“Mi preoccupa la stupidità umana”
In un Paese come il Messico, desgraciado, tierno y feroz, siempre enfermo de sí mismo, sfortunato, tenero e feroce, sempre ammalato di sé stesso, la parola revolución godeva di un fascino innegabile. I rivoluzionari erano personaggi affascinanti: una miscela di carisma, audacia, virilità e naīveté. In verità, Pancho Villa aveva cercato di giocare la carta della democrazia, cioè del rispetto delle istituzioni e delle regole del gioco. Mal gliene incolse. “me enamoré de la democracia”, sussurrava sorridendo mentre raccontava le vicende della sua prigionia, “pero [la democracia] es una mujer que paga mal”, è una donna che ricompensa malamente (A. Pérez-Reverte, Revolución).
Eravamo giovani, facili agli entusiasmi per le buone cause; affascinanti, e molto, apparivano le due ultime rivoluzioni latinoamericane: quella de los barbudos di Fidel, di suo fratello Raúl, dell’asmatico medico argentino Errnesto Guevara, detto El Che (pronuncia El Ce), del popolarissimo Camilo Cienfugos (“¿Voy bien, Camilo?”, era solito domandargli il logorroico Fidel nei suoi discorsi fiume en la Plaza de la Revolución dell’Avana) del gennaio del 1959 e, vent’anni dopo (aprile del 1979), la rivoluzione sandinista di Daniel Ortega (Nicaragua). La prima rientrava nella sempiterna lotta tra Davide (la piccola Cuba) e Golia (gli USA), tra l’ordinario e il sovrumano, mentre nella seconda spiccava, nella composizione del primo governo rivoluzionario, la presenza di quattro sacerdoti, tra cui il grande poeta Ernesto Cardenal (allievo di Thomas Merton nella trappa del Kentucky). Una partecipazione clericale al potere assolutamente indigesta al Papa polacco Giovanni Paolo II.
Eravamo giovani allora; e, parlo per me, troppo “distratto” per capire che si trattava della lotta per l’oggetto del desiderio di sempre: il potere. Assoluto e personale; tutto il resto, la lotta all’imperialismo yankee (“Yankees, go home”!) e a favore dell’emancipazione delle minoranze e dei popoli dallo sfruttamento erano, come si diceva allora, semplici “foglie di fico”. Incapaci di coprire le usuali magagne umane.
“Distratto” è un aggettivo virgolettato, nell’accezione di W. Szymborska. “Ieri mi sono comportata male nel cosmo. / Ho passato tutto il giorno senza fare domande, / senza stupirmi di niente. / Il mondo potrebbe essere preso per un mondo folle, / e io l’ho preso solo per uso ordinario. / Il savoir-faire cosmico esige qualcosa da noi: / un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal, / e una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote” (“Disattenzione”, 2006).
Non ci voleva molto per capire che le rivoluzioni e, più in generale, la politica, non possono mantenere le promesse. È loro natura promettere l’utopia, un non luogo di questo mondo. Nell’anno dell’ingresso de los barbudos nell’Avana ubriaca di futuro (il 1959), V. Grossmann, un celebrato corrispondente della Guerra Patriottica, consegnava alle autorità sovietiche le bozze di “Vita e destino”, una critica senza veli del regime sovietico. Evidentemente tutt’altro che “riscattato e riformato” dall’avvento al Cremlino di Kruscev, un contadino ucraino sanguigno e birichino, appassionato di testate nucleari con cui amava andare per il mondo, minacciandone la riduzione in cenere (M. Hastings, “Abyss. The Cuban missile crisis 1962”, 2022). Eppure, quel libro non si poteva pubblicare: perché i libri, spiegavano gli zelanti funzionari, sono come dinamite, “con la differenza che la dinamite esplode una sola volta, un libro può esplodere migliaia, milioni di volte”.
Ne è scivolata di acqua sotto i ponti da allora; si supponeva che l’umanità avesse imparato a essere meno “distratta”. E allora stupisce la meravigliata delusione esibita, con il linguaggio corporeo e con le parole, dal famoso giornalista, invitato a esprimere il suo parere sul naufragio di Cutro. Non voluto, (forse); certo, non evitato come si sarebbe dovuto. “Sono deluso”, recitava con aria compunta la famosa ex firma di “la Repubblica”, oggi direttore di un importante giornale nazionale; “mi aspettavo un comportamento diverso da parte della Presidente del Consiglio: una donna, una madre, una cristiana”. E via con i ritornelli – stucchevoli nel quadro di una dichiarata politica di respingimento della migrazione clandestina – delle leggi del mare, delle leggi internazionali, della politica umanitaria e umanista
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I vincitori delle ultime elezioni non hanno mai smesso di “litigare” con la cultura e la visione del mondo del secondo dopoguerra (la Liberazione, la Costituzione repubblicana, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, i diritti civili e sociali). Il ministro degli Interni, il frontman della danza governativa in materia di migrazione, ha diviso, non tanto tempo fa, i clandestini in “aventi diritto” e in “carichi residuali”; e l’altro giorno non ha esitato a colpevolizzare le madri dei piccoli morti nel naufragio di Cutro. “Non sa parlare”, “meglio se stava zitto”, i commenti di una stampa devitalizzata; comunque, il frontman non è mai stato smentito. Non sembri una forzatura sottolineare come questa maggioranza niente abbia a che fare con l’amicizia sociale, teorizzata da Papa Francesco in “Fratelli tutti”: “L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti”.
“In un momento afflitto da dubbi e tentennamenti”, ha scritto il giovane giallista svizzero Joël Dicker (“Il caso Alaska Sanders” ha dominato la classifica dei libri più venduti in Italia nell’afosissima estate dello scorso anno), “non c’è cemento più forte della letteratura per permettere di trovare noi stessi e di comprenderci a vicenda”.
Per Mario Vargas Llosa – ha forse bisogno di una presentazione? – le parole sono armi puntate al bersaglio grosso: dicono quello che intendono dire. Il grande scrittore peruviano-spagnolo può parlare a ragion veduta di America e di Europa: là e qua ha speso la sua lunghissima vita (il prossimo 28 marzo saranno 87!): “Mi preoccupa la stupidità umana che”, ha dichiarato a una testata italiana in questi giorni, “lasciandosi sfuggire meravigliose opportunità di condurre una battaglia vittoriosa contro la fame, la povertà o la discriminazione, a favore della convivenza, della pace e della cultura, continua a praticare il fanatismo, l’intolleranza e il razzismo e tutte le altre fonti di infelicità”.
L’umanità, dunque, non è affetta da una passeggera “distrazione”, ma dalla “stupidità”: la madre di tutte le infelicità. Come dimostrato ad abundantiam dalle vicende della tormentatissima prima parte del secolo scorso. Dunque, come ieri e come sempre, il nostro primo dovere è quello di denunciare. Di non girare la testa altrove. Di non camuffare la realtà con parole melliflue.