In questa pagina:
Pensieri a voce alta: La gentilezza non è più una virtù? (Ivana Barbacci)
Identità CISL: "Fuori dal cerchio" (Francesco Lauria)
La scuola è viva. W la scuola: Formazione professionale, una risorsa da valorizzare (Elio Formosa)
Hombre vertical: Tra paura e speranza (Emidio Pichelan)
Storia contemporanea: La violenza politica (Paolo Acanfora)
Un autore: Se… casca il mondo (Leonarda Tola)
Autobiografie scolastiche: Klaus Mann (Mario Bertin)
Zibaldone minimo: Attesa (Gianni Gasparini)
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PENSIERI A VOCE ALTA
La gentilezza non è più una virtù?
di Ivana Barbacci
Possono camminare insieme energia e gentilezza? La forza, per essere tale, dev’essere necessariamente aggressiva? Il mite, in attesa di ereditare la terra, è destinato fatalmente a soccombere ogni giorno di fronte alla prepotenza e all’arroganza? Sembra quasi paradossale porsi questi interrogativi mentre ci giungono ogni ora le immagini terribili di una guerra in atto da due mesi a meno di duemila chilometri dai nostri confini, esposta al rischio di degenerare in un’immane catastrofe globale. Una guerra che sotto l’ipocrita eufemismo di “operazione militare speciale” nasconde il carattere di vera e propria aggressione a un popolo libero, per ragioni che è necessario cercare di capire, ma che non possono essere fatte valere, in ogni caso, come attenuante e men che meno come giustificazione di un comportamento che viola le regole fondamentali di una convivenza pacifica.
Nella discussione, aperta e articolata, sulle vicende che stanno insanguinando l’Ucraina è normale che si confrontino letture e valutazioni diverse, che mai tuttavia dovrebbero prescindere dalla presa d’atto di un fatto incontrovertibile, nel quale è di solare evidenza chi abbia svolto il ruolo dell’aggressore e quali siano il paese e il popolo aggrediti.
Confesso che in troppe occasioni mi pare che le argomentazioni spese da chi invoca il ripudio della guerra, di per sé indiscutibile in linea di principio, coprano a fatica il rifiuto di ammettere questa elementare e fondamentale verità. Ecco perché le parole pronunciate pochi giorni fa dal Capo dello Stato, nel corso delle celebrazioni del 25 aprile, sono state ancora una volta preziose e illuminanti, un chiaro punto di orientamento per chi intende perseguire una pace che non sia sinonimo di cedimento alla sopraffazione.
Che tali affermazioni provengano da un uomo come Sergio Mattarella, persona mite e pacata, che fa della compostezza il connotato più evidente del proprio stile, è la dimostrazione di come questo modo di porsi conferisca alle parole ancor più forza e autorevolezza, come già avvenuto in momenti cruciali dell’altra drammatica esperienza recentemente vissuta, quella della pandemia, col fermo richiamo del Presidente ai comportamenti necessari per fronteggiarla in modo efficace. Una figura, quella di Mattarella, che si staglia in evidente, positivo e piacevole contrasto con la sguaiatezza dilagante nel dibattito politico e in generale pubblico, riflesso di un’impronta analoga che sempre più caratterizza le relazioni interpersonali nelle nostre comunità e di cui il linguaggio dei social diventa molto volte il riflesso.
Non so quanto possa reggere un collegamento del genere tra aspetti che possono apparire fra loro molto distanti, ma credo che l’affermazione di una cultura della pace, cosa ben diversa dal “pacifismo dell’ultima ora” in nome del quale si maschera un’equidistanza di fatto tra aggressori e aggrediti, passi anche dal modo con cui ognuno di noi si relaziona col suo prossimo, dallo stile con cui sostiene e cerca di far valere le proprie ragioni.
Vale anche per chi è chiamato a esercitare funzioni di rappresentanza, col preciso mandato di affermare e promuovere, assieme al punto di vista, anche attese e interessi dei propri rappresentati. C’è modo e modo di farlo, e io penso che lo si possa fare, che lo si debba fare nel segno di una “gentilezza” che non indebolisce, ma rafforza le possibilità di essere ascoltato per chi sceglie quel modo di porsi.
Can che abbaia non morde, ci rammenta con sintesi efficacissima l’antica saggezza popolare: eppure quanti, e quante volte, si illudono che per dar più peso alle proprie ragioni basti solo alzare il volume e il tono della voce!
L’elogio della gentilezza, che vorrei tornasse a essere considerata una virtù, segno di forza e non di arrendevolezza, da far valere in tutte le relazioni a partire da quelle interpersonali, è il pensiero a voce alta che vorrei consegnare alla nostra comune riflessione. Forse mi illudo, ma sono convinta che possa essere anche il modo di dare un nostro concreto e tangibile contributo ad affermare quella cultura di pace di cui sentiamo tutti un disperato bisogno.
IDENTITÀ CISL
"Fuori dal cerchio"
Dalle 150 ore per il diritto allo studio agli apprendimenti nel tempo presente (1972-2022)
di Francesco Lauria
1. Un inquadramento storico
Le 150 ore vennero discusse per la prima volta quasi cinquanta anni fa, alla fine di settembre del 1972, durante un’assemblea nazionale a Genova delle sigle metalmeccaniche FIM FIOM UILM (ancora non era stata costituita l’FLM unitaria) nella quale si delinearono le linee contrattuali in vista del rinnovo del CCNL(1).
Il nuovo “diritto allo studio per gli operai” fece molta strada rispetto all’idea originaria di Bruno Trentin, Franco Bentivogli, Pippo Morelli, Giorgio Benvenuto che si rifaceva all’esperienza francese del bonus orario per la formazione professionale e che prevedeva permessi retribuiti per lo studio dei lavoratori.
Esse nacquero a latere delle discussioni sul tema della necessità del superamento del basso livello di scolarizzazione dei lavoratori italiani, a partire dai lavoratori immigrati dal Sud, dal Mezzogiorno stesso, dalle donne.
Il sindacato, nel cominciare a ragionare in questo senso, si trovò di fronte l’importante e diffusa esperienza delle scuole popolari e, in particolare, la più importante di esse: la scuola di Barbiana di Don Lorenzo Milani.
Nelle scuole popolari si preparavano ragazzi e ragazze, ma anche adulti e si cominciava ad assistere a una sperimentazione interessante sul piano dei programmi: dal recupero di conoscenze di base fino allo sviluppo, come ha ricordato Bruno Manghi di: “una pedagogia mobilitante e dell’utilizzo su larga scala del lavoro di gruppo”(2).
La svolta si ebbe tra il 1972 ed il 1973, quando la neonata FLM concretizzò la proposta di inserire nel proprio contratto collettivo nazionale di lavoro una clausola riguardante il diritto allo studio, la cui gestione e programmazione fosse assegnata collegialmente a sindacati e aziende.
