Raffaele Iosa, la lezione di don Milani
Si chiude in queste settimane l’ “anno di Don Milani”: il Priore di Barbiana era nato, infatti, cento anni fa, nel 1923. Morto nel 1967, quasi per caso “inventò” la scuola di Barbiana che si è confermata negli anni una straordinaria esperienza educativa e pedagogica. Ne parliamo con Raffaele Iosa, ex dirigente tecnico (anzi ispettore scolastico, come preferirebbe essere chiamato), autore di numerosi saggi e articoli sulla “scuola di Barbiana” e sulla “Lettera ad un professoressa”.
Partiamo dal titolo del libro dei ragazzi di Barbiana: perché si rivolgono ad una professoressa? Forse perché le professoresse di quegli anni erano le stesse che in un famoso libro di qualche anno dopo venivano definite le “vestali della classe media”?
Intanto vorrei far notare il carattere "geniale" del titolo dal punto di vista editoriale, la sua sfrontatezza senza pudori.
Ad ogni modo il titolo nasce da un fatto reale, accaduto alle medie di Vicchio, dove le professoresse avevano bocciato un sacco di ragazzi/e continuando la tradizione. Ma con una variante nuova: i bocciati erano tra i primi della nuova scuola media unica, nata il 1° ottobre 1963. Dunque: "nuova" scuola media, "unica", per tutti la stessa. E obbligatoria.
Ma che pareva rimanere la stessa di prima, e cioè un ciclo preparatorio per il passaggio ai licei. Una scuola media nata senza un vero dibattito pedagogico nelle scuole e con molte resistenze. E dunque il caso "vero" della bocciatura di un contadinello del monte Giovi fece scattare in don Milani la molla su cui nacque la scuola a Barbiana.
Circa le professoresse degli anni ‘60 la letteratura sociologica seria non ha precedenti se non appunto il celebre "Vestali della classe media" che però vien dopo la Lettera di Barbiana. E dopo don Milani non era difficile parlarne male.
Per la verità, prima di Barbiana, Don Milani aveva realizzato altre esperienze “innovative”, come diremmo oggi…
Sì, a Calenzano don Lorenzo aveva lavorato nella "scuola popolare" per giovani operai, ma l’esperienza di Barbiana è completamente diversa: si trattava di una "anti-scuola" inventata al volo per tutti i bambini e ragazzi preadolescenti e adolescenti della zona di Vicchio che "andavano male" a scuola. In poco tempo una scuola per la quale il Priore cercava fino a casa i bambini e ragazzi di cui sapeva i guai con le professoresse. Celebre al proposito è la frase "la scuola sarà sempre meglio della merda".
Parliamo di uno degli “slogan” più noti della Scuola di Barbiana: non bocciare. In effetti ormai nella scuola del primo ciclo non si boccia quasi più, vuole dire che il messaggio di Don Milani è stato recepito?
Nessuno dei “milaniani” sul campo a quei tempi (tra i quali io giovanissimo maestro) ha mai pensato che il “non bocciare” fosse uno slogan corporativo o una promozione gratis.
Ricordo che i famosi “comandamenti pedagogici” della Lettera sono tre, scritti insieme:
1. Non bocciare
2. Dare di più a chi ha di meno
3. Ai ragazzi dare uno scopo
Dunque, direbbe De Gaulle “un vasto programma”. E così era. Vanno letti insieme come un unico blocco di proposta politica pedagogica. La “promozione” era dunque un obiettivo pedagogico che prevedeva una didattica e un’organizzazione degli insegnamenti-apprendimenti centrate sul “recupero” (come parola nobile, non “caritatevole”) dei gap culturali dell’ambiente familiare e sociale. Voleva dire anche il “pieno tempo” come occasione di spazi e ore di scuola in più e in forme diverse dalle didattiche tradizionali che superavano il paradosso della scuola media come “ospedale che cura i sani e abbandona i malati” (altra frase celebre di don Milani). Ma voleva anche dire (cosa non meno importante degli altri due) offrire ai ragazzi la scoperta e la scelta di uno scopo etico e culturale della propria vita. Scopo che non era solo il prosaico “orientamento per il dopo e la vita adulta” (questione importante ancora oggi sul passaggio dalle medie alle superiori), ma era anche una “scelta politica”. E lo scopo principale per Barbiana era (non c’è dubbio) quel “sortirne insieme è la politica” cioè uno sviluppo umano del civis adolescente e poi adulto in cui la politica, con la partecipazione, era la più nobile arte del vivere.
