre organi rinnovati: il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, i Consigli Regionali dell’istruzione ed i Consigli Scolastici Locali. Tali organi, avrebbero dovuto assicurare, a livello centrale, regionale e locale, la “rappresentanza e partecipazione alle componenti della scuola e ai diversi soggetti interessati alla sua vita, alle sue attività e ai suoi risultati”. Ho usato il condizionale, infatti il D.Lgs n. 233 del 1999 non ha avuto attuazione e, dunque, ad oggi gli organi collegiali territoriali sono (sarebbero) ancora quelli disciplinati dal D.Lgs n. 297 del 1994. In realtà, il Consiglio Scolastico Distrettuale non ha più efficacia in quanto i distretti scolastici sono stati dichiarati soppressi al 31 dicembre 2001 e cancellati di fatto nel 2003 e il Consiglio scolastico provinciale, svuotato di competenze trasferite agli assessorati provinciali e regionali o disciplinate da successive norme di settore e dai CCNL, è di fatto dismesso.
Sulla sorte, invece, del Consiglio Nazione della P.I. ho già detto.
In conclusione, l'amministrazione scolastica non dispone attualmente di organi collegiali territoriali che se fossero stati istituiti avrebbero invece potuto rappresentare validi strumenti di raccordo determinando una maggiore collaborazione e concertazione alla luce della riallocazione delle competenze delle Regioni, degli Enti Locali e delle istituzioni scolastiche definite dalla Legge n. 59 del 1997 e soprattutto dalla riforma del titolo V. Ed oggi riemerge prepotentemente l’esigenza di rivedere l’assetto organizzativo e funzionale degli organi collegiali, visto il Disegno di legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata ed i rischi ad essa connessi se dovesse applicarsi anche alla scuola.
Va ricercata allora la mediazione tra un sistema autonomistico regionale, che se attuato rischierebbe di far accrescere i divari (credo poco al regime di sussidiarietà) e minare ulteriormente l’unità nazionale di un Paese già frammentato e un sistema centralizzato che però si liberi dalle pastoie burocratiche per sostenere e non imbrigliare il cambiamento che corre più velocemente delle norme, che consenta l’attuazione di un’autonomia ragionevole alle Regioni e che vigili sulla reale uguaglianza di opportunità formative per garantire l’uguaglianza degli esiti. La sfida è rappresentata dal trovare lo strumento per raggiungere questo difficile equilibrio.
Ci sono stati nel tempo tentativi di ricerca di nuovi equilibri istituzionali tra dimensione centrale e territorio, in una logica partecipata del servizio pubblico.
Il progetto “Dal Pof di istituto al Pof di territorio”, sviluppato in Umbria negli anni 2005-2007, ha rappresentato uno di questi tentativi.
La finalità del progetto sperimentale era quella di verificare la praticabilità di un “modello” atto a governare il passaggio dalla visione di programmazione centralizzata ed interventista a quella che estremizza l’autonoma iniziativa dei soggetti, mediante la definizione di una modalità regolatrice fra due istanze apparentemente divergenti.
Il riferimento, pertanto, fu quello del concetto di Governance sempre più utilizzato come categoria- guida nell'ambito delle politiche pubbliche, intendendo con ciò la prevalenza di logiche di tipo negoziale e relazionale, coordinative, piuttosto di quelle di vero e proprio Government basate esclusivamente sulla normazione e programmazione.
Ma la capacità di coordinare e orientare le azioni, passando da una logica verticale ad una di tipo orizzontale, richiede la presenza di organi collegiali territoriali cui compete il coordinamento delle attività gestionali di tutti i soggetti interessati e la valutazione della realizzazione degli obiettivi programmati (D.Lgs n. 300/99) ed, insieme una rete capillare di intese che raccordi l’attività didattica ed organizzativa delle istituzioni scolastiche autonome con quella dei comuni e delle province nelle materie di rispettiva competenza. Tutto ciò non c’era allora e non esiste oggi.
L’assenza della legge di riforma degli Organi Collegiali, lo scenario normativo nazionale in continuo cambiamento, oltre ad eventi interni non previsti, portarono alla decisione di non procedere alla costruzione di un modello di pianificazione territoriale dell’offerta formativa, nonostante il percorso di ricerca e di formazione effettuato per due anni, in quanto avrebbe potuto perdere validità e non essere più cogente nel momento in cui fossero stati assunti provvedimenti non coerenti con le tesi teoriche e giuridiche fondanti l’ipotesi adottata.
Ne uscì comunque rafforzata – e confermata – la convinzione che le decisioni politiche inerenti al sistema scuola non potrebbero essere prese prescindendo dalla territorialità, rappresentando oggi la dimensione entro cui una molteplicità di soggetti si muove, opera e coopera nella realizzazione – e fruizione – dei servizi ai cittadini.
Questo era l’esito che fu consegnato come elemento di riflessione e contributo per le future riforme ma, inascoltato, non gli fu dato seguito. Forse un’altra occasione mancata.
Il 28 febbraio 2019 era stata annunciata l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di dieci disegni di legge di delega al Governo per le semplificazioni, i riassetti normativi e le codificazioni di settore. Tra gli obiettivi in materia di istruzione, oltre alla razionalizzazione, era prevista la revisione della “disciplina degli organi collegiali territoriali della scuola, in modo da definirne competenze e responsabilità, eliminando duplicazioni e sovrapposizione di funzioni, e ridefinendone la relazione rispetto al ruolo, competenze e responsabilità dei dirigenti scolastici, come attualmente disciplinati”, il tutto nel rispetto del principio di autonomia scolastica.
La aspettiamo ancora: un’altra riforma annunciata, un’altra riforma mancata.