Leonarda Tola

Scelta per noi da Leonarda Tola

Strappare alla terra l’odore di mia madre

Tutta la vita è stata un esercizio per tornare al tuo corpo /caldo come la terra” … “Ogni cosa che ho visto di te, te la restituisco amata”. Sono versi di Maria Grazia Calandrone, poliedrica autrice di testi in poesia e prosa, votata alla scrittura nella certezza di ricavarne per se stessa, e per chi se ne ciba, senso, bellezza e consolazione. Senza questa impavida fede nella potenza generatrice di bene della parola scritta non le sarebbe stato possibile concepire il libro: Dove non mi hai portata. Mia madre, un caso di cronaca (Einaudi 2022): è la sua, inaudita, storia di bambina di otto mesi abbandonata dai genitori “alla compassione di tutti” in un quadrato di prato di Villa Borghese all’ingresso da piazzale Flaminio, a Roma, il 24 giugno del 1965, ore 15.30. Lucia, la madre, presentiva che qualcuno avrebbe teso le braccia a quella creaturina accogliendola per accompagnarla nella vita. Come di fatto avvenne: Calandrone è il cognome dato a Maria Grazia dall’adorata famiglia adottiva.
Il libro sulla verità delle sue origini scaturisce dall’urgenza della scrittrice di riportare al cuore e alla mente, nella trasparenza della scrittura, l’esistenza tragica della madre, nel cui grembo furono intessuti la sua carne e il suo sangue. Attraverso un’investigazione minuziosa che ha comportato l’individuazione dei luoghi, il reperimento di documenti dispersi da cercare con puntiglio negli archivi, la testimonianza di persone da convincere con ostinazione instancabile, Maria Grazia acquisisce ogni indizio e frammento di notizia utili a ricostruire i 29 anni che precedono la sua nascita.
È questo il corso temporale della vita breve di Lucia Galante: quarta figlia di contadini di Palata in provincia di Campobasso, data forzatamente in moglie a ventidue anni ad un uomo che non ama e non la ama. Erano gli anni del dopoguerra, delle regioni povere d’Italia dove si perpetuavano condizioni di arretratezza economica e di sottosviluppo culturale e sociale. Tempi e luoghi in cui a sopportare e patire il giogo patriarcale erano soprattutto le donne: “
La sposa ha il labbro spaccato. La sposa continua a non volere. È costretta a ceffoni, ma la sua volontà non è piegata. Contro la sua determinazione, il contratto è comunque siglato: utilizzo della considerevole forza lavoro e riproduttiva di una giovane femmina, in cambio dell’aumento della proprietà”.
Nel libro la vicenda di Lucia è narrata all’interno di quel contesto storico-sociale, evocato con tutta verosimiglianza: vita domestica e duro lavoro dei campi, la campagna molisana e il suo mutare nelle stagioni del grano e delle mandorle, la ristrettezza dei giudizi e i pregiudizi. L’arma letale della condanna sociale. È la storia, come un romanzo, di Lucia che si innamora riamata del muratore Giuseppe, forestiero giunto a Palata per lavoro: entrambi maritati e dunque adulteri, in attesa del frutto dell’amore proibito; perseguibili penalmente per abbandono del tetto coniugale, adulterio e concubinaggio, sono costretti a fuggire.
L’
altrove salvifico era Milano, il Nord dove i due emigranti sono invece condannati a una vita grama che non apre alcun orizzonte di un futuro insieme. Lucia cura e fa crescere la figlia fino agli otto mesi per staccarsene nel caldo pomeriggio del giugno 1965 dopo il viaggio da Milano a Roma, scelta come meta terminale. Lucia si depriva della figlia per darle una vita più degna; non abbandona la sua creatura, la consegna alla benevolenza umana, che c’è e ci sarà, nel presentimento materno di un destino migliore che si avvera. Densa di patos la ricostruzione delle ore che scandiscono la sorte della bambina “deposta” e l’immediato epilogo di morte cui vanno incontro gli sventurati genitori decisi “a pagare con la vita ciò che abbiamo fatto, o, indovinato o, sbagliato”.
Come si comprende, il libro espone persone e svela fatti e circostanze che implicano il coinvolgimento autobiografico della scrittrice, al limite dell’indicibile. Ma l’autrice, che è poeta, attinge con naturalezza a una magnifica prosa lirica trasfigurando e oltrepassando l’urto della realtà e restituendo, nella limpidezza del canto, il dolore e l’orrore. L’amore.