Ai metalmeccanici, per primi, fu così garantita per l’anno scolastico 1973-1974 la possibilità di usufruire di 150 ore totali di permessi, distribuite nell’arco di un triennio, ma spendibili anche in un lasso di tempo più breve, per perfezionare la propria educazione in corsi che avessero una durata complessiva almeno doppia.
Lo strumento, riconosciuto nel gennaio del 1974 anche dal Ministero della Pubblica Istruzione, si diffuse in numerosi altri settori e categorie, portando circa un milione e mezzo di lavoratori e lavoratrici italiane al conseguimento del titolo di studio della scuola media inferiore.
Le 150 ore sono state una forma di risparmio contrattuale: una quota di salario che andava in un’altra direzione, un «investimento contrattuale», di cittadinanza che non aveva, tra i propri obiettivi, il mero conseguimento del titolo di studio.
Esse si inseriscono in un percorso negoziale più ampio, non fermandosi ai soli aspetti salariali ma inserendoli nel quadro storico dell’emancipazione popolare italiana.
Un diritto non esigibile automaticamente: all’inizio, la maggioranza dei lavoratori ne era consapevole blandamente, per questo grande rilievo ebbero i delegati sindacali che dedicarono anni alla promozione delle 150 ore, trasformando un istituto contrattuale in un’esperienza peculiare e diffusa.
I delegati non si limitavano a iscrivere il lavoratore, curavano anche il rapporto con gli insegnanti, seguivano con attenzione lo svolgimento dei corsi e il passaggio delle esperienze tra i lavoratori iscritti e quelli in procinto di iscriversi.
Rispetto ai programmi fu importante riuscire a trovare una mediazione intelligente tra il rischio di organizzare una scuola di propaganda e il timore, altrettanto presente, di non saper valorizzare la specificità adulta dell’utenza dei corsi.
La metodologia adottata venne riassunta con lo slogan «dalle storie alla storia»: si utilizzava il lavoro di gruppo, senza annullare l’insegnamento teorico, ma lavorando in una modalità che era intrisa inevitabilmente della vicenda umana delle persone, dei lavoratori e delle lavoratrici che erano in classe.
Significativo fu l’impatto sui sindacati scuola, in particolare nella Cisl, di questa esperienza.
Ha raccontato l’ex segretaria generale del SISM CISL Lia Ghisani: “Erano anni in cui la scuola, specie nelle città di provincia, era ancora un’istituzione chiusa e fortemente autoritaria: i collegi dei docenti a volte preferivano non esprimersi nemmeno su ciò che era di loro competenza e demandarlo al preside: anche nei grandi istituti tecnici delle città del Nord il rapporto con il mondo del lavoro era totalmente inesistente. In questo senso – continuava Lia Ghisani – proprio per le caratteristiche ambientali, il protagonismo operaio sull’organizzazione e sul contenuto dei corsi si è nel tempo diluito su come gestire al meglio i corsi stessi, con un significativo protagonismo dei sindacati scuola”(3).
Il dato di realtà su cui l’intero movimento delle 150 ore si dovette confrontare fu il non pieno successo di produrre, attraverso di esse, un intervento più generale e profondo nel sistema della scuola e dell’istruzione italiana. Riprendendo sempre una definizione di Bruno Manghi è possibile affermare che le 150 ore costituirono un «grande balzo» in qualche misura interrotto.
“Anche se – ha raccontato sempre Ghisani – io non sottovaluterei lo straordinario senso della battaglia delle 150 ore rispetto all’istituzione scuola. C’era uno straordinario clima culturale e sociale che la rese possibile, ma la scommessa di realizzare questo spezzone di educazione degli adulti nella scuola pubblica di Stato, è stata geniale e coraggiosa anche proprio per gli effetti cha ha avuto nella scuola”.
Il fatto che la memoria di questa esperienza si sia in parte perduta è legato alla ragione che essa fu una pratica costruttiva: si ricordano, più facilmente gli aspetti di conflitto, rispetto alle dinamiche collaborative. In questo oblio non sono coinvolte solo le 150 ore, ci sono altre esperienze: si pensi al lavoro comune tra il sindacato, delegati e cliniche del lavoro, in tema di nocività e salute e sicurezza.
Una riflessione sul «declino» delle 150 ore: nel passaggio dalla fabbrica al territorio, le esperienze migliori si sono trasferite all’azione degli enti locali, ai corsi per stranieri, ma il sindacato non ne è stato più protagonista, in particolare a livello categoriale, assecondando l’indebolimento complessivo del sistema e mancando nel raccordo con le istituzioni.
2. Ricostruzione «di senso» e 150 ore del futuro
E oggi? Quali echi delle 150 ore in quella che, all’inizio degli anni 2000, veniva definita, un po’ pomposamente, la “società della conoscenza” e che vent’anni dopo si confronta con la sfide della pandemia e della guerra in Europa?
La pandemia ci ha dimostrato, ancora una volta, che in un momento di crisi, non si può che spingere sulla “relazione”, sui “patti di comunità” che intrecciano impresa e territorio, sulla ricerca di nuove sinergie e supporti reciproci.
A fronte di un sistema delle imprese che deve ripensare in buona parte la propria domanda formativa ed enti di formazione che propongono troppo spesso corsi già sperimentati e ripetitivi, la scommessa sta nella rigenerazione complessiva del sistema della formazione in Italia e nel suo collegamento con gli strumenti del welfare e con il mondo della scuola.
Le 150 ore meriterebbero oggi di essere incrementate anche nella quantità. Esse sono il frutto di una stagione che le ha inventate come strumento di inclusione sociale, ma in un contesto di percorsi di istruzione, qualificazione, apprendimenti spesso situati in specifiche (per quanto in alcuni casi “ritardate”) fasi della vita e con il riferimento, maggioritario anche se certo non totalizzante, del conseguimento di un titolo della scuola dell’obbligo.
Tornare a guardare alle 150 ore anche in un’ottica di formazione continua, mantenendone inalterato lo spirito e le idee forza, richiede di avere a disposizione una dote di tempo per il diritto allo studio al fine di affrontare lo sviluppo del percorso lavorativo e di cittadinanza.
Va valutata una fruizione individuale che non escluda una dimensione collettiva nell’ambito di diversi obiettivi di fondo: dall’investimento sulle competenze individuali non necessariamente professionalizzanti, a percorsi di formazione interna e reskilling, fino a strumenti che intreccino l’outplacement nell’ambito delle ristrutturazioni aziendali e in affiancamento agli assegni di ricollocazione.
L’occupabilità, come ben ci ha spiegato Amartya Sen, non deve ricadere sulle spalle del singolo lavoratore, ma è una sfida di responsabilità e di impegno attivo dell’intera società che lo circonda.
Un elemento importante, rispetto al quale questa storica esperienza sull’apprendimento permanente(4) può ancora insegnarci molto è che, al di là dell’importanza degli aspetti di riconoscimento, certificazione e spendibilità della formazione, la prima e principale difficoltà nella promozione del diritto allo studio collegato al lavoro è di tipo culturale, riguarda tanto le aziende quanto i lavoratori e non può lasciare indifferente il mondo della scuola.
