In questa pagina:
Pensieri a voce alta: Il senso e l’utilità del nostro impegno (Ivana Barbacci)
La parola di questo mese: Responsabilità (Eraldo Affinati)
Attualità: La sorpresa della guerra (Gianni Gasparini)
Identità CISL: Riflessioni da un progetto europeo (Francesco Lauria)
La scuola è viva. W la scuola: Sei al sicuro, sei tra amici (Lorenzo Gobbi)
Hombre vertical: La recessione democratica (Emidio Pichelan)
Storia contemporanea: Il totalitarismo fascista (Paolo Acanfora)
Un autore: La lingua ucraina come affermazione identitaria (Leonarda Tola)
Un libro: Il processo di Shamgorod (Vincenzo Alessandro)
Autobiografie scolastiche: Klaus Mann (Mario Bertin)
Zibaldone minimo: Ab-umano (Gianni Gasparini)
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PENSIERI A VOCE ALTA
Il senso e l’utilità del nostro impegno
di Ivana Barbacci
Sarebbe veramente impossibile, per me, dar voce a tutti i pensieri che in questi giorni affollano la mia mente. Quelli che sicuramente condivido con tutti voi, per la preoccupazione e l’angoscia suscitati da una guerra in corso molto vicino al cuore dell’Europa, un evento che non avremmo mai voluto vivere, che lacera le nostre coscienze per la difficoltà a tenere assieme l’anelito alla pace come bene supremo e la solidarietà, doverosa, per un popolo che resiste a una proditoria invasione della propria terra, della propria libertà, della propria vita.
Quelli che mi investono più personalmente, legati al ruolo importante e impegnativo che l’organizzazione mi ha affidato, a quel passaggio di testimone cui Maddalena Gissi accennava il mese scorso e che si è compiuto col nostro 7° Congresso Nazionale.
Tengo per me quelli legati ai miei affetti più cari, che ho voluto presenti al Congresso a condividere le mie emozioni sapendo che dovranno, inevitabilmente, farsi anche un po’ carico delle mie fatiche. So di poterci contare, come è sempre stato fin qui, e questo mi dà una grande forza.
Dispone di una grande riserva di energie, la nostra CISL Scuola: per chi ancora non ne avesse consapevolezza, sarebbe bastato respirare il clima del nostro congresso di Riccione, una miscela di attenzione, interesse, entusiasmo, partecipazione, che più di un osservatore esterno ha potuto toccare con mano, rimandone piacevolmente sorpreso.
Per me è stata invece la conferma di quanto ho potuto sperimentare nel corso di un’esperienza condotta con gradi diversi di responsabilità e impegno, ma sempre in un contesto capace di suscitare forti motivazioni, per la presenza di solidi valori di riferimento, per la generosità di tanti nel sostenere un impegno condiviso, per i riscontri che quotidianamente restituiscono a chi fa sindacato il senso dell’utilità del suo agire.
Se è vero che il sindacato può essere, in una società in cui tende a prevalere l’individualismo, luogo di aggregazione e fattore di coesione, questo è vero in modo particolare per il nostro sindacato, la CISL.
“La CISL unisce” resta, fra i tanti slogan scelti nel tempo dall’organizzazione, uno dei più belli, più efficaci e carichi di significato. Personalmente, vi trovo la risposta a una domanda che credo dovrebbe porsi ogni giorno chi sceglie di spendere il proprio impegno nel sindacato: perché lo faccio, per chi lo faccio. E allora recupero, in chiusura di questi miei primi pensieri a voce alta, quello che considero un passaggio chiave della relazione congressuale di Maddalena Gissi, quando ci ricorda che “la scuola non ci appartiene, appartiene alla comunità di cui essa stessa è espressione e parte”. Solo rafforzando il legame che unisce una scuola alla sua comunità si può far sì che quest’ultima le riconosca, come sarebbe doveroso, più attenzione, collaborazione, sostegno.
Questo per me significa inquadrare in una dimensione confederale il nostro ruolo di rappresentanza e anche l’impegno di assicurare a chi lavora nella scuola un più adeguato riconoscimento, insieme a giuste e necessarie tutele. Un impegno al quale contribuiscono in modo particolare le migliaia di persone candidate nelle nostre liste per il rinnovo delle RSU: a loro il grazie più sentito, sapere che ci sono in tutte le scuole d’Italia lavoratrici e lavoratori disposti a farsi carico in prima persona di un ruolo di rappresentanza e contrattazione mi ha fatto sentire ancor più pronta e determinata ad assumere quello cui sono stata chiamata.
