Scelta per noi da Leonarda Tola
Forza di gravità leggera
Accade di leggere un libro che sembra un romanzo, sapendo che non lo è. “Questo libro è la storia, vera, mia e di Daria. Veri sono i nostri nomi e quelli delle persone, grandi e piccole che ci sono più vicine”.
Così introduce il suo libro “Come d’aria” (Elliot gennaio 2023) Ada d’Adamo (Ortona 1967). Studiosa dell’arte della danza e ballerina, Ada scrive un diario che accompagna la vita e i giorni della figlia Daria, nata il 27 novembre 2005 con una malformazione cerebrale complessa. Non parla, non vede, non sta in piedi. La scelta di dare voce alla sua esperienza di ‘madre di Daria’ si fa convinta e irrevocabile quando Ada scopre di avere un tumore che lentamente, dolorosamente e inesorabilmente la consuma. Nel racconto, in prima persona, si intrecciano i tempi e gli avvenimenti che, non seguendo l’ordine cronologico, dipanano i fili di una lancinante esperienza d’amore con una figlia diversa. Una trama composta delle mille scintille in cui si accende e brucia la fatica sovrumana di vivere in presenza del dolore, del corpo e dell’anima. La scrittrice raccoglie e condensa in trenta brevi capitoli il male e il buio (e incredibilmente il bene e lo splendore) di una immersione totale (la chiama incorporazione): dentro e fuori, prima e dopo, avanti e indietro, nel tempo e nel luogo, nel vuoto e nel pieno in cui si ostina a fiorire quell’essere unico e inimmaginabile, la creatura impossibile che è questa figlia. Strappata alla cura di una madre che sa di essere lei stessa inguaribile. L’ultima pagina del libro ha una data: Roma, settembre 2022. Ada d’Adamo muore, a 55 anni, il 1° aprile 2023.
La scomparsa di Ada d’Adamo ha causato una profonda commozione nel mondo artistico e letterario. Il suo libro, tra i dodici candidati al Premio Strega 2023, resterà in gara. Un capolavoro: per l’intensità della storia vera di una dedizione d’amore oltre il limite, per la scrittura nitida e precisa, nelle parole che si fanno battito e respiro: come d’aria.
"Mamma, perché mi hai fatto questo?"
A novembre 2016 eri ricoverata in ospedale per un nuovo intervento, il terzo, allo stomaco. E così avevo saltato la consueta ecografia di controllo al seno. Contavo di rimediare non appena tornata a casa, una volta ripreso il ritmo regolare che scandiva le nostre giornate: casa, scuola, centro di riabilitazione... E invece me n'ero dimenticata, io che mi controllavo ogni sei mesi, alternando ecografia e mammografia con rigore da gendarme.
Quel tuo ricovero era stato più lungo e faticoso del solito: la plastica antireflusso che qualche anno prima ti avevano confezionato (sì, si dice così in gergo medico, neanche il fondo gastrico fosse un pacchetto regalo) aveva ceduto, ed era stato necessario rifarla. E poi c'era quell'ernia diaframmatica: bisognava riportare lo stomaco nella sua sede, ancorandolo bene per evitare che risalisse di nuovo (come era successo la volta precedente) e compromettesse le funzioni respiratorie.
Le ore successive all'intervento le avresti trascorse in terapia intensiva, dove la notte non ci era consentito rimanere. E così io e il babbo ci eravamo ritrovati stranamente liberi di uscire dall'ospedale per andare a mangiare qualcosa. In macchina avevamo percorso i pochi chilometri che ci separavano dal centro abitato di una piccola località di mare. Le strade erano deserte, l'unica pizzeria che l'usciere dell'ospedale ci aveva indicato («Ditegli che vi mando io») era chiusa per ferie. Del resto, si era in novembre, il mese dei morti, e per il turismo balneare il mese morto per eccellenza. Avevamo ripiegato sull'unico locale aperto, un misto tra un bar e un pub, frequentato da pochi avventori solitari, sguardi acquosi davanti a una birra o a un Cynar.
Non era la prima volta – e non sarebbe stata l'ultima – che ci ritrovammo così, l'uno di fronte all'altra, disposti a tutto per qualche ora di sonno, desiderosi di una doccia calda e un pasto che non avesse la forma di un panino. Eppure, il senso di colpa ("Lei se ne sta lì, da sola, in terapia intensiva e noi insieme, a mangiare fuori") non riusciva a riempire del tutto le nostre teste vuote, perse dietro al vago senso di libertà per quell'insperata uscita notturna a due, che rompeva la routine quotidiana scandita dai turni e dai ruoli.
Quando eri in sala operatoria o in terapia intensiva non avevamo più alcun diritto su di te, nessuna voce in capitolo. Qualcun altro monitorava il tuo sonno, il respiro, il pianto. Noi, fuori, facevamo i conti con l'attesa. Simulavamo i tempi – preparazione, anestesia, intervento, fase di risveglio –, ci appostavamo dietro porte chiuse, interrogavamo con sguardi muti un'infermiera di passaggio. Infine, come un richiamo nei meandri di una foresta, da quelle cavità oscure riemergeva il tuo pianto inconfondibile. Qualcuno si affrettava a chiamarci. Presto, fate presto! Chi entra dei due? La mamma! E su di me, come uno schiaffo in pieno viso, si schiantava l'urlo della tua rabbia disperata. Tu non hai mai parlato, ma a me pareva di sentirle, le tue parole: "Mamma, perché mi hai fatto questo?".
Il babbo restava fuori, in attesa, per un tempo che non riuscivo mai a quantificare. Qualche volta me lo vedevo comparire all'improvviso accanto al letto, camice, cuffietta e soprascarpe, e quasi non lo riconoscevo. Aveva corrotto un'infermiera, con quella sua intraprendenza partenopea che un po' mi imbarazzava ma che in ospedale avevo segretamente benedetto in più di un'occasione, io che mi vergognavo di chiedere qualsiasi cosa. Le sue mani grandi, sugli occhi tuoi gonfi di pianto. «Amore di babbo. Adesso ti passa...» sussurrava.
Ma quella volta avremmo dovuto aspettare fuori tutti e due, fino all'indomani. Il babbo si era diretto di malavoglia al bed & breakfast mentre io, tornata in reparto, avevo fatto l'amara scoperta che il tuo posto serviva per un'emergenza in arrivo dal pronto soccorso. Niente letto per te voleva dire niente poltrona letto per me. «Mi dispiace, signora, per la notte dovrà arrangiarsi come può» mi disse la caposala indicandomi l'uscita.
da Ada D'Adamo, Come d'aria, Elliot 2023