Appare cruciale recuperare un elemento fondamentale della filosofia di fondo delle 150 ore: intrecciare le questioni dell’educazione e della formazione degli adulti nell’ottica di andare oltre ad una visione utilitarista delle competenze e di favorire, invece, la trasmissione, la relazione e, anche, l’accettazione della fragilità intesa come: “condizione ontologica dell’umano e dell’esistente”.
Si tratta, secondo Benesayag, di andare oltre una certa “pedagogia delle competenze” laddove essa si concentra non tanto sulla reale conoscenza dei contenuti trasmessi, quanto sull’essere “ben programmati” a imparare e, quando necessario, a gestire e dimenticare le informazioni.
3. Alcune piste di impegno
Lo scenario dei prossimi anni si presenta come un’epoca in cui i cambiamenti, invece di stabilizzarsi, sembrano accentuarsi, sia nella direzione di estendersi a tutto il sistema economico, sia nei ruoli e nelle competenze.
Nella formazione degli adulti non si può immaginare di non tenere conto della loro esperienza e dall'ambiente in cui si muovono quotidianamente.
Al tempo stesso, in un ambito più ampio di quello del lavoro, non va dimenticato che l’utilizzo delle 150 ore può essere declinato sulle tematiche linguistiche, rivolgendolo sia agli stranieri che agli italiani.
Non semplici corsi di italiano nell’accezione classica (lingua parlata, letta, scritta), ma corsi che insieme alle competenze linguistiche forniscano conoscenze di cittadinanza ed elementi molto concreti con strumenti adeguati, iconografici e digitali, che possano essere fruiti in un mix di modalità.
Questo modello può assumere una connotazione trasversale: alla luce del maggiore utilizzo di linguaggio straniero nei luoghi di lavoro, anche per i lavoratori italiani (e stranieri) è pensabile lo sviluppo di pacchetti di linguistici, di natura tecnica, funzionali a favorire la comunicazione e la relazione nelle filiere industriali ed economiche.
È chiaro poi che un altro ambito di utilizzo delle “150 ore del futuro” non può non essere quello del linguaggio digitale.
C’è un ultimo tema, trasversale: le 150 ore del futuro possono essere pensate anche per arginare un problema che veniva ricordato da un grande linguista, Tullio De Mauro: l’analfabetismo funzionale di ritorno.
Vediamo di fronte a noi l’urgenza di non lasciare sole le persone organizzandone collettivamente le istanze di promozione sociale e di valorizzazione personale.
Quasi cinquant’anni dopo è ancor più necessario che il sistema degli attori sociali compia, come con la grande intuizione delle 150 ore, una grande scommessa visionaria, concreta e democratica.
NOTE
(1) Per un inquadramento complessivo si veda: F. Lauria, Le 150 ore per il diritto allo studio. Analisi, memorie, echi di una straordinaria esperienza sindacale, Edizioni Lavoro, Roma, 2012.
(2) B. Manghi, Ricordi di un’esperienza straordinaria, in F. Lauria, Le 150 ore..., cit.
(3) L. Ghisani, I sindacati scuola e le 150 ore, in F. Lauria, Le 150 ore..., cit.
(4) Si veda F. Lauria, Le 150 ore..., cit.
LA SCUOLA È VIVA. W LA SCUOLA
Formazione professionale, una risorsa da valorizzare
di Elio Formosa
In più occasioni la Conferenza delle Regioni ha definito l’Istruzione e Formazione Professionale (IeFP) come un “sistema incompiuto, frammentato, sbilanciato e con precaria sostenibilità economica”, tale da non poter garantire parità di diritti civili e sociali a tutti i cittadini che intendono accedervi. L'endemica debolezza del finanziamento nel suo complesso e nella sua articolazione, il cui peso e la cui incidenza sulla erogazione e qualità del servizio varia da regione a regione in modo significativo e troppo spesso irrispettoso dei diritti dei ragazzi, rende in concreto non pienamente fruibile l’offerta formativa della IeFP in gran parte del territorio nazionale, seppure costituzionalmente garantita, svilendone in non pochi casi la missione educatrice e professionalizzante.
Una recente ricerca a cura di Giulio M. Salerno e G. Zagardo (2020) sui “costi nella FP”, ha ricostruito in tutta la sua evidente gravità e illogicità la mappa di un sistema regionale di pubblica istruzione, che investe poche risorse e in modo frammentario e diseguale, aumentando con ciò il divario economico, sociale e occupazionale tra il Nord del Paese che, dotatosi di un sistema strutturato di IeFP alquanto efficiente, investe risorse – comunque non ancora del tutto sufficienti – a favore dei propri giovani, e il Centro e il Sud che arrancano e sono ancora lontani dal raggiungere risultati minimi e soddisfacenti.
Secondo la Conferenza delle Regioni, la difformità di allocazione delle risorse è una situazione insostenibile, considerando che ad oggi, …, i percorsi di IeFP rappresentano parte integrante ed essenziale del sistema nazionale di istruzione e formazione, che deve essere garantito e sostenuto finanziariamente dallo Stato, in quanto rivolto a studenti che sono in obbligo di istruzione o di diritto dovere di istruzione e formazione.
Il messaggio, forse è il caso di dire l’appello, lanciato dalle Regioni non può rimanere inascoltato, né interpretato strumentalmente in funzione di una possibile statalizzazione dell’IeFP. Il rischio a cui si andrebbe incontro, qualora non si prestasse ascolto e attenzione alla voce delle Regioni, è una sempre più accentuata desertificazione delle vocazioni individuali al lavoro, che già ora è un dramma sociale presente e irrisolto in molte realtà territoriali.
Studi recenti hanno, altresì, messo in evidenza il rapporto, inversamente proporzionale, tra la crescente disoccupazione e devianza giovanile con l’assenza di una consistente e diversificata offerta di formazione professionale. Insomma, dove la IeFP è poco sostenuta, le percentuali di disoccupazione giovanile sono le più alte e preoccupanti.
La debolezza del finanziamento nazionale, immutato dal 2002 per quanto riguarda il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, scomparso dal 2008 per quanto riguarda il Ministero dell’Istruzione, pone le Regioni nella condizione di dover finanziare i percorsi triennali e quadriennali per oltre i tre quarti con risorse proprie o ricorrendo, non senza difficoltà, al Fondo Sociale Europeo che impone regole spesso in contrasto con le norme di carattere nazionale e contrattuale.
L’impegno economico, ritenuto gravoso se non addirittura insostenibile, ha spinto le amministrazioni regionali sia verso l’affidamento dei percorsi di IeFP all’Istruzione Professionale, il cui costo è a carico dello Stato, sia a contenere in modo significativo la crescita della domanda di accesso ai percorsi realizzati dagli Enti privati, sia verso il disconoscimento del Contratto collettivo nazionale di lavoro per la Formazione Professionale (Ccnl FP) quale criterio necessario per l’accreditamento delle sedi formative. Non è un mistero che tali scelte abbiano favorito anche il proliferare di contratti collettivi di sottotutela, sostanzialmente meno vincolanti, onerosi e impegnativi.