Ho ricevuto il testimone, me lo ha passato una persona che nella condivisione di un comune percorso è diventata e sento come una mia sorella maggiore. Ora tocca a me continuare la corsa, che non sarà in solitaria, ma sostenuta passo per passo da una grande squadra. Solo così può essere vincente.
LA PAROLA DI QUESTO MESE
Responsabilità
di Eraldo Affinati
Esistono parole che non si possono più dire né scrivere: sono state sfregiate, consunte, vilipese. Una di queste è responsabilità. Quante volte la sentiamo pronunciare dai politici in televisione? È una promessa tradita, un tesoro saccheggiato, una voce scomparsa. Dovrebbe sentenziare un impegno, invece quasi sempre dichiara l'ipocrisia, annuncia il falso, rivela la doppiezza di chi la declama. Eppure la sua radice è nobile e non merita questa infamia.
Cominciai a intuire la forza del concetto che esprime tanti anni fa nel Blocco Undici di Auschwitz: le SS vi eseguirono circa ventimila fucilazioni mediante tiri diretti alla nuca. Di fronte a quel muro mi chiesi: cosa vuol dire, nel fondo autentico della mia coscienza, essere responsabili? Scartai subito la sfera giuridica perché i carnefici si difesero affermando di aver eseguito gli ordini: essi non avevano disatteso la legge cui tributavano ossequio. Al contrario, l'avevano applicata. Accantonai la spiegazione sociale, in quanto le consuetudini e i sistemi di valore cambiano nello spazio e nel tempo. Per la stessa ragione misi da parte le interpretazioni psicologiche o morali. Tornai a casa con la potenza di una domanda inevasa.
Per un lungo tempo ho insegnato lettere alla Città dei Ragazzi, una comunità educativa alle porte di Roma. I miei studenti erano adolescenti difficili che recavano in viso le cicatrici delle ferite ricevute: italiani, afghani, arabi, slavi. Venivano da tutto il mondo ma anche dai quartieri periferici della capitale. Sono – ancora oggi – figli nostri. Grazie a loro ho trovato la risposta che cercavo: la medesima presente nei romanzi di Fëdor Michajlovič Dostoevskij e nelle lettere di Don Lorenzo Milani. L'insegnante e lo scrittore si prendono in carico lo sguardo altrui. Sono i custodi delle parole perdute. Sto parlando di una dimensione pre-giuridica, pre-morale, pre-sociale. Ciò che distingue l'uomo dall'animale. Essere responsabili significa sentirsi chiamati in causa dai contesti nei quali operiamo. Guardare negli occhi la persona che abbiamo di fronte. Metterci in gioco. Esporci. Rischiare di sbagliare. Tutti reagiscono se vengono colpiti, ma pochi intervengono quando scoprono l'oltraggio di un principio in cui credono. Nessuno può illudersi di non essere in debito nei confronti del prossimo: percepire la nostra insufficienza sarebbe già tanto. Questa accezione del termine è venuta meno nei lager ma purtroppo continua a essere accantonata ogni giorno da quanti si limitano a svolgere il mansionario.
Eppure se noi riuscissimo a sentirci responsabili di chi ci guarda saremmo in grado di superare lo scarto più lancinante dell'epoca contemporanea: quello, da Giuseppe Mazzini ritenuto inammissibile, fra il pensiero e l'azione. Non ci sentiremmo certo a posto, bensì con la spina nel fianco. Era ciò che pensava Dietrich Bonhoeffer quando scriveva: "Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest'affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene."
ATTUALITÀ
La sorpresa della guerra
di Gianni Gasparini
L’inconcepibile è avvenuto, sta avvenendo, continuerà ad avvenire e a marcare profondamente la nostra storia contemporanea, con uno stigma incancellabile di cui in questo momento non possiamo ancora valutare la portata. Ora, a fine marzo 2022 e a un mese dal proditorio attacco e occupazione dell’Ucraina (solo in parte realizzata) da parte della Russia, con duecentomila uomini che stavano fingendo di fare esercitazioni ai margini del paese poi invaso, non possiamo escludere neppure lo scenario ultimo e definitivo, scongiurato da quasi 80 anni in Europa e nel mondo: la terza guerra mondiale con il ricorso all’arma atomica.
