Non basta la parola
L’importanza della “parola”, centrale nella pedagogia di Don Milani, è il tema su cui vorrei soffermarmi nel mese in cui ricorre il centenario della nascita del priore di Barbiana, al quale anche per questo motivo è dedicata la nostra Agenda 2022/23, con i suoi approfondimenti mensili.
“Le parole – ci ricordava il mese scorso Monica Lazzaretto nella rubrica “Un anno con Don Milani” – costituiscono strumenti indispensabili per padroneggiare le esperienze, rendendo possibile allo stesso tempo dare un nome a cosa accade ed agire sulle esperienze stesse”. Perché abbiano tale forza, non basta usarle in modo superficiale, come purtroppo accade quando sono ridotte a slogan, senza coglierne per intero il significato, le implicazioni e il valore.
Qualche esempio che attiene alle vicende in cui siamo più direttamente coinvolti come gente di scuola. Di una scuola che continua a trovare centralità più nelle infinite polemiche di cui è oggetto, che in una positiva attenzione e nelle scelte di investimento di cui ci sarebbe tanto bisogno.
La parola “continuità” viene evocata ogni qual volta si introducono misure finalizzate a limitare la mobilità del personale docente. La pretesa è che quella parola basti da sola a giustificare, se non a nobilitare, ogni provvedimento che dichiari di assumere la continuità come fine, anche se poi ci si limita, per lo più, a vincolare in modo più o meno rigido la possibilità, per chi insegna, di chiedere un trasferimento. Non ci vuole molto, tuttavia, a svelare la superficialità di un approccio del genere. A partire dalla considerazione, addirittura banale, che la continuità, in un contesto di relazione educativa, è un valore se e quando fondata su un rapporto di intesa, di armonia, di reciproca soddisfazione: elementi mai da darsi per scontati, essendo frutto di dinamiche e fattori non tutti e non sempre presenti o prevedibili, men che meno governabili “a comando”. Se non sussiste un clima di relazioni positive, diventa assai difficile poter considerare la loro prosecuzione come utile e opportuna. Ecco perché la continuità, intesa come persistenza di relazioni positive, andrebbe in ogni modo favorita, assecondata e incentivata, non imposta forzatamente. Anche per questo sarebbe molto più ragionevole lasciare che fosse il contratto, e non la legge, a occuparsene. Per non dire dell’enfasi con cui si considerano ogni anno i numeri della mobilità dei docenti (“la giostra degli insegnanti”…), anche se sono quattro o cinque volte inferiori a quello dei contratti precari, questi sì un’autentica mina alle fondamenta per la continuità didattica.
“Selezione” è un’altra delle parole che vengono sventolate come bandierine a sostegno di politiche del reclutamento su cui hanno insistito con pervicacia governi e maggioranze di ogni colore, nonostante gli esiti fallimentari che quelle politiche hanno fin qui prodotto. Anche qui galleggiando sulla superficie della parola, inventando ogni sorta di prove che, per il solo fatto di essere “selettive”, basterebbero a garantire una probante verifica della qualità professionale di chi viene assunto. Anche quando ridotte a una batteria di quiz, soluzione il cui unico merito è di evitare squilibri, disparità e disomogeneità di comportamenti da parte delle diverse commissioni esaminatrici. Si fa fatica a capire se sia peggiore il male o il rimedio, in ogni caso ce n’è abbastanza per dubitare che i concorsi possano rappresentare di per sé una panacea. Passa invece per invocatore di sanatorie chi si chiede perché la “selezione”, anziché affidata solo alla roulette dei concorsi, non possa tener conto di quanto ogni anno avviene nelle nostre scuole, dove decine di migliaia di insegnanti precari acquisiscono sul campo un’esperienza che in ogni altro settore lavorativo troverebbe attenzione e apprezzamento, diventando il terreno privilegiato per una “selezione” condotta non in astratto, ma esaminando il concreto svolgersi di un’attività professionale. Sostenerla, monitorarla e valorizzarla significherebbe forse prendere un po' più sul serio il termine “selezione”.
“Merito” è la parola su cui da qualche mese si è focalizzata maggiormente l’attenzione, a seguito della scelta del Governo di integrare con quel termine la denominazione del Ministero dell’Istruzione (“e del merito”, dunque, dall’ottobre scorso). Non entro qui “nel merito del merito”, perché lo abbiamo fatto con un bel convegno il 2 marzo di quest’anno. E proprio con un ampio ventaglio di interventi sul concetto di “merito” abbiamo caratterizzato il primo numero della nostra rivista Scuola e Formazione nella sua rinnovata veste digitale. Vi risparmio quindi ragionamenti, considerazioni e riflessioni che potete ritrovare facilmente, con straordinaria varietà e qualità di contributi, navigando su Scuola e Formazione Web. Mi piace dire che nell’impostare in questo modo la nuova edizione della rivista abbiamo voluto proprio tentare di soddisfare un’esigenza che vorremmo fosse da tutti condivisa: quella di restituire alla "parola" la forza che possiede quando non ci si limita a evocarla, ma si cerca di coglierne appieno i significati e le implicazioni. Rendendola non “parola vuota”, ma parola viva, attraverso la quale si sviluppa un percorso di conoscenza vera e approfondita della realtà – ecco ancora la lezione di Don Milani – come presupposto indispensabile, quando occorre, per modificarla. Speriamo di riuscire nel nostro intento.