Nella consapevolezza che l’istruzione e la formazione sono l’unica soluzione strutturale alla disoccupazione, l’unica risposta alla nuova domanda di competenze espresse dai mutamenti economici e sociali, le organizzazioni sindacali di categoria, nell’alveo di un difficile rinnovo del Ccnl FP, fermo dal 2013, hanno deciso di riprendere con Forma e Cenfop e con le rispettive Confederazioni, nel rispetto della tradizione propria di questo settore dell’istruzione, un percorso più marcato, che solleciti e induca la Conferenza delle Regioni ad adottare e attuare un modello unico e universale, bilanciato e stabile di finanziamento. Un modello, insomma, che consenta la presenza e la diversificazione qualitativa dell’offerta di IeFP sull’intero territorio nazionale, aggredisca il fenomeno della disoccupazione, garantendo l’erogazione del servizio e l’accesso a tutti i giovani allievi, nessuno escluso.
Di fronte ad una sempre più convinta convergenza di interessi e di obiettivi tra le organizzazioni sindacali, la Conferenza delle Regioni e le Organizzazioni degli Enti, sul tema delle risorse e sul ruolo e posizionamento della IeFP all’interno del sistema nazionale di Istruzione, così come la Cisl ha evidenziato e auspicato il 19 ottobre con la “Proposta sull’anticipo dell’accesso agli ITS per gli studenti della IeFP”, sarebbe oltremodo ingiustificato perdere altro tempo e non sollecitare e attivare nell’immediato le dovute iniziative, rivolte a ripensare, in termini di equità di erogazione e sviluppo territoriale, un modello governato di finanziamento basato sul costo standard dei percorsi di IeFP.
L’obiettivo di giungere a una razionalizzazione del settore della IeFP, attraverso la condivisione di nuovi, più omogenei ed equi criteri unitari per la determinazione dei costi complessivi, non è più rinviabile, perché è sempre più evidente, sul piano etico in primo luogo, che a risorse diseguali corrispondono inaccettabili diseguaglianze in diritti e condizioni di vita, i cui costi ricadono sugli elementi più deboli e più bisognosi di essere formati. Al fine di evitare che il divario economico tra le varie regioni possa trasformarsi in una profonda e insanabile frattura, le Regioni hanno rilevato come sia imprescindibile la funzione di coordinamento e di responsabilità dello Stato anche sul sistema di IeFP, in quanto afferente al sistema educativo. Si tratta, quindi, di individuare, secondo le Regioni, modalità condivise di raccordo interistituzionale che consentano il raggiungimento degli obiettivi fissati, ovvero la verifica ed il monitoraggio delle azioni sul territorio al fine di rendere effettivamente fruibile su tutto il territorio nazionale l’offerta formativa.
Tuttavia preoccupa, e non poco, che sebbene le Regioni abbiano richiesto una centralità nella governance del sistema di IeFP, richiamando lo Stato a una funzione di coordinamento e responsabilità, gli unici strumenti che ne identificano la natura nazionale rimangano il Ccnl e l’Ente bilaterale: il primo firmato nel 2012 e non più rinnovato dal 2013, il secondo presente solo in alcune regioni e con un livello nazionale bisognoso di una profonda e urgente revisione che ne definisca in modo chiaro e risolutivo le risorse, le competenze e gli ambiti di intervento. Lo sforzo delle organizzazioni sindacali e delle Associazioni degli Enti di ridare vigore e lustro ai due strumenti rimane una priorità e non può prescindere da intervento deciso e risolutore della Conferenza delle Regioni. Se ciò non dovesse avvenire ci troveremo di fronte ad un paradosso: un organismo dello Stato che smentisce se stesso.
Il tema delle risorse da destinare alla realizzazione dei percorsi di IeFP, come hanno rilevato le Regioni, non è una questione a se stante, non può prescindere dal sistema di accreditamento delle sedi formative, dal riconoscimento dei Livelli essenziali delle Prestazioni (Lep) quale strumento che a sua volta determina e garantisce la qualità dell’offerta di IeFP ed i relativi controlli, né dalla certificazione della rappresentanza e della rappresentatività, temi questi ultimi che richiedono ulteriori e più approfondite analisi.
Dalle risorse, dal costo standard per essere ancora più chiari, dipende il futuro della IeFP come sistema nazionale e con essa il futuro di migliaia giovani e di posti di lavoro. Anche il rinnovo del Ccnl FP, elemento e strumento identitario, da anni atteso, dipende soprattutto dalle scelte che il Coordinamento delle Regioni sarà in grado di prendere e di sostenere in tutte le sedi. Proprio un anno fa, era il 19 gennaio, il Presidente della IX Commissione ribadiva l’obbligo di applicazione del Ccnl da parte degli Enti di Formazione e così scriveva in “risposta al documento di Forma e Cenfop e Oo.Ss. Scuola”: Per quanto concerne infine l'applicazione del Contratto Nazionale di Lavoro per la Formazione professionale agli organismi di formazione le Regioni e Province Autonome condividono pienamente la necessità che il Ministero dell’Istruzione vigili sull’applicazione di quanto disposto dall'art. 2, c. 1 lett. c) del Decreto del 29 novembre 2007 recante criteri di accreditamento delle strutture formative per la prima attuazione dell'obbligo di istruzione.
Numerose sono le questioni di contesto che ci spingono, oggi ancora più di ieri, ad affrontare nel complesso e ad ogni livello una riflessione più ampia possibile sul sistema della IeFP, sul suo posizionamento all’interno del più ampio sistema di istruzione e sul ruolo che deve ricoprire, senza pregiudizi di sorta, ma tenendo ben presenti i significativi risultati che ha ottenuto, con risorse deboli e scarsi mezzi. Più volte abbiamo sostenuto che al centro del dibattito sulla IeFP ci sono oltre ai lavoratori, ai quali va il merito dei risultati conseguiti, soprattutto i giovani ai quali va garantita la piena libertà di scelta. In fondo si tratta di applicare la nostra Costituzione che non fa distinzione di merito e di risorse tra chi sceglie un percorso scolastico e chi uno formativo.
HOMBRE VERTICAL
Tra paura e speranza. Il coraggio ordinario di vivere
di Emidio Pichelan
I nomi di Giacomo Lombello (classe 1925) e Odino Pinato (classe 1924) non dicono niente ai quindici lettori della rubrica. Temo non dicano niente nemmeno ai miei compaesani. Dopo l’8 settembre, la neonata Repubblica di Salò chiamava i due giovani alle armi. Ragazzi di campagna di pochi studi e di molto lavoro, rifiutavano il foglio di precetto, pur sapendo che la disobbedienza equivaleva a una sicura condanna a morte. Alle fine, per evitare rappresaglie contro i familiari, si consegnavano alla caserma di Artiglieria di Padova. Da dove, sfidando apertamente – da dove tanta determinazione? – la morte, fuggivano. Catturati, morivano sotto il bombardamento della città del Santo dell’11 marzo del ’44. “Morivano”, scrivevano i familiari nel ricordino, “deprecando l’ingiustizia selvaggia delle orde fasciste”.