Sembra un brutto sogno, un incubo, ma è una realtà di cui ogni giorno, svegliandoci e accorgendoci dei nostri enormi privilegi rispetto alle persone in Ucraina e anche nei paesi limitrofi dove sono arrivati milioni di profughi, ci rendiamo conto sempre più.
Vorrei esprimere qui alcune considerazioni di carattere sociologico e umanistico, come contributo alle constatazioni di altri analisti e studiosi. Anzitutto, mi sembra evidente che Putin, il dittatore dagli occhi di ghiaccio e dalla voce suadente (a differenza del Führer), non si fermerà se non vi sarà costretto dalla forza (economica, politica o militare). Come ha detto con brutale candore il nostro premier Draghi, Putin vuole la guerra, non la pace. La sua determinazione è assoluta, le sue minacce sono del tutto realistiche, la ferocia dei suoi generali nell’uccidere civili e distruggere città è inedita in Europa dai tempi del nazismo e della seconda guerra mondiale. Putin, come è evidente a chiunque non abbia gli occhi viziati da un antiamericanismo congenito, non sta affatto negoziando con l’Ucraina o con i mediatori, ma cerca di guadagnare tempo di fronte all’inaspettata e straordinaria resistenza incontrata, guidata dal presidente Zelenski. Il despota russo ha imposto un ultimatum e sta compiendo quello che appare sempre più come un genocidio e un cumulo di crimini di guerra, per i quali la comunità mondiale si appresta a giudicarlo.
Escludendo la terza guerra mondiale o forse un miracolo (l’azione di papa Francesco?), l’unica prospettiva di fermare Putin è legata a una sollevazione popolare o di una parte della élite dei cosiddetti oligarchi; a meno che la Cina, negoziando con gli Usa, riesca a trovare ragioni economiche convincenti per il Cremlino. La prospettiva di una deposizione di Putin sembra difficile da realizzarsi, sia per il pugno di ferro che uno stato dittatoriale del tipo Urss ha posto sulle manifestazioni (decine di migliaia di persone in carcere e torturate), su tutti i mezzi di informazione interni e sulla stampa estera, oltre che su internet e sui social. La difficoltà ha un punto di appoggio formidabile ed efferato: la menzogna sistematica, la “disinformazia” tipica dell’Urss che Putin e i suoi collaboratori ben conoscono. Di fronte alla condanna mondiale (all’Onu sono pochissimi i paesi che hanno votato contro la risoluzione, mentre la Cina si è astenuta), la Russia continua a sostenere che la guerra che ha scatenato illecitamente è una semplice “operazione speciale” e addirittura, per bocca dell’impresentabile Lavrov, ministro degli Esteri, che la Russia non ha attaccato l’Ucraina. Un altro imprescindibile punto di appoggio a Putin è dato dal patriarca Kyrill, di Mosca, le cui deliranti affermazioni sui gay e la difesa del Donbass non varrebbe la pena di citare se non per inorridire di fronte a un’alta carica del mondo ortodosso che si dice cristiana.
Una chiave di lettura particolare che vorrei qui suggerire è quella che si basa sul fenomeno della sorpresa, riprendendo alcuni studi iniziati alla fine degli anni 90, nel quadro di un approccio sociologico agli interstizi della vita quotidiana[1], vale a dire a una serie di fenomeni marginali, nascosti o ritenuti poco importanti che possono invece rivelarsi nel tempo agenti di cambiamenti rilevanti e portatori di novità in un sistema sociale dato. La sorpresa non è uno stato d’animo psicologico ed effimero (come lo stupore) ma un fenomeno interattivo che contempla l’esistenza di un “sorprenditore” e di un “sorpreso”, individui singoli o stati che essi siano. La sorpresa sovverte un ordine temporale stabilito e consolidato che è intessuto di consuetudini, equilibri economici, basi giuridiche nazionali e internazionali.
