Un prete scomodo, urticante, evergreen
È bastato un passaggio del discorso del Presidente Mattarella per fugare un pericolo ricorrente in questi casi: la trasformazione di un personaggio e del suo messaggio in santino commemorativo. Da evocare con lacrimuccia incorporata, ma da archiviare come reliquia di un passato che fu. Il 27 maggio scorso, in occasione del centenario della nascita di don Lorenzo Milani, il Presidente Mattarella scendeva in elicottero in quel non-luogo, rimasto intatto, di nome Barbiana, nel piccolo cimitero dove il priore ha voluto essere sepolto, accanto alla canonica-scuola e al cartello I care, slogan della ragione di vita di un’esistenza e di una missione scomode, divisive, evergreen. Attuali più che mai.
Vanno al punto come meglio non si potrebbe le parole pronunciate dal Presidente il 27 maggio scorso, in apertura dell’anno centenario:
“Essere stato segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano fra noi ma, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: fare crescere le persone, fare crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia”.
Il priore di Barbiana, una vita consumata troppo in fretta e ai margini del potere e della gloria, va preso nella sua interezza: nella sua radicale scomodità, nella sua passione per gli uomini, fratelli nel comune Creatore. Le “persone” del Presidente don Lorenzo le chiama Gianni, sono moltitudini, rivendicano emancipazione, riscatto, dignità, una vita che si possa definire umana. Ci voleva un salto culturale, quindi formativo, per affrontare il nuovo mondo e le sue angosce.
La politica tradizionale aveva provveduto alla riforma del percorso formativo di base (la legge 1859/62). Non era da buttare, secondo il priore di Barbiana. Ma non era successo praticamente nulla. I Gianni continuavano a essere ignorati nelle campagne e nelle officine; nelle aule scolastiche, i loro figli, valutati “pigri” e “svogliati”, continuavano a essere bocciati. In massa. Pur esiliato nel non-luogo di Barbiana, il priore era uomo di mondo: aveva capito le potenzialità della democrazia della partecipazione e del cambiamento di paradigma, rivendicate dallo studente Mario Savio nei paludatissimi campus di Berkeley (California). In concreto, bisognava aprire le porte ai soggetti portatori del cambiamento – lavoratori dei campi e delle officine, e studenti-; contemporaneamente, era indispensabile che i Pierini si mettessero a disposizione degli altri. I care, io mi prendo cura di te, nei campi, nelle officine, nelle aule scolastiche; insieme diamo vita alla nuova politica.
Il priore conosceva bene la tradizione pedagogico-educativa di santa madre chiesa. Ma era oltre oceano, tra gli “americani migliori”, che trovava lo slogan dei tempi nuovi: I care. Passata la tempesta della pandemia, Ursula von der Leyen ha proposto di recente We care come slogan della “nuova” UE solidaristica.
Due parole ci siano consentite a proposito di Lettera a una professoressa. Come la sua vita, un testo scomodo, urticante, evergreen. La qualità della scuola, sostiene la Lettera, scritta nel nuovo italiano, quello costituzionale e repubblicano, non dipende dalle riforme, dal sistema, ma dalla qualità della relazione docente-discente. Meglio, nel nuovo ordine repubblicano e costituzionale, discente-docente.
Se ne potrà parlare a lungo, ovviamente, e anche noi lo faremo; qui e ora mi preme dire parole di verità: nel nostro piccolo abbiamo tentato di seguire le orme del priore di Barbiana. Eravamo giovani, inesperti e anche presuntuosi: ma quel decennio di scuola sperimentale del tempo pieno sono stati i più intensi, fecondi e gratificanti della nostra vita. Nel prendersi cura degli altri avviene che siano gli altri a prendersi cura di te.