Alle elementari arrivano i moduli
Il 23 maggio del 1990, esattamente 33 anni fa, veniva approvata in via definitiva alla Camera la legge in materia di “Riforma dell’ordinamento della scuola elementare”: giungeva così a compimento un lungo percorso iniziato quasi 10 prima con il dibattito politico e pedagogico che, nel 1985, aveva portato alla redazione dei “nuovi programmi” della scuola elementare.
La legge venne controfirmata dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga il 5 giugno e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 15 giugno con il numero 148.
Il percorso parlamentare era iniziato nel 1987, ma già due anni la senatrice Franca Falcucci aveva presentato un disegno di legge analogo che si era però arenato anche a causa della conclusione anticipata della IX legislatura. All’indomani della approvazione della legge il segretario generale del Sinascel-Cisl, Renato D’Angiò, così commentava in un editoriale su "Maestri d'Italia", ricordando anche un evento più unico che raro nella storia della scuola italiana: “È questo il primo, significativo riscontro, in sede parlamentare, alle tante, estenuanti lotte della scuola elementare e materna e all’impegno costante del Sinascel–Cisl. C’è una data che oggi vale ricordare: il 28 gennaio 1989. Per la prima volta nella storia della scuola e del sindacalismo scolastico, ventimila lavoratori della scuola materna ed elementare hanno sfilato fra le vie di Roma, chiedendo a gran voce le riforme per la scuola del bambino, sorprendendo notevolmente l’opinione pubblica e quella politica abituate a considerare le lotte dei lavoratori della scuola sempre come una esplosione delle spinte corporative e non come capacità di battersi per la qualità dell’offerta formativa” (cfr. M. Guglietti, Addio maestro unico, 2014).
L’approvazione finale arrivò al terzo passaggio parlamentare perché il Senato, dopo che la legge era stata approvata in prima lettura alla Camera nel maggio del 1989, aveva apportato alcune significative modifiche rendendo così necessario un ulteriore intervento della Camera.
L’ultimo atto prese avvio alla Camera nel mese di marzo del 1990, poche settimane dopo i lavori della Conferenza nazionale sulla scuola che era stata presieduta dall’allora Ministro Sergio Mattarella, al quale toccò anche il compito di portare a compimento il progetto di riforma, da lui definito come lo strumento che "rende possibile la piena attuazione dei nuovi programmi".
Per la verità il percorso parlamentare fu irto di ostacoli perché i gruppi politici di sinistra (PCI e Sinistra Indipendente soprattutto) consideravano il progetto poco coraggioso e scarsamente innovativo. Secondo la sinistra, infatti, la legge avrebbe marginalizzato le esperienze di tempo pieno e non avrebbe valorizzato adeguatamente la nuova dimensione culturale e disciplinare che emergeva dai Programmi del 1985.
La legge prevedeva l’aumento del tempo scuola e del numero dei docenti (un insegnante in più ogni 3 o 4 classi); proprio per questo un’altra delle accuse che veniva mossa al provvedimento era quella di essere di fatto poco più che una risposta di tipo occupazionale per consentire un aumento degli organici della scuola elementare.
In realtà la legge nasceva da esigenze pedagogiche e organizzative che si erano manifestate fin dal dibattito sui “nuovi programmi”, che aveva evidenziato come il modello di scuola a 24 ore non avrebbe consentito il raggiungimento degli obiettivi culturali e didattici previsti dalla legge stessa (la numero 104 del 1985).
All’epoca, infatti, il modello orario prevalente era ancora quello a 24 ore con un unico maestro (“tuttologo”, come si diceva allora) che doveva occuparsi di ogni insegnamento, dalla lingua italiana all’educazione artistica, dalla matematica all’educazione fisica. Esisteva certamente il modello del tempo pieno, che però riguardava una percentuale ridotta di classi e, soprattutto, era diffuso per lo più al nord e nelle grandi città.
La legge 148 introduceva novità rilevantissime sia sotto l’aspetto culturale sia sotto il profilo organizzativo. Veniva confermato l’insegnamento della lingua straniera (non necessariamente l’inglese) già previsto dai Programmi del 1985; così negli anni successivi vennero istituite cattedre di inglese e francese, ma anche di spagnolo e di tedesco, a seconda delle richieste delle scuole stesse e della “tradizione” storica e culturale del territorio (in Piemonte, per esempio, erano ben presenti le cattedre di francese e nelle regioni del nord-est quelle di tedesco).
Ma la novità principale riguardava la modifica del quadro orario: si passava da 24 a 27 ore settimanali nelle classi prime e seconde; si poteva arrivare a 30 ore in relazione alla “graduale attivazione dell'insegnamento della lingua straniera” come recitava espressamente il comma 7 dell’articolo 7.
L’applicazione piena della legge si scontrò da subito (e per molti anni) con la difficoltà ad organizzare correttamente l’orario settimanale. L’articolo 7 della legge, infatti, dava possibilità a ciascuna istituzione scolastica, fermo restando che l’orario avrebbe dovuto essere sia antimeridiano sia pomeridiano, di decidere con delibera del consiglio di circolo se ripartire le 27 (o più) ore in 5 o in 6 giorni della settimana. La norma stessa consentiva però una eccezione, perché stabiliva che “fino alla predisposizione delle necessarie strutture e servizi” fosse consentito adottare l'orario antimeridiano continuato in sei giorni della settimana. Questa disposizione, che doveva rappresentare una soluzione del tutto transitoria, continuò ad essere adottata in moltissime scuole, soprattutto nelle regioni meridionali, dove i Comuni avevano maggiori difficoltà a garantire i servizi di mensa e trasporto.
Dalla fine degli anni ’90 in poi, con l’entrata in vigore delle norme sull'autonomia, si arrivò anche a organizzare l’orario in 5 giorni soltanto, senza nessun rientro pomeridiano, con conseguenze facilmente immaginabili rispetto al benessere psicofisico degli alunni.
Un’altra disposizione molto importante della legge era contenuta nell’articolo 15 che fissava in 21 il numero minimo di alunni per la “sopravvivenza” di un plesso scolastico, ad eccezione di quelli collocati nelle zone montane e nelle piccole isole. E fu così che, a partire dal 1990, nelle aree più periferiche, nei piccoli Comuni e nelle piccole frazioni di campagna, venne chiuso un gran numero di scuole elementari.
In ogni caso la legge 148 ebbe l’indubbio merito di mettere il team docente al centro dell’organizzazione didattica della scuola elementare: la figura del “maestro unico” o “tuttologo” lasciava il posto al team formato da più insegnanti, ciascuno specializzato in una o più discipline, ma tutti accomunati dal raggiungimento degli obiettivi culturali e pedagogici previsti dai “Nuovi Programmi”.
Nel 1991 con la circolare 271 del 10 settembre, il Ministro dell’epoca - Riccardo Misasi - fornì le indicazioni in base alle quali definire criteri per l'aggregazione delle materie per ambiti disciplinari, nonché per la ripartizione del tempo da dedicare alle diverse discipline del curricolo. Nel decreto allegato alla circolare si ribadivano i principi ai quali si doveva ispirare l’intervento educativo: unitarietà dell’insegnamento, contitolarità e collegialità dei docenti assegnati al medesimo modulo organizzativo. Principi confermati anche dalle riforme successive e che, ancora oggi, forniscono una indicazione pedagogica certa e imprescindibile.