Dicono poco o nulla, temo, anche i nomi dei 132 condannati a morte tra l’8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45; nel 1952 P. Malvezzi e G. Pirelli (fratello di Leopoldo, il padrone della Pirelli) si incaricavano di raccogliere e pubblicare le loro ultime volontà nel testo Lettere di condannati a morte della Resistenza. Le vittime erano giovani e adulti, contadini, operai, professionisti, intellettuali e illetterati, provenienti dai diversi strati della società e aderenti all’intero spettro politico dell’epoca. Diversi loro, gli autori delle lettere, inequivoco il messaggio: tutti eroi ordinari tranquilli, trasmettono serenità, speranza, positività, non si pentono della scelta fatta, non chiedono vendetta, si guardano bene dal giudicare gli italiani dalle scelte diverse, augurano ai loro cari, ai compagni di lotta, al popolo italiano un futuro migliore di libertà, di giustizia, di libertà.
È probabile che dica poco o nulla il nome di Gioconda Belli, nome e cognome italiano, ma di nazionalità nicaraguense. Suo bisnonno, un agrimensore del Nord Italia, aveva partecipato alla costruzione del canale di Panama; ammaliato dagli occhi di una nicaraguense aveva deciso di mettere su famiglia in Centro America. Per nascita Gioconda apparteneva all’alta borghesia locale, era una poetessa assai dotata, poteva permettersi una vita tranquilla e soddisfacente. Entrava in clandestinità, invece, guerrigliera nella lotta senza quartiere per abbattere l’odiosa dittatura della famiglia Somoza, appoggiata, come da lunga tradizione con tante altre dittature in America Latina e altrove, dagli Usa, il potente vicino di casa. Naturalmente, in funzione anticomunista.
Nicaragua è un Paese piccolo, ha un poeta, Rubén Darío come eroe nazionale; il primo governo rivoluzionario sandinista (anni ’80) contava ben tre ministri sacerdoti: agli esteri Miguel D’Escoto, della congregazione di Maryknoll, all’Educazione il padre gesuita Fernando Caridenal, e alla Cultura suo fratello Ernesto, ex novizio del celeberrimo Thomas Merton (autore di “La montagna dalla sette balze”) nel Kentucky, sospeso a divinis da Giovanni Paolo II (e riabilitato da Papa Francesco). Come Gioconda, tutti e tre potevano vivere nelle loro belle case, in patria o negli Usa, senza dover affrontare pericoli morali e paralizzanti paure.
È che fuggire dalla paura non è vita. La vita è libertà e felicità, almeno per noi occidentali (più o meno 500milioni di essere umani, gli altri sei miliardi e mezzo hanno – forse – una concezione diversa del senso della vita). “Non c’è niente di donchisciottesco”, afferma Gioconda Belli a conclusione della sua autobiografia “El país bajo mi piel”, il paese sotto la mia pelle (pubblicato nel 2000), “nel voler cambiare il mondo. È possibile. Niente e nessuno riuscirà mai a convincermi che ci sia qualcosa di comparabile all’esaltazione e al piacere di cercare di cambiare il mondo. Ed è possibile. È il compito al quale l’umanità si è dedicata da sempre. "Lo importante … no es que uno mismo vea todos sus sueños cumplidos, sino seguir, empecinado, soñándolos”, l’importante non è veder realizzati i propri sogni quanto continuare, imperterrito, a sognare”.
Se vuoi vivere, ci ricordano gli ucraini, non devi avere paura: devi credere nella libertà e nelle felicità. Cioè, nella vita della persona umana, nata libera e uguale. E nel diritto dell’autodeterminazione.
STORIA CONTEMPORANEA
La violenza politica
di Paolo Acanfora
Nei precedenti contributi, ragionando sulla concezione politica del fascismo, si è sottolineato (più o meno esplicitamente) che vi sono alcuni tratti peculiari del fenomeno fascista senza i quali esso semplicemente non sarebbe esistito. È una questione che può apparire banale ma definire un fenomeno con categorie adeguate è una condizione essenziale per una rappresentazione aderente alla realtà che si osserva, si studia ed analizza. Ciò vale in modo particolare per quelle categorie che nel tempo si sono sfilacciate ed hanno finito per assumere connotati sbiaditi, contorni incerti, sino a divenire impalpabili ed evanescenti. È il caso – lo si è già detto – del fascismo. I richiami al “fascismo generico”, al “fascismo eterno”, o ancora a una sorta di “fascismo atavico” di tipo psicologico, che è dentro di noi ed emerge in modo intermittente, sono non solo il segno di una de-storicizzazione del fenomeno in questione ma anche di una sua manipolazione che produce l’effetto più devastante ed incisivo sull’immaginario collettivo: la sua banalizzazione.
Nella parola "fascista" finiscono così per rientrare, a seconda dei punti di vista, i soggetti più diversi e disparati: i razzisti, i nostalgici, i conservatori, gli antisemiti, i tradizionalisti, gli antidemocratici, i reazionari, i padroni, gli autoritari e via dicendo. La storia ci ha insegnato che nella cultura comunista si è arrivati a coniare la categoria di socialfascismo come marchio di infamia verso i socialisti ritenuti traditori della classe operaia. Insomma, riempita di contenuti così eterogenei questa grande categoria-recipiente è stata utilizzata come un passe-partout per definire tutto ciò che disprezziamo. Si tratta – lo si è già detto – di una pericolosa banalizzazione, che anziché alzare il livello di attenzione induce ad una sottovalutazione delle responsabilità storiche e morali di una classe dirigente e di un popolo, sino a svalutare il bene più prezioso che quella esperienza cancellò per venti anni: la libertà.
Tra gli elementi essenziali al fascismo, un ruolo cruciale lo ha senz’altro la violenza politica. Non è certo il fascismo il primo o l’unico movimento politico che ha fatto della violenza il proprio metodo di azione politica. Tuttavia, è in esso che la peculiarissima e drammatica esperienza della guerra mondiale ha trovato la sua più chiara espressione. La militarizzazione della politica e lo squadrismo furono la trasposizione in tempo di pace, ordinario e quotidiano, dell’esperienza bellica. La fratellanza, il cameratismo, come anche la forte gerarchizzazione dei rapporti e l’obbedienza, hanno contribuito a forgiare una mentalità nuova che travalicava i limiti di spazio e di tempo della guerra. Il contatto quotidiano con la morte (anonima), la percezione della inesorabile precarietà dell’esistenza, le condizioni inimmaginabili della vita di trincea (tra fango, pidocchi, topi, escrementi, commilitoni morti e feriti) hanno prodotto una brutalizzazione – per utilizzare le parole dello storico George Mosse – che si è riversata nella vita civile del dopoguerra. Senza lo squadrismo, senza la violenza repressiva simboleggiata nell’immaginario collettivo dall’olio di ricino e dal manganello, il fascismo come movimento politico e come regime non sarebbe stato. La repressione dell’avversario politico corrispondeva, in questa direzione, all’eliminazione fisica del nemico. Gli assalti alle sedi dei sindacati, delle leghe, delle camere del lavoro, delle sezioni di partito, dei giornali erano operazioni militari. La costituzione delle Milizie volontarie per la sicurezza nazionale aveva lo scopo di istituzionalizzare quest’anima del fascismo che resterà un tratto costitutivo del regime.