Mentre le sorprese della seconda metà del Novecento, specie nei rapporti tra stati nazionali, sono state complessivamente rare dopo gli equilibri stabilitisi alla fine della guerra e successivamente della guerra fredda (caduta del muro di Berlino 1991 e implosione dell’Urss 1993), il nuovo secolo, di cui abbiamo finora percorso solo un quinto, si presenta con una serie di fenomeni estremamente sorprendenti e inaspettati, che qualcuno chiama epocali ma per alcuni dei quali bisognerebbe scomodare forse aggettivi ancora più tassativi, se ci fossero.
La “madre di tutte le sorprese” è stata considerata finora l’Undici settembre 2001, con l’abbattimento delle Torri gemelle di New York e con l’ondata di terrorismo islamico che ne è seguita in questi ultimi vent’anni nel mondo intero. Ma a questa sorpresa se ne aggiungono altre impressionanti, e sempre di segno negativo: cito i drammatici e tuttora incombenti cambiamenti climatici in tutto il pianeta, di cui il terribile tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano con oltre duecentomila morti può essere considerato un segno e un emblema. Un altro insieme di fenomeni sorprendenti, anch’esso di portata e conseguenze mondiali, è legato alle gravi crisi economiche-finanziarie, specie quella del 2007-2008 propagatasi dagli Stati Uniti.
Poi c’è stata la pandemia del Covid-19, iniziata in Cina nell’autunno 2019 e presto diffusasi in tutto il mondo con milioni di morti e centinaia di milioni di infetti. Si è trattato di una sorpresa assolutamente stupefacente, dal momento che non era stata prevista praticamente da nessuno e la scienza si è trovata impreparata, colta di sorpresa; fortunatamente la successiva messa a punto di vaccini ad hoc ha impedito che gli esiti del covid, pur gravi, potessero paragonarsi a quelli della Spagnola di un secolo fa. La pandemia ha toccato direttamente o indirettamente miliardi di persone in tutto il mondo, incidendo pesantemente sui comportamenti quotidiani delle persone.
Poteva essere legittimo ritenere che dopo il covid non vi sarebbero state sorprese negative di una tale gravità e impatto. Ma proprio ora che in Italia e nel mondo occidentale si sta uscendo – sperabilmente - dalla prospettiva della pandemia grazie all’alto numero di vaccinati, è scoppiata la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina. Anche qui, e ancora di più, chi poteva ragionevolmente immaginare qualcosa di più amaramente e angosciosamente sorprendente?
Putin, incurante del diritto e dell’aspirazione universale alla pace che ha trovato nel dopoguerra strumenti importantissimi nella creazione dell’Onu e dell’Unione Europa, ha spostato il limite, l’asticella per così dire della sorpresa ancora più in alto, ad un livello rischiosissimo e inimmaginabile nel XXI secolo. I commenti più condivisi parlano di un arretramento della storia di 80 anni, altri si spingono oltre, facendo allusione al Medioevo. Filosofi, politologi, storici di provata serietà citano Hitler e Stalin per cercare modelli alle azioni di Putin, veri crimini di guerra che finora le severe sanzioni economiche della UE e dell’Occidente non hanno piegato ma per i quali è auspicabile che il dittatore russo venga giudicato da una Corte internazionale.
Questa ennesima sorpresa negativa si è costruita sui cardini della rapidità e della segretezza, dei quali si serve normalmente tale fenomeno. In questo caso tuttavia credo sia determinante un terzo cardine, quello della menzogna e della falsificazione sistematica della realtà già ricordato sopra. Il despota russo finge di vivere in un universo parallelo alla realtà, della cui consistenza vuol convincere anzitutto i russi e tutti coloro che seguono le sue alienanti e allucinanti dichiarazioni televisive. Basti citare che chiunque in Russia dichiari che è in corso una guerra (anziché una semplice operazione militare speciale) rischia fino a 15 anni di carcere.
In questo lungo e angosciante momento in cui ci è stato dato di vivere, osservando di giorno in giorno lo svolgersi di una guerra feroce, è giocoforza constatare l’apparente dominio e strapotere del male. Non è un’affermazione retorica o di prammatica: basta seguire per un’ora o due la televisione che dal 24 febbraio scorso ci mostra in diretta il martirio delle città ucraine e l’esodo di coloro che fuggono dalla loro terra, dalle loro case sadicamente distrutte dai russi.
