Ivana Barbacci

Feste di liberazione

Come il Natale, ma forse ancor di più, anche la Pasqua andrebbe ricondotta al suo significato autentico, ridotta com’è, molto spesso, a una sorta di celebrazione della primavera irrompente, in un tripudio di fiori che sbocciano e uova che si schiudono, che ha ben poco a che fare col senso vero della festività.
Quello che avverto e tento di esprimere è un desiderio, un bisogno che non penso riguardi solo i credenti, i quali ritrovano nell’evento celebrato uno dei fondamenti principali della loro fede. Se per loro la resurrezione del figlio di Dio è il compimento di una promessa di liberazione dalla schiavitù del peccato, l’annuncio di una speranza che vince la morte e la trasforma in passaggio, anche ai non credenti il vivere e il morire dell’uomo Gesù consegnano un messaggio capace di rimanere impresso nelle loro coscienze e di orientarne i percorsi di vita. Quel Dio che sceglie di condividere la condizione umana lo fa accettandone fino in fondo gli esiti più dolorosi: trattato alla stregua dei malfattori, viene mandato a morte insieme a loro, e la sua condanna, la condanna di chi ha invitato ciascuno ad amare il prossimo come sé stesso, viene decretata “a furor di popolo”.
Serve la fede, per credere nella Resurrezione; ma quella croce parla da duemila anni a tutti, segno di un’umanità che da allora tante altre volte è stata crocifissa: dall’ingiustizia, dall’egoismo, dall’indifferenza. Anche oggi è una croce, ricavata dai rottami di un’imbarcazione affondata, a proporsi come segno unificante di pietà, ma più ancora come richiamo all’impegno responsabile perché tragedie simili non abbiano a ripetersi.

Crocifisso sul palo del telegrafo” è l’immagine cui Salvatore Quasimodo ricorre in una breve e struggente lirica, Alle fronde dei salici, scritta poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, per descrivere l’orrore più grande che si possa immaginare, quello di una madre davanti a un figlio ucciso, in cui si riassume la tragedia generata dal lungo “sonno della ragione” durato più di vent’anni con l’avvento del Fascismo. Un orrore che toglie il fiato e la parola e di fronte al quale la stessa poesia è ridotta all’impotenza.
Si può ben dire che anche il 25 aprile venga celebrata, in fondo, una resurrezione: quella di un popolo privato della libertà, trascinato nella catastrofe di una guerra sanguinosa, dopo aver conosciuto la vergogna delle leggi razziali, premessa alla complicità attiva in crimini orrendi. La lotta di liberazione, col suo carico di sofferenza e di morte, è il passaggio attraverso il quale il popolo italiano riscatta la sua dignità, ferita e tradita nelle manifestazioni di acquiescenza che purtroppo non mancarono nei confronti del regime. La folla che acclama sotto al balcone di piazza Venezia da cui si annuncia l’entrata in guerra dell’Italia ne è l’emblema, e resta come monito inquietante per chi – e dovremmo essere tutti – vorrebbe considerare definitivamente chiusa e irripetibile una pagina così indegna della nostra storia.
Per ragioni evidenti, sottolineate con lucidità e pacatezza da Paolo Acanfora su questo numero del nostro mensile, il 25 aprile di quest’anno è un’occasione importante per capire se la festa della Liberazione, spesso vissuta come una “data contesa”, possa essere quella in cui si celebra un’idea d’Italia da tutti condivisa. Perché ciò sia possibile, occorre il massimo della chiarezza rispetto al significato da riconoscere alla Liberazione dal Fascismo, e alla sua sconfitta come atto fondativo della nostra repubblica democratica. Chiamare le cose col loro nome, evitare ambiguità inammissibili, diventa oggi doveroso perché sia davvero, come dev’essere, la festa di tutti.