La burocratizzazione della memoria
Recentemente la senatrice a vita Liliana Segre è intervenuta in una conferenza pubblica sulla programmazione della giornata della memoria a Milano affermando, con il suo solito garbo e l’altrettanto solita determinazione, che ormai la gente è stufa di sentire parlare della tragedia degli ebrei. A lungo andare l’inondazione di film, romanzi, racconti, testimonianze sulla Shoah ha avuto, a suo (pessimistico) giudizio, l’effetto di rendere insofferenti le persone. Non una reazione di negazione – per quanto, come ben sappiamo, non mancano anche queste voci (che rimangono però largamente minoritarie) – ma una resistenza, una saturazione diffusa, in qualche caso un fastidio verso la pubblica e costante esibizione del dramma. La senatrice Segre ha chiosato affermando che, così procedendo, sulla Shoah “tra qualche anno ci sarà una riga sui libri di storia e poi non ci sarà nemmeno più quella”. Sarà un’esperienza, di fatto, sottratta alla coscienza pubblica o addirittura alla conoscenza storica (qui il giudizio di marginalità futura mi pare eccessivamente pessimistico).
Non è la prima volta, naturalmente, che si riflette sulla questione. Le opere di sensibilizzazione su questo od altri temi possono incorrere, alla lunga, in una sorta di effetto stanchezza, divenendo un refrain, un leitmotiv che progressivamente perde di efficacia e di mordente.
Il pessimismo delle parole della Segre sembra però alludere a qualcosa di più. A monte di tutto c’è da considerare la paradossale condizione di una ultranovantenne sopravvissuta ai campi di concentramento costretta a girare con la scorta a causa delle minacce di morte subite. Un assurdo della storia. Uscire vivi da un’esperienza di sterminio per ritrovarsi a rischiare nuovamente la vita a causa del ruolo di testimone storico di quella medesima esperienza. In questo paradosso c’è tutta la gravità della situazione attuale.
L’amarezza per la condizione personale è però, appunto, solo la base di partenza. A sviluppo di questa vi è, temo, il limite d’efficacia, il punto di saturazione, proprio dell’azione formativa. È il processo di alfabetizzazione sui diritti umani ad essere entrato in difficoltà, perché inserito dentro un contesto sociale disfunzionale. La Shoah rappresenta il culmine della brutalizzazione (per dirla con le parole dello storico George Mosse) della politica novecentesca ed è certamente un unicum per modalità e progettazione dello sterminio. Ma al tempo stesso essa incarna al massimo grado l’esperienza storica della privazione dei diritti fondamentali – e dell’essenza stessa – dell’uomo (immediata è, in questa direzione, l’evocazione dell’opera di Primo Levi). Il campo di concentramento nazista ha significato il dominio totale sull’uomo e, in ultima istanza, il disconoscimento dell’umano. È l’universo concentrazionario di cui ha scritto Hannah Arendt. Testimoniare l’orrore della Shoah equivale a educare ai diritti dell’uomo intesi come base costitutiva – direi mai negoziabile, con tutto il peso che la parola implica – della convivenza civile. Si testimonia cioè al tempo stesso un’esperienza storica concreta e una condizione astorica dell’essere umano (o meglio una visione dell’uomo che, nel corso della storia, si è affermata come universale e atemporale).
Il lavoro sulla memoria del più estremo progetto antisemita che la storia abbia conosciuto contribuisce, dunque, ad affermare più o meno implicitamente una visione dell’uomo che è però entrata in crisi. Un paradosso, se consideriamo che si è nell’era dell’espansione individuale dei diritti. Ma è quest’ultima un’espansione egoarchica. Mentre i pregiudizi, i miti, gli stereotipi nei confronti dell’altro da sé permangono, spesso intatti e impermeabili a qualsiasi processo di formazione e acculturazione. Clamoroso è il caso nell’opinione pubblica europea e internazionale della palese disparità di trattamento – innanzitutto emotivo, empatico – riservato ai profughi ucraini o a quelli provenienti dall’Africa e dall’Asia. Commozione, mobilitazione, consenso per i primi; indifferenza e ostilità per i secondi.
Le giornate della memoria corrono così il rischio di burocratizzarsi, di succedersi annualmente come una ricorrenza retorica, incolore, banalizzata, un tributo dovuto ma scarsamente sentito e, appunto, burocratico. Se occorre fermamente evitare di disancorare la tragedia della Shoah dal contesto storico che l’ha prodotta (ricordare per non dimenticare ciò che è stato), altrettanto cruciale appare cercare l’uomo dietro l’evento storico (ricordare per evitare che ciò che è stato possa ancora essere) per educare le coscienze a una visione umanistica e universale dell’uomo. Nell’ebreo della Shoah c’è tutta l’umanità perduta. Nella memoria della Shoah c’è tutta l’umanità da preservare.