Ora, quando si sente parlare di politici e partiti fascisti che oggi imperverserebbero per l’Europa non si deve mai perdere di vista che quella proposta politica semplicemente non c’è – se non in piccoli gruppuscoli marginali, espressione diretta di quella cultura politica (che pure, talvolta, riemerge in tutta la sua gravità, come nel caso serissimo della devastazione della sede della Cgil nel corteo no vax dell’ottobre scorso). Non si tratta di rievocare la retorica banalità della storia che non si ripete mai allo stesso modo. Oggi in nessun paese dell’occidente si può seriamente parlare di partiti o leader che propongono una soluzione fascista alla crisi della democrazia. Si può parlare di democrazie fragili, plebiscitarie, tendenzialmente autoritarie, di sistemi discriminatori che svuotano lo Stato di diritto ma tutto ciò non ha nulla a che fare con il fascismo. Non significa, ovviamente, che il pericolo sia minore. Tutt’altro. Significa semplicemente che la sfida per le democrazie liberali, nel terzo millennio, non è e non può essere il fascismo.
Questa consapevolezza consentirebbe di evitare due grossi rischi: annacquare fino a vederli svanire i valori democratici dell’antifascismo (minati dall’evocazione continua di un nemico che non c’è); non comprendere la reale natura e gli obiettivi degli avversari della democrazia liberale (e socialdemocratica), con la inevitabile conseguenza di non saper opporre la giusta resistenza.
UN AUTORE
NADIA TERRANOVA
Se… casca il mondo
di Leonarda Tola
Nadia Terranova (Messina 1978) appartiene al nutrito numero di autrici siciliane che si vanno affermando, tra le quali si colloca su un piano di eccellenza. Laurea e dottorato in filosofia, collabora a diverse testate giornalistiche e accompagna la presentazione dei suoi libri con interviste e video reperibili on line. Di successo il suo penultimo romanzo Addio fantasmi (Einaudi) finalista al Premio Strega 2019 che si inserisce nella continuità di una vasta produzione letteraria comprendente romanzi e racconti, ma anche libri per ragazzi, pluripremiati.
La Terranova è una presenza nella narrativa italiana contemporanea che, dopo l’ultimo dei suoi romanzi Trema la notte (Einaudi, febbraio 2022), sembra imporsi definitivamente, significativa e necessaria. Il libro riecheggia nel titolo il film di Visconti del 1948 sulla condizione dei pescatori nella Sicilia povera del dopoguerra. Il nuovo romanzo è diverso, come sono diversi gli uni dagli altri i suoi libri, ma quest’ultimo un po’ di più. Inventati i due protagonisti: Nicola 11 anni figlio unico, abitante in piazza San Filippo a Reggio Calabria, Barbara orfana di madre, ventenne di Scaletta Zanclea nella provincia di Messina. Vite ignare l’una dell’altra e diverse, salvo l’essere entrambe vissute sulle opposte rive dello Stretto, davanti allo stesso mare, accomunate da somiglianti catene di un’oppressione familiare penosa e detestata.
Separate e unite dallo Stretto, nella gloria della loro intangibilità sorgevano allora le città di Messina e Reggio Calabria: fino alle ore 5.20:27 del 28 dicembre 1908, quando, “Un attimo prima di voltare le spalle alla notte, il mare si mosse. Una polifonia mi attraversò le orecchie, il pavimento crollò insieme ai detriti della mia casa e con loro precipitai su una catasta di rovine. Il mondo come l’avevo conosciuto finì e ogni cosa amata e odiata disparve”, racconta Barbara in prima persona. È il terremoto-maremoto del 1908, evento sismico tra i più devastanti del XX secolo che in 37 secondi distrusse le due città.
Nella successione dei capitoli del libro (22+1), la storia di Nicola si alterna alla voce di Barbara, esistenze destinate ad un breve e tragico incontro che segnerà il loro destino. Il quando e il dove del romanzo sono storicamente collocati e datati: in quella fine anno del terremoto, nel giorno che lo precedette e nei giorni e anni che seguirono. I luoghi, strettamente familiari alla scrittrice messinese, sono rievocati nella documentata verità storica: case palazzi e teatri, vie e monumenti, chiese e statue, con i loro nomi effettivi, che si riconoscono nella condizione del prima e nell’apocalittica dissoluzione del dopo; incessante l’attraversamento di quei luoghi e il battere delle ore nella perdita e nello sconquasso, nel passaggio dei corpi e dentro il paesaggio delle anime.
Trema la notte è un romanzo che può dirsi storico in quanto racconto avvincente di esistenze situate, in uno spazio certo e in un tempo determinato, debitrici dei caratteri e connotazioni, personali, sociali, culturali coerenti con il periodo evocato: tradizioni e mentalità, convincimenti e abitudini, modalità di vivere e differenze di stato. Ciononostante, il libro è il viaggio archetipico di ogni vita giovane che lotta contro i suoi incubi per aprirsi al sogno, all’attesa e alla speranza, immersa nel mistero delle proprie onde ma decisa a scongiurare il naufragio. Com’è di ogni libera e compiuta esistenza. Spiega Nadia Terranova: “Credo di aver scritto un romanzo sul futuro travestito da romanzo sul passato”.
Nella geografia stracciata, e colpita al cuore, dello Stretto tra le due rive, contro ogni evidenza e fioriscono di forza e vitalità propria, Barbara e Nicola. La ragazza subisce l’asservimento di un padre padrone il cui orizzonte culturale e morale coincide con l’assicurare alla figlia la supremazia di un marito e l’irrinunciabilità del secondo cognome. “Mi rimproverò per aver detto delle sciocchezze e le sue parole si iscrissero sulla mia schiena curvata, finendo di schiacciarla”: il terremoto paradossalmente l’aiuta a fuggire per sempre dal padre, “armata dei suoi libri”. Nel suo cielo brilla il nome di Letteria Montoro, poetessa dell’Ottocento, messinese, che ispira a Barbara la passione per la lettura e la scrittura (“... i romanzi per me erano stati madre e coltello, carezze e armi, strade impreviste, le uniche chiavi che avessero mai aperto qualche porta”). In lei anelito di libertà e aspirazione all’emancipazione che passa attraverso la conoscenza e l’autocoscienza da conquistare, nel Novecento del Sud e delle nostre isole, con l’accesso allo studio e alla cultura. Il terremoto fa a pezzi il vecchio mondo e permette anche a Nicola di rinascere altrove e in un’altra famiglia, quella che lo adotta da orfano terremotato e lo accoglie amorevolmente; non tutte le famiglie biologiche sono indenni da errori, e talvolta misfatti, perpetrati ai danni dei figli in una distorta educazione.