Resta il fatto che ormai nel primo ciclo la bocciatura non esiste quasi più..
A distanza di 60 anni si può dire che la scuola media boccia meno numericamente, per tante ragioni, tra cui quella demografica. Gli studi di Franco De Anna sulla selezione scolastica segnano peraltro ancora il fatto che le bocciature nelle scuole medie e gli orientamenti successivi alle superiori sono esiti “di classe” e derivano dal ceto sociale degli studenti, dimostrando così che la scuola media di oggi come “ospedale” non cura i cosiddetti “malati” ma li sopporta (se va bene) come “problemi” a volte persino clinici ma sugli altri due comandamenti la distanza da un livello ottimale di pedagogia è ancora tanta.
Perché accade questo?
Il sistema didattico pedagogico del “dare di più a chi ha di meno” è vago e rischia di tradursi in pratiche di “separazione” tra “bravi e non bravi” con pochissima solidarietà tra pari. Rischia di confondersi con inutili e barbose “ripetizioni”, non favorendo invece la ricerca dei “talenti individuali” che ogni ragazzo comunque possiede. Sul “dare uno scopo” tutto il sistema dell’orientamento nel passaggio dalla media in poi è vago, di poco spessore, a volte solo pubblicitario per acquistare studenti-clienti, e con poche “passerelle” dove poter passare cercando la via migliore di studio per l’adolescenza più matura. Infine, lo “scopo sociale” di un’educazione alla cittadinanza attiva dei nostri giovani è termine vago e casuale da scuola a scuola.
Un altro slogan molto noto è quello che riguarda la lingua che, secondo il Priore, è lo strumento che ci può fare uguali. Quanto c’è di attuale in questa idea?
La questione della “lingua” è centrale nella scuola di Barbiana. Talmente centrale che la Lettera (come è noto) è stata prodotta con la tecnica della “scrittura collettiva” che don Milani aveva preso da Mario Lodi. È vero anche adesso che il possesso della lingua come forma attiva del pensiero e del discorso tra pari è questione centrale della democrazia politica compiuta e delle relazioni infra-umane. Si può dire che la sfida degli anni 60-70 su una “lingua per tutti” e una “lingua liberata” ha avuto un certo successo. Si insegna meno linguistica di 50 anni fa, è innegabile. Meno grammatica tradizionale e più glottodidattica. Ma la sfida del presente è tutto quel mondo delle neo-lingue dato dalle tecnologie comunicative, dall’abuso di linguaggi standard e stereotipati fino alla recentissima intelligenza artificiale. Rischiamo persone con linguaggi stereotipati e superficiali. La lingua ha un suo valore semantico profondo che trasmette pensieri e sa ascoltare quelli degli altri per una comprensione comune del mondo ed uno scambio, anche dialettico, dei diversi punti di vista di ognuno. La sfida per una “lingua liberante” non è finita.
Secondo Don Milani la scuola dovrebbe prestare attenzione ai più deboli, se non addirittura ai “malati”. Ormai quasi un insegnante su tre opera sul sostegno: la scuola italiana è più “donmilaniana” di quanto pensiamo?
Ho già detto sopra sulla scuola attuale come poco “ospedaliera democratica”. Qui invece mi poni un tema a me caro come studio e preoccupazione. Un effetto “moderno” della lettura della condizione dei nostri studenti è l’assoluta esplosione di “diagnosi” di diverso tipo che hanno invaso le nostre scuole per una neo-teoria della salute che ha invaso a sua volta le nostre società portate a drammatizzare ogni “difetto” evolutivo e a clinicizzare tantissimi comportamenti evolutivi troppo presto e con il rischio di drammatizzare lo sviluppo.
In vent’anni le certificazioni di disabilità sono quasi triplicate, i DSA nelle diverse forme (dislessia, discalculia, ecc.) sono ormai certificati nello stesso numero, e vengono considerati “disturbi” in senso clinico e non “difetti” come suggeriva il buon Vygotskij. Gli insegnanti di sostegno sono esplosi per numero, assieme agli educatori delle cooperative, creando molto spesso “isole didattiche” esterne alla vita collettiva della classe. Si aggiunga poi la teoria dei BES, per cui ogni ragazzino che abbia qualcosa di “divergente” viene catalogato e “testizzato”, curato con diverse pratiche comportamentistiche di dubbia validità scientifica.
Questo vuol dire che i processi di inclusione stanno segnando il passo?
Purtroppo sì: tutto ciò che sta capitando in quest’ambito crea un mondo ormai vasto di ragazzini cui si rischia di offrire una “isolazione” piuttosto che una “inclusione” nello sviluppo scolastico, attraverso pratiche separative e soprattutto abbassando le aspettative educative.