Scrive Lorca: El toro solo corazon arriba! Solo il toro, quel toro oscuro che ha ferito mortalmente l’uomo e che può rappresentare il simbolo del male e della sofferenza umana, gode della propria vittoria, dell’aver ucciso ciò che di bello, di buono e di nobile è presente in tutta l’umanità. Il grido affranto del poeta (Soltanto il toro ha il cuore in alto!) lo interpreto non solo come una amarissima constatazione del male imperante ma anche come un invito alla resistenza. Di fronte alle sofferenze più disperate e alle sorprese estreme l’uomo può opporre una resilienza inaspettata, anch’essa sorprendente. Ciò che di umano è nell’uomo non rinuncerà mai alla speranza, per quanto improbabile sia il suo esito. Gli ultimi versi del Compianto di Federico Garcia Lorca per l’amico torero ucciso dal toro esprime un anelito di speranza che nulla potrà soffocare. Sarà un alito lieve di vento, una brezza che attraversa gli ulivi e che memore del dolore continua a soffiare, a esserci, a vivere:
Canto la sua eleganza con parole che gemono
e ricordo una brezza triste nell’oliveto.[2]
[1] Cfr. in particolare Sociologia degli interstizi, B. Mondadori, Milano 1998.
[2] F. Garcia Lorca, “Compianto per Ignazio Sanchez Mejias”, in Poesie, cur. N. von Prellwitz, Rizzoli, Milano 1994, vol. II.
IDENTITÀ CISL
Riflessioni da un progetto europeo
Rinnovare la rappresentanza tra dimensione individuale e missione collettiva
di Francesco Lauria
1. Il progetto BreakBack
La Cisl ha da poco terminato un importante progetto europeo che si è concentrato sull’erogazione di servizi individuali (“servicing”) come strategia attraverso la quale il sindacato si impegna a mantenere e ad estendere la propria membership, raggiungendo, in particolare, gruppi e individui che sono spesso esclusi dalla tutela e dalla rappresentanza. Abbiamo deciso di denominare questo progetto: BreakBack (Break up to get back together – “Rompere” per ricostruire insieme” – www.breakback.cisl.it) proprio per dare il senso di una ricomposizione innovativa della rappresentanza attraverso la personalizzazione (non la mera individualizzazione!) delle tutele e dei servizi individuali.
Il progetto si è concentrato prioritariamente su figure comunemente identificate come “vulnerabili” come i lavoratori delle piattaforme, autonomi e disoccupati, ma ha ampliato il proprio campo di azione anche a figure difficilmente sindacalizzate, come i quadri e le alte professionalità. Sono state sviluppate anche piste di riflessioni valide per tutti gli ambiti lavorativi e sindacali mettendo a raffronto servizi innovativi e servizi tradizionali.
BreakBack si è sviluppato su tre obiettivi principali.
Il primo è stato quello di valutare quali strategie i sindacati adottano per superare la disaffezione dei lavoratori alla partecipazione attiva nelle pratiche di rappresentanza degli interessi.
Il secondo, quello di raccogliere e descrivere la varietà dei servizi individuali sindacali forniti in cinque paesi europei (Belgio, Danimarca, Italia, Lituania e Spagna).
Il terzo, quello di valutare l’efficacia di questa strategia dal punto di vista della “rivitalizzazione” associativa collettiva.
2. Una ricerca su servizi innovativi e sindacalizzazione
Nell’ambito del partenariato che ha coinvolto, oltre alla Cisl e alla Fondazione Tarantelli, la Confederazione Europea dei Sindacati, l’Università di Firenze, l’Università autonoma di Barcellona, l’Università di Copenhagen, il Centro di Ricerche Europeo Diesis, l’Università di Vilnius, ci siamo posti l’intento di analizzare se la fornitura di servizi individuali porti contemporaneamente ad un aumento delle iscrizioni e a una crescita del coinvolgimento dei lavoratori nelle attività sindacali.
Può essere utile ricapitolare brevemente come si è svolto il percorso di ricerca.
Da marzo 2019, i cinque team di ricerca nazionali hanno intrapreso un programma in tre fasi, pur dovendo affrontare, ad un certo punto, le inevitabili criticità dettate dalla pandemia.