E salutava sempre

Una colazione rapida, fatta in piedi quando è ancora buio, mentre il cielo sta per accadere sopra la vastità della campagna. Poi, come tanti, Lucia percorre tutti i giorni quasi un'ora a piedi verso la scuola, dalla campagna passa per le contrade, entra in paese dopo chilometri di provinciale tra i campi messi a grano o girasoli, con le colline azzurre all'orizzonte.
Utilizzando le mappe disponibili in rete e incrociando dati satellitari e lineari, sono infine riuscita a individuare la copertura in ondulina di lamiera del locale adibito a fienile in masseria Galante e ho rifatto il percorso virtualmente, piú volte. Da dicembre a febbraio, sono quattro chilometri abbondanti di sterrato glaciale, fra l'erba appuntita e crespa dell'inverno e salite e discese sulla via scivolosa, o sulle crete molli di concime e pioggia. Ogni tanto, passando, Lucia stacca dal ramo una mela zitella, soda come un biscotto. Oppure, gira il viso al bel sole di marzo, quando a tutto presiede la primavera imminente e le foglie verdissime erompono dalla bituminosa

scorza invernale dei rami, cristallizzati dalle sublimazioni del vapore in brina. Mimose e mandorli sono i primi a fiorire, posano sulla sonnolenza del paesaggio macchie di giallo e rosa come un canone inverso, un contrappunto raggiante dentro il quale, tra poco, i nidi si animeranno di ghiandaie e cinciarelle che svolacchiano lievi. All'imbocco del paese, qualche struggente siepe di pitosforo. In contrada Cupariello, Lucia saluta sempre. È bella e garbata, ha tanti riccioli neri.
Lucia inizia la prima elementare nell'autunno 1946, a dieci anni e mezzo, quando la marea di sangue sparso dalla Seconda guerra mondiale si sta lentamente prosciugando, torna a gocciare nelle profondità della terra e ogni tanto risbocca come un animale in agguato, come il male.
Lucia frequenta il primo anno in paese, nella piazza del popolo, e il secondo in una delle tre abitazioni private in pietra bianca messe a disposizione della scuola, che si trovano poco distanti dalla comunale Fontanella. La sua maestra è Agnese Spetrino. Attenta, essenziale, occhi generosi e capelli lunghi, innamorata dei suoi bambini, quaranta alunni per classe.
La maestra si accorge subito quando Lucia al mattino si è svegliata tardi, perché ha dovuto prendere la scorciatoia per lo mezzo dei campi invernali e arriva in classe con le scarpe tutte infangate. A nulla vale sfregarle sugli spigoli degli scalini, Spetrino ci vede benissimo. I suoi occhi gentili dicono tutto.

Nell'edificio scolastico principale, appena salite le scale, c'è la classe cosí detta «differenziale», una di quelle riserve per bambini perturbanti che verranno abolite solo nell'agosto 1977, su iniziativa della senatrice Franca Falcucci. I «normodotati» di tutte le età vengono invece messi in un'unica classe.
In paese e in campagna non c'è acqua, per ciò a scuola non ci sono i bagni: a ricreazione viene presentato ai bambini un gran secchio di latta, dove essi, uno dopo l'altro, vuotano i visceri e il secchio viene a sua volta svuotato nei canali di scolo a bordo strada.

Riesco a rintracciare le pagelle di Lucia. I suoi voti sono tutti buoni, la materia in cui eccelle è Educazione morale, nella quale allo scrutinio finale si guadagna un bel nove. Visto com'è poi andata la sua vita, la scoperta fa sorridere amaro.

