Avrai diritto al silenzio, alla distrazione, alla disconnessione
Quanta pace
trova l’anima dentro
scorre lento
il tempo di altre leggi
di un’altra dimensione
e scendo dentro
un oceano di silenzio
sempre in calma
Franco Battiato
Oceano di silenzio
“Prof, è caduta la connessione”. Quante volte durante la didattica a distanza i ragazzi e le ragazze hanno pronunciato questa frase? Verità o bugia? Davvero il wi-fi aveva giocato un brutto scherzo oppure questi giovani avevano soltanto bisogno di una scusa per disconnettersi, per riposarsi, per pensare ai fatti loro? E nel secondo caso, sarebbe stato giusto punirli? E quante volte in realtà la disconnessione avviene anche in classe, quando un ragazzo è presente fisicamente ma è lontano anni luce da noi e da quello che gli stiamo proponendo? Una delle lezioni che la scuola dovrebbe trarre da questi difficilissimi anni che abbiamo attraversato dovrebbe proprio essere quella legata al diritto alla pausa, al silenzio, alla distrazione.
Iniziamo proprio dal silenzio, che sembra essere sempre più una merce rara in questo mondo nel quale tutto fa rumore, tutti parlano, il diritto a dire la propria opinione è sempre diventato quasi un dovere per cui stare zitti è uno degli esercizi più difficili che un essere umano possa compiere. Mario Lodi, per descrivere il particolare silenzio della classe quando i bambini sono in attesa della parola del maestro o di un loro compagno che possa far nascere un gioco o un apprendimento, usa l'espressione “silenzio caldo come un fuocherello”. È vero, ci sono silenzi caldi e silenzi freddi, c'è il silenzio gelido del complice, di chi non vuol vedere le ingiustizie, di chi ha paura di esprimersi ma c'è anche il silenzio caldo di chi sa ascoltare, di chi si pone di fronte all'altro tacendo perché ha capito che in quel momento il fulcro dell'azione non è necessariamente centrata su di sé.
Gli insegnanti chiedono ai ragazzi di fare silenzio: ma essi sono capaci di tacere? Sanno mostrare con l'esempio quanto sia importante fare silenzio nel momento in cui si vuole che qualche cosa nasca? Sanno tollerare il silenzio di un ragazzo quando gli pongono una domanda, oppure lo interpretano immediatamente come segno di non studio (un po’ come in un quiz televisivo nel quale si deve rispondere entro tre secondi)? Un antico Vangelo apocrifo narra che quando Gesù stava per nascere tutto il mondo ha trattenuto il fiato, il tempo s’è letteralmente fermato, si è creato un silenzio universale. Qualcosa del genere può accadere anche nelle nostre classi, il problema però è saper tollerare il silenzio, sapere che il silenzio non è necessariamente assenza di parola, non-detto, ignavia ma è il tepore di un grembo da cui può nascere qualcosa di davvero importante: il problema e che la nascita ha i suoi tempi, i suoi ritmi, e non può essere forzata.
Non posso dimenticare il silenzio totale protratto per dieci minuti che i ragazzi e le ragazze del Liceo di Soverato hanno fatto insieme a me in un incontro qualche anno fa. Trecento adolescenti che gustavano il silenzio assoluto, nella bellezza dei rumori che si sentivano distanti ma anche nella difficoltà di mantenere questo silenzio finché una ragazza si è presa la responsabilità di interromperlo pronunciando il termine “parola”. Un sostantivo che ha avuto rilievo proprio sullo sfondo di quel silenzio protratto e mantenuto, una parola che ha assunto significato proprio perché non si è persa nella chiacchiera del rumore quotidiano.
Ma il silenzio a scuola ha anche un’altra dimensione, quella della tutela della privacy dei ragazzi. Tropo spesso infatti con la scusa della narrazione (che ovviamente di per sé è un eccellente strumento pedagogico) si estorcono agli studenti storie personali e private che dovrebbero essere trattate con cura, o anche taciute. Abbiamo già detto come domande quali “racconta una bugia che hai detto ai tuoi genitori”, “racconta di quella volta nella quale hai avuto paura” non abbiano senso, perché l’istigazione alla narrazione in realtà fa violenza al racconto. Insegnare ai ragazzi a raccontare significa saper tollerare il loro silenzio, come capita al padre dell’adolescente che torna da scuola: “Com’è andata?”, “Bene?”, “Cosa avete fatto?”, “Niente” … quanta comunicazione c’è in questo gioco verbale, quante parole ci sono nel silenzio del sedicenne che sta tutto il giorno chiuso nella propria cameretta e non rivolge la parola al genitore nella stanza accanto!