Ma il romanzo di Nadia Terranova non è tutto qui. Il libro ha una caratteristica insolita: ogni capitolo è introdotto in epigrafe da inattese e misteriche citazioni tratte da Anonimo, Meditazioni sui tarocchi. Un viaggio nell’ermetismo cristiano. Sì, i Tarocchi, le carte con tutti i loro nomi (L’Appeso, La Luna, Il Diavolo, L’Imperatore, ecc.) danno il titolo ai capitoli. Dice Nadia Terranova: “Studio gli arcani da anni e mi hanno aiutato molto nella scrittura. Il motivo per cui li ho voluti coinvolgere esplicitamente nel racconto è quel senso del sacro, del magico, che avvertiamo nel confronto con quello che non possiamo controllare, con le crepe e gli sconvolgimenti”.
La scrittura è musicale, evocativa, risuona di echi ed è la vera magia del romanzo: l’indicibile, che pure è detto, resta tale, al modo e all’altezza della poesia dove la parola non ossifica e congela, ma apre all’interiorità e respira.
AUTOBIOGRAFIE SCOLASTICHE
Paul Ricoeur
di Mario Bertin
Paul Ricoeur è “uno dei testimoni e dei protagonisti della coscienza filosofica del Novecento” (Fusaro). Importante esponente della filosofia reflessiva francese, ha partecipato attivamente al movimento personalista anche come uno dei fondatori della rivista Esprit, assieme a Emmanuel Mounier, del quale scrisse un profilo intellettuale. Tutta la sua opera, che è imponente, nasce da una riflessione sulla vita. È come un intreccio di vita e pensiero. Per riflessione Ricoeur intende “l’appropriazione del nostro sforzo per esistere e del nostro desiderio d’essere”. In ogni suo scritto, di conseguenza, traspare un aspetto autobiografico. “Raccontiamo delle storie perché le vite umane ne hanno bisogno e meritano di essere raccontate”.
Paul Ricoeur nasce a Valence nel 1913 e muore nel 2005. Ha trascorso l’intera esistenza nell’insegnamento della filosofia in molte università: Strasburgo, Parigi, Nanterre (della cui università è stato anche rettore), Lovanio, Chicago. Durante la Seconda Guerra Mondiale viene fatto prigioniero in Germania. Legato all’Italia, ha partecipato ai colloqui filosofici organizzati a Roma da Enrico Castelli e alle attività culturali dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui, nel 1991, il Grand Prix de Philosophie.
Egli ha così descritto la sua personale storia e collocazione filosofica: “Ritengo di appartenere a una delle correnti della filosofia europea che si lascia essa stessa caratterizzare da una certa diversità di etichette: filosofia riflessiva, filosofia fenomenologica, filosofia ermeneutica. Riguardo al primo termine – riflessiva -, l’accento è posto sul movimento attraverso il quale la mente umana tenta di recuperare la propria capacità di agire, di pensare, di sentire, capacità in qualche modo nascosta, perduta, nei saperi, nelle pratiche, nei sentimenti che l’esteriorizzano rispetto a sé stessa. […] Il secondo termine – fenomenologica – designa l’ambizione di andare alle ‘cose stesse’, cioè alla manifestazione di ciò che si mostra all’esperienza. […] Riguardo al terzo termine – ermeneutica – l’accento è posto sulla pluralità delle interpretazioni legate a ciò che si può chiamare la lettura della esperienza umana”.
Un intreccio di vita e pensiero
Farò iniziare il mio racconto dal ricordo che serbo dell'anno trascorso in classe di filosofia. Era nel 1929-1930; avevo allora diciassette anni e per la prima volta dovevo confrontarmi con un insegnamento profondamente differente da tutti quelli precedenti, sia in letteratura che in storia o in scienze. Non sempre differenti erano gli autori trattati: avevamo già studiato da un punto di vista letterario i tragici greci gli oratori latini, Pascal, Montesquieu e i «filosofi del XVIII secolo», ma le ragioni profonde della loro concezione delle cose ci era stata, qualche modo, nascosta. Inoltre, nella classe di filosofia ci si rifaceva alle dottrine stesse, ai loro principi, alle loro ragioni, ai loro conflitti. Il nostro professore, Roland Dalblez, aveva una formazione neotomistica, egli argomentava alla maniera degli scolastici del XIV secolo più che alla maniera dello stesso San Tommaso d'Aquino. L'arte della disputa mi incantava. Il principale avversario era l'idealismo, sospettato di lasciare che il pensiero facesse la sua presa nel vuoto; privo del reale, il pensiero era costretto a ripiegarsi narcisisticamente su se stesso. Veniva, così, operato un audace accostamento fra tutta una corrente del pensiero filosofico moderno e quella attitudine di «perdita della realtà», osservata nel delirio degli psicotici. Va detto che il nostro maestro fu il primo filosofo francese a scrivere su Freud e la psicoanalisi; Freud veniva lodato principalmente per il suo realismo naturalista, che lo situava immediatamente sul versante di Aristotele piuttosto che su quello di Descartes o di Kant. Sono oggi persuaso di dovere al mio primo insegnante di filosofia la resistenza che opponevo contro la pretesa di immediatezza. di adeguazione e di apoditticità del Cogito cartesiano e dell'«lo penso» kantiano, mentre invece il proseguimento dei miei studi universitari mi avrebbe condotto nella movenza degli eredi francesi di questi due fondatori del pensiero moderno. Penso anche di dovere a Roland Dalhiez la mia ulteriore preoccupazione di integrare la dimensione dell'inconscia, e in generale il punto di vista psicanalitico, a un modo di pensare nonostante tutto fortemente segnato dalla tradizione della filosofia riflessiva francese, come appare nella trattazione che propongo dello «involontario assoluto» (carattere, inconscio, vita) nel mio primo grosso lavoro filosofico, Il volontario e l’involontario (1950). Ma non voglio allontanarmi da Roland Dalbiez senza aver reso omaggio ai consigli di intrepidità e di integrità che egli prodigava a quelli di noi i quali si erano ripromessi, fin dalla conclusione della sua classe, di votare la loro vita alla filosofia: quando un problema vi turba, vi angoscia, in fa paura, egli ci diceva, non cercate di aggirare l’ostacolo ma affrontatelo di petto. Non so fino a che punto sono stato fedele a questo precetto, posso dire soltanto che non l'ho dimenticato.