Insomma, un neo-ospedale separativo che odora di rischio di ritorno alle scuole speciali. Ci vedo la “vecchia scuola” che si vendica spingendo verso forme “speciali” separative incistate nelle scuole normale. Si entra tutti dallo stesso portone della scuola, ma poi molte attività vengono fatte in aule separate. Un anticipo del rischio di futuri ritorni alle scuole speciali.
Nel dibattito sulla scuola ritorna spesso una questione: secondo una certa “critica”, Don Milani avrebbe aperto ad una concezione “buonista” della scuola. C’è persino chi sostiene che con Don Milani inizia il declino della scuola “seria”. Ma è davvero così?
Ma no, niente affatto. La scuola “selettiva e seria” di prima di Barbiana era una scuola ideologica di classe, che aveva nel suo dna la selezione dei migliori come scopo centrale. Tutto l’opposto dell’art. 3 della Costituzione. Don Milani non era affatto “buono” o incline al lassez faire. Anzi era molto duro ed esigente. Soprattutto, però, i suoi ragazzi non li mollava mai. In una lettera a una sua vecchia amica scrive che l’esperienza di Barbiana non gli aveva solo fatto capire l’importanza politica della scuola democratica, ma gli aveva fatto scoprire i bambini e i ragazzi come “persone” per i quali “aveva perso la testa”. Ecco, questo “perdere la testa per i ragazzi” è la passione educativa straordinaria che don Milani ci ha ricordato dovrebbe essere l’identità di ogni buon insegnante (e anche di ogni buon genitore). È un perdere la testa che contiene l’I CARE che è alla base di ogni vera educazione liberante e rispettosa delle persone.
Ma, a conti fatti, con i suoi “ragazzi” come era il Priore?
Don Milani non va letto come “buono” o come “cattivo” con i suoi ragazzi, come “tollerante” o come “severo” verso di loro; va tenuta in conto la sua passione anche interiore verso di loro, passione che lo portava a provare e riprovare tutto il possibile, senza mollarli mai. Semplicemente perché aveva perso la testa per loro. Mi pare un profondo messaggio a ogni persona che di professione insegni e si relazioni con bambini e ragazzi. Perdere la testa per loro rende la professione gratificante, libera, soprattutto offre uno scopo. Perché anche per chi insegna, come per chi impara, ci vuole uno scopo.
Non c’è il rischio di “iconizzare” un po’ troppo la figura di Don Milani e di ridurre il Priore a un simbolo o poco più?
Il rischio di “santinificare” don Milani, da tutte le parti, c’è senz’altro. E non c’è alcun dubbio sull’importanza fondamentale, sia politica che pedagogica, della sua esperienza in una storia della scuola italiana che ha momenti brillanti ma anche molti deludenti.
Don Milani si è “inventata “una sua pedagogia man mano, provando e riprovando, ma non è portatore di una qualche “teoria pedagogica” compiuta, se non nei valori di fondo del suo fare scuola (i tre comandamenti) e nel suo impegno totale dell’I CARE.
Piuttosto dovremmo essere orgogliosi che da un piccolo e povero paese del Mugello, da un prete strano scacciato in esilio dalle curie, sia nata un’esperienza in sé magica e grandiosa, fatta provando e riprovando, ma senza alcun dilettantismo o presunzione.
E orgogliosi, quelli della mia generazione che insegnavano da giovani in quegli anni, di aver avuto la fortuna di vivere un’esperienza educativa e professionale che trovava la folgorazione nelle parole della Lettera per quei significati che sentivamo dentro (pedagogici e politici) di cui non avevamo tutte le parole ma che sentivamo dentro di noi.
E che il priore di Barbiana ci diede assieme ai suoi ragazzi nella sua indimenticabile Lettera.
Quale sarebbe il modo migliore per ricordare davvero il pensiero del Priore evitando di fermarsi alla celebrazione?
La parola “celebrazione” è quanto di più lontano possa esserci rispetto alla Lettera e all’esperienza di Barbiana. Parlerei piuttosto di una memoria generativa ancora fresca di significati pur nella mutazione del mondo. Per i giovani insegnanti una fonte ancora fresca di riflessioni, provocazioni, pensieri radicali, passioni e l’I CARE di cui c’è bisogno oggi come ieri. Da cui bere ogni giorno un’acqua ancora incontaminata di pensieri forti e di passioni educative per cui vale anche oggi perdere ancora la testa.