Il silenzio è rispetto, attenzione per l’altro. Per questo riteniamo che a scuola e altrove, l’ascolto di una testimonianza di dolore non debba necessariamente essere seguito da un dibattito; sarebbe molto più utile contenere il dolore ascoltato, portarlo con sé nel silenzio, salutare educatamente l’ex deportato o la donna sfruttata e poi avere successivamente uno spazio per la eventuale socializzazione. Diciamo “eventuale” perché la socializzazione non può essere mai imposta o prescritta, deve sempre essere sollecitata e resa possibile ma deve sempre essere prevista anche la possibilità della sottrazione, del silenzio, dello stare in disparte.
E della distrazione. Perché oltre alle pause prescritte (gli intervalli, i cambi dell’ora, quel momento assolutamente magico che è l’“ora buca” – e già nel nome che le abbiamo dato si vede quanto poco ne capiamo l’importanza educativa), i ragazzi hanno bisogno di costellare la giornata di pause proprie, di momenti di distrazione, che in senso letterale significa attivazione di un pensiero che va altrove, di quel famoso pensiero laterale di cui tanto si parla ma che forse si tollera ben poco nelle nostre scuole.
La sfida dunque è insegnare ai ragazzi a prendersi le loro pause personali senza disturbare gli altri, cioè a compiere quelli che il sociologo Erwing Goffman definiva “esercizi di distanziamento o di disimpegno” che permettono di mantenere una più alta concentrazione nel momento successivo ma anche di seguire pensieri personali che possono portare a un contributo innovativo alla lezione e alla discussione.
Questo però è possibile solo ridefinendo i tempi della scuola, perché se all'interno dell'aula scolastica penetra quella sensibilità tipicamente fordista per cui ogni istante deve essere finalizzato a scopi produttivi e ogni momento deve essere calcolabile e contabilizzate, è del tutto ovvio che le pause possano venire vissute soltanto come granelli che inceppano un ingranaggio. Dire che la scuola è il tempo dell'ozio può sembrare una provocazione, ma solo per coloro che non capiscono quanto l'ozio sia fondamentale come spazio di riflessione, di contemplazione, di analisi di sé e del mondo. L’ozio non è pigrizia, ma messa tra parentesi del chiasso del mondo e del suo rumore di sottofondo per trovare quel silenzio fondamentale per la concentrazione e soprattutto per la critica.
La cura di sé, così importante per i ragazzi soprattutto in questi anni pandemici (sempre più analisi mostrano che i ragazzi dopo i lockdown fanno fatica a reimparare a lavarsi e a mantenersi puliti, perché le chiusure hanno eliminato per molto tempo quella dimensione sociale che si dà solo nella prossimità fisica) non può non passare anche per il diritto a “essere lasciati in pace”, o perlomeno a ritagliarsi quelle che Marco Revelli chiama “polmonature”, spazi di respiro tra sé e il mondo; o perlomeno, se non è chiedere troppo, tra un’ora e la successiva, in modo che i ragazzi non debbano passare in pochi secondi dalle equazioni alla morte di Napoleone. Nessun essere umano può garantire una concentrazione totale per sei ore, soprattutto se ad essa deve essere affiancato l’obbligo di rimanere seduti a guardare davanti a sé. E il fatto che ancora nelle scuole alcuni insegnanti utilizzino gli intervalli come armi di ricatto e strumenti di punizione (“siccome siete stati rumorosi farete l’intervallo in classe, seduti ai banchi”) fa capire quanta strada ancora ci sia da percorrere per giungere all’idea di una scuola nella quale il benessere dei ragazzi non sia solo uno slogan.
In generale ci sentiamo di affermare che il tempo che dedichiamo al passaggio dolce tra un argomento e l’altro, alla contrattazione delle pause, alla valorizzazione dei pensieri laterali che ci vengono dai ragazzi e che portano la lezione su un itinerario imprevisto, tutto questo tempo ci ritornerà potenziato nella qualità dell’apprendimento. E in felicità; che di certo non guasta, anche se purtroppo troppe persone pensano che questo termine e la parola “scuola” non possano convivere nella medesima frase.