In verità, questa regola di pensiero cadeva dentro a un orecchio particolarmente ben disposto: a diciassette anni ero quello che si chiama un bravo alunno, ma soprattutto uno spirito curioso ed inquieto. La mia curiosità intellettuale risultava da una precoce cultura libresca. Orfano di padre e di madre (mia madre era morta poco dopo la mia nascita e mio padre, professore di inglese al liceo di Valence, era stato ucciso nel 1915 all'inizio della Prima Guerra mondiale), ero stato allevato a Rennes, con mia sorella di poco più grande di me, dai miei nonni paterni e da una zia, sorella cadetta di undici anni di mio padre e rimasta nubile. Il lutto di mio padre, che andava ad aggiungersi ad una austerità senza dubbio antecedente alla guerra e ai suoi disastri, fece sì che il cerchio della nostra famiglia non fosse mai penetrato dalla generale euforia del dopoguerra. Fu così che il bambino, amministrativamente classificato tra i «pupilles de la nation» (orfani di guerra), si trovava consegnato al disegno, alla lettura, in un tempo in cui gli svaghi collettivi erano ancora poco sviluppati e in cui i media non si erano ancora fatti carico delle distrazioni della gioventù. E ancora fu così che la parte essenziale della mia vita, fra gli undici e i diciassette anni, trascorresse fra la casa e il liceo maschile di Rennes, al cui insegnamento ero attaccato il punto di divorare, ben avanti la riapertura delle scuole, i libri consigliati dai professori. Resta che, per quanto gratificante fosse la scoperta dei «grandi classici» negli anni precedenti «l’anno di filosofia» (l’année de philo), niente nelle mie precedenti letture avrebbe potuto risparmiarmi lo choc che ebbe a costituire per me l'incontro con la «vera» filosofia che, senza dubbio a torto, non ero stato in grado di riconoscere in Montaigne, Pascal, Voltaire, Rousseau, quelli che tuttavia venivano chiamati «filosofi».
Ho parlato dì uno spirito curioso e inquieto. Ho appena detto ciò che ha nutrito e insieme aguzzato la mia curiosità fino alle soglie della classe di filosofia. Quanto all’inquietudine, tendo oggi a connetterla con quella sorta di concorrenza che la mia educazione protestante e la mia formazione intellettuale si facevano in me. La prima, accettata senza reticenze, mi orientava verso un sentimento che molto più tardi, leggendo Schleiermacher, ho identificato come sentimento di «dipendenza assoluta»; le nozioni di peccato e di perdono avevano certamente una parte rilevante ma non occupavano tutto il posto, lungi da ciò. Più profonda, più forte rispetto al sentimento di colpa, era la convinzione che la parola dell'uomo fosse preceduta dalla «Parola di Dio». Questo complesso di sentimenti era aperto all'assalto di un dubbio intellettuale che, nel corso dei miei studi di filosofia, imparai a connettere con la linea critica della filosofia.
Paul Ricoeur, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2013(2), pp. 22-24
ZIBALDONE MINIMO
Attesa
di Gianni Gasparini
L’attesa ci parla del rapporto tra il presente che stiamo vivendo e il futuro: può trattarsi di un futuro prossimo, molto vicino a verificarsi, oppure di un orizzonte lontano, di un avvenire che presumiamo o immaginiamo come sfondo della nostra vita. In un celebre passaggio delle Confessioni, sant’Agostino distingue tra presente delle cose presenti, presente di quelle passate e presente di quelle future: è quest’ultimo che configura la situazione dell’attesa, che può di volta in volta assumere la valenza della speranza o dell’angoscia, della progettualità o dell’inerzia. È interessante osservare che gli spagnoli usano un unico verbo, esperar, per indicare sia l’attendere che lo sperare.
Al fenomeno dell’attesa sono state dedicate considerazioni di grande spessore in filosofia e teologia, che assumono importanza centrale nel mondo ebraico con l’attesa del Messia e in quello cristiano con l’attesa della nascita di Gesù, ogni anno rinnovata nel periodo dell’Avvento che precede il Natale. In campo letterario l’attesa è al centro di alcune opere del Novecento che sono diventate dei classici: fra queste, la pièce teatrale di Samuel Beckett Aspettando Godot, in cui i due personaggi attendono l’arrivo di un misterioso Godot che potrebbe rappresentare Dio (God) ma anche la Felicità o altro; e Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, dove la solitudine del tenente Drogo nel Forte Bastiani rappresenta in modo emblematico l’attesa di senso e la frustrazione inerente all’impegno di una vita intera.
L’attesa che più ci preme, tuttavia, è probabilmente quella che sperimentiamo nella concretezza e nel contesto della nostra vita quotidiana, in aree diverse. Qui è bene tener presente la differenza tra aspettare e aspettarsi, che la lingua inglese meglio evidenzia di quella italiana ricorrendo a due verbi distinti, to wait (for) e to expect, oppure ai sostantivi waiting e expectation. Nel primo caso aspettare o attendere significa essere con la mente e l’animo rivolti a qualcuno che deve arrivare o a qualcosa che deve accadere (ad esempio, attendo l’arrivo di un treno); nel secondo caso, l’attesa comporta una aspettativa e cioè il prevedere che una cosa avvenga, sulla base di ruoli o norme esistenti (mi aspetto che il treno arrivi in orario, a una data ora). Ovviamente esiste una sovrapposizione tra l’attesa-sospensione del primo caso e l’attesa-previsione del secondo: è evidente che chi attende una persona ad un appuntamento si attende anche che essa arrivi puntualmente o al limite con un ritardo ammesso dal contesto in questione, che può variare da un sistema sociale ad un altro. Per contro, i casi di non corrispondenza tra queste due dimensioni sono spesso l’esito di un carente o inefficace funzionamento dei servizi offerti da una società ai suoi membri, o comunque di uno squilibrio tra la domanda di un servizio e la sua effettiva disponibilità : le code e le lunghe attese per l’accesso agli enti erogatori dei servizi – dai negozi e supermercati al sistema sanitario, dalle istituzioni bancarie e finanziarie e quelle scolastico-formativo, e via dicendo – sono un esito e una dimostrazione di tale discrasia, con le relative conseguenze negative per i cittadini.
La realtà della pandemia, a due anni dalle sue prime manifestazioni in Italia e in Europa, ha acutizzato le situazioni di attesa da parte degli utenti dei servizi. Si sta in coda o lo si è stati quasi ovunque, in questi due anni di Covid-19: file per entrare ai supermercati, accessi limitati e conseguenti code dappertutto nei negozi, attese per essere vaccinati, per fare un tampone in farmacia, per sbrigare una pratica ad un ufficio. La pandemia ci ha fatto riflettere necessariamente sullo squilibrio tra domanda e offerta di servizi, anche in un paese come il nostro, considerato tra i più moderni e dotati di strutture socio-economiche abbastanza adeguate. E, per chi ha voluto coglierla, ha impartito a tutti una lezione di umiltà. Scrive Simone Weil in uno dei fulgidi frammenti dei suoi Cahiers che “L’umiltà è un certo rapporto dell’anima col tempo. È un’accettazione dell’attesa.” (Quaderni, IV, Adelphi 1998, p. 177).