«La maestra diceva sempre a nostro padre: “Falla studiare, questa figlia, falla studiare!” Ma non c'erano soldi…».
Questa ancora la voce di zio Rocco, tanti anni dopo, quando, per tutti noi, il caso è già diventato destino.

Siccome Lucia è una ragazzina sveglia, a metà della terza elementare viene inviata alla Scuola popolare, dove potrà guadagnarsi il certificato di «studi elementari superiori» (dalla terza alla quinta).
La Scuola popolare nasce da un esperimento compiuto nelle scuole di Roma nell'anno scolastico 1946-47 e subito formalizzato dal Provveditorato agli studi, con l'intento immediato di recuperare i giovani che si sono allontanati dallo studio a causa della guerra e con quello, a più lento rilascio, di «combattere l'analfabetismo, completare l'istruzione elementare e orientare all'istruzione media o professionale» gli studenti piú promettenti. Nella Scuola popolare è infatti prevista la fornitura gratuita di libri e oggetti di cancelleria sotto forma di premi, per non scalfire in alcun modo la dignità degli alunni bisognosi.

Il nome di Lucia non appare però nei registri. Quelle scolastiche sono ore sottratte al lavoro e le autorità devono intervenire spesso, per imporre ai genitori di mandare a scuola le figlie femmine, pena il pagamento di una multa. Cosí dev'essere andata, per Lucia: onorato il minimo indispensabile, la ragazzina è stata ritirata dalla scuola ed è tornata ad attendere alla faccenda domestica.
Poiché il corso inferiore di studi elementari, che coincide coi primi due anni di studio, prevede insegnamento religioso, lettura, scrittura, aritmetica, principî della lingua italiana e nozioni base del sistema metrico, quando è costretta ad abbandonare la scuola Lucia sa certamente leggere e scrivere, sa fare conti semplici, anche se la matematica è il suo risultato peggiore.
Non ha però studiato geografia e storia nazionale, né le «cognizioni di scienze fisiche naturali applicabili principalmente agli usi ordinarii della vita» e neppure calligrafia, né le regole della composizione.
Ciò nonostante, come vedremo, scriverà.

Faccio mesi di ricerche, per avere la gioia di vedere la faccetta di Lucia bambina, esamino la moltitudine di foto dell'epoca e del luogo disponibili in rete, finché l'archivista scolastica mi fornisce due dati essenziali (anni di frequenza e nome della maestra) e, il 28 gennaio, la riconosco. È un colpo. Non c'è ombra dubbio: la somiglianza con mia figlia è miracolosa. A catena, la rintraccio nelle altre due foto.
In tutte e tre, Lucia è in piedi nell'ultima fila. I tratti distintivi sono la massa di capelli ricci raccolti da un fiocco a scoprire la fronte e le orecchie, le sopracciglia ad ala di gabbiano e l'aria resistente, già mitigata dalla brezza di un sorriso, che trasforma la sua riservatezza in qualcosa di leggero. E lo sguardo frontale, dritto nell'obiettivo.
Nella prima fotografia (10 giugno 1947), la maestra le tiene la mano sulla spalla e la bambina sembra nutrire un torvo desiderio di sparire dietro le teste delle compagne. Probabilmente è la prima fotografia della sua vita. Ma lo sguardo non cede, è spaventosamente fermo. Altre compagne sono piú disinvolte, ma le espressioni di tutte oscillano tra sorpresa e terrore, nessuna sorride.
La seconda foto è del giugno successivo, 1948, Lucia ha compiuto dodici anni da quattro mesi e appare eretta, lieve e luminosa, ha una dolcezza onesta e disarmante. In quell'anno è successo qualcosa. Dalle braccia conserte sporge l'osso del polso sinistro, la sua mano è nascosta sotto il braccio destro. Questa è l'unica traccia delle mani di mia madre.

da Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata. Mia madre, un caso di cronaca, Einaudi 2022