Nella prima, i ricercatori hanno intervistato 4-5 figure chiave ad alto livello per paese, con l’obiettivo di indagare se i sindacati confederali europei si ponessero un'adeguata strategia di rivitalizzazione associativa e se questa strategia implicasse la fornitura di servizi innovativi.
La seconda fase si è basata su un approccio di studio dei casi con un'analisi approfondita delle attività di tutela individuale, intervistando i sindacalisti che hanno organizzato la fornitura dei servizi e raccogliendo, tramite web survey e focus group, le opinioni degli utenti dei servizi stessi.
La terza ha visto confronti nazionali ed europei (Policy Lab) tra ricercatori e sindacalisti, ad ogni livello, per analizzare gli studi di caso nei diversi contesti di riferimento e una conferenza internazionale, svoltasi presso il Centro Studi di Firenze, che ha messo a confronto sindacalisti da ogni parte d’Europa e studiosi di relazioni industriali.
3. Una breve panoramica
Come è facilmente intuibile, abbiamo incontrato sistemi di relazioni industriali, strategie sindacali e servizi individuali estremamente differenziati.
In alcuni casi, il “servicing” rappresenta una tradizione di lunga data e altamente istituzionalizzata (per esempio, Belgio, Danimarca), in altri è comunque consolidata (Italia, Spagna) in altri ancora, è una caratteristica relativamente nuova (Lituania).
Chiaramente tutti i sistemi nazionali sono in evoluzione.
In Italia, da molto tempo, come è noto, le principali organizzazioni sindacali forniscono a iscritti e cittadini supporto e servizi in diversi campi, come l'assicurazione sociale, l'assistenza fiscale e la protezione dei consumatori.
In generale, la fornitura di servizi è però ampiamente considerata come un campo strategico per affrontare un rapporto sempre più individualizzato tra lavoratori e sindacati e con una forza lavoro altamente frammentata.
L’allargamento dei servizi e la costruzione di dimensioni sindacali innovative appare un aspetto strategico comune alle tre confederazioni, anche se l'enfasi su queste attività e il loro ruolo in relazione alle tendenze degli iscritti sono percepiti in modo diverso e non sempre continuativo. L'orientamento generale è quello di rafforzare gli strumenti e gli sportelli esistenti attraverso una maggiore differenziazione che possa andare incontro a categorie di persone escluse dai servizi stessi; di sviluppare strumenti bilaterali; di fornire risposte innovative per specifiche fasce del mercato del lavoro attraverso iniziative dedicate.
In questo solco si collocano le esperienze Cisl analizzate nel progetto: da Vivace! (community dei lavoratori autonomi e indipendenti), a Sportello Lavoro (in particolare nel territorio di Firenze – Prato), alle esperienze di co-working nelle sedi sindacali (ad es. Cisl di Vicenza).
4. Quale impatto quantitativo e qualitativo sulla sindacalizzazione e sulle trasformazioni della rappresentanza?
Per quanto riguarda i servizi, in particolare quelli innovativi, valutarne l'impatto sul tesseramento non è semplice.
La maggior parte sono sperimentazioni recenti che cercano di raggiungere i lavoratori difficili da sindacalizzare (lavoratori autonomi, lavoratori delle piattaforme, disoccupati, lavoratori altamente qualificati).
I risultati della ricerca indicano un impatto positivo sulla membership, anche se è davvero difficile dare una misura adeguata della portata dell'impatto in termini di nuovi iscritti.
Soprattutto per i servizi più tradizionali, l'adesione tende ad essere utilitaristica e quindi fluttuante, con un alto numero di disaffiliazioni, una volta che le persone hanno risolto il problema per il quale hanno contattato il sindacato.
Nel caso dell'assistenza individuale che abbiamo voluto definire “strategica”, dove i servizi forniti cercano di divenire “collettivizzanti” e portare gli “utenti” ad un grado di maggiore coinvolgimento e partecipazione, un problema riscontrato riguarda l'effettiva capacità di passare dalla 'semplice' adesione ad un coinvolgimento più attivo.
Ciò è ancor più vero per i lavoratori freelance, poiché, anche nei casi in cui è stata promossa una comunità, essi tendono a considerarsi più come una comunità professionale destinata a risolvere problemi individuali aziendali o settoriali, o ad aumentare le occasioni di lavoro, piuttosto che una comunità di lavoratori orientata all'azione collettiva solidale.
Va sottolineato, però, che l'efficacia del “servicing” non dovrebbe essere misurata solo in termini di nuove adesioni al sindacato, ma guardando alle molte dimensioni del rapporto tra lavoratori e sindacati.
Il “servicing innovativo” ha, infatti, una funzione aggiuntiva e complementare rispetto alla promozione del rinnovo delle iscrizioni: l'inizio di un processo di legittimazione del sindacato tra gruppi sociali che tradizionalmente non lo conoscevano o ne avevano un'opinione negativa.
5. I servizi collettivizzanti: organizzare i non organizzati
La ricerca sui casi ha rivelato che il “servicing strategico” può portare a un'azione collettiva quasi “tradizionale”, attraverso una serie di step che spostano l’attenzione dalla dimensione della risposta individuale alla promozione di strumenti negoziali. Essi si sviluppano soprattutto in ambiti territoriali e promuovono la tutela del lavoro frammentato, non sempre necessariamente subordinato.
Certamente, in un contesto di rapidi e profondi cambiamenti nel mercato del lavoro, il problema del "free-riding", legato alla necessità percepita di mantenere la tradizionale base sociale dei sindacati, non può che essere fortemente incentrato sul tema di come: "organizzare i non organizzati".
Questo problema è stato affrontato adottando l'approccio del c.d. “organizing”", ispirato a un modello di sindacalismo partecipativo che si concretizza in attività svolte a livello locale territoriale e volte a reclutare i lavoratori non sindacalizzati per creare “opportunità di ingaggio” anche intorno alle attività sindacali tradizionali, come la contrattazione collettiva e la mobilitazione.
Quello che la ricerca del progetto BreakBack mostra è che tra il servicing (tradizionale e non) e l'organizing, abbiamo approcci intermedi, che potremmo definire proprio come “servicing strategico”, poiché si basano sulla fornitura di servizi individuali e "collettivizzanti".
Questi servizi si rivolgono spesso a gruppi sociali caratterizzati da un basso senso di identità e legittimità collettiva (sia fuori che dentro le organizzazioni sindacali).
I servizi collettivizzanti rispondono a specifici bisogni individuali, ma hanno una funzione collettiva esplicita o latente. In altre parole, mirano a "costruire" gradualmente una risposta collettiva, aprendo la strada a possibili azioni future e a dimensioni di rappresentanza condivisa, spesso attraverso forme associative e organizzative diverse dal sindacalismo tradizionale.
La ricerca mostra che in tutta Europa, pur a macchia di leopardo, stanno emergendo nuove forme di sindacalismo volte a creare nuove comunità di lavoratori “frammentati” come primo passo verso la creazione di identità e azione collettiva.
6. Un dibattito che continua e non può che interessare la Cisl Scuola
Ho esposto tematiche complesse e in veloce cambiamento che non si esauriscono certo con la ricerca del progetto BreakBack e che necessitano di un ampio dibattito.
Anche nell’ambito del raggio di azione della Cisl Scuola si possono cogliere alcuni specifici elementi di interesse rispetto alla ricerca.
La frammentazione dei bisogni e delle aspirazioni riguarda anche i bacini di utenza “tradizionali” del sindacato ed interseca questioni tipicamente contrattuali.
Al tempo spesso, vi sono figure identificabili come più “deboli” (educatori, formatori professionali, insegnanti delle scuole private) o il vasto mondo del precariato della scuola che, sempre più spesso, si avvicinano alle organizzazioni di rappresentanza sindacale per risolvere un bisogno specifico (qui ed ora!) e per utilizzare un servizio individuale.
Vi sono già diverse esperienze interessanti di “traghettamento” di queste vertenze e occasioni individuali per “trasportare” le persone verso una dimensione collettiva e associativa.
In questo ambito i percorsi formativi (ad esempio in preparazione ai concorsi) o informativi (accesso alle graduatorie etc.) rappresentano un’importante occasione, amplificata dalla necessità di risolvere le complessità dettate dalla pandemia in un contesto di frammentazione sociale e di velocissima evoluzione del quadro normativo.
Altri temi di sviluppo potrebbero essere dettati dall’ulteriore valorizzazione in una dimensione associativa del sistema delle polizze individuali connesse all’iscrizione sindacale o dalla promozione, in un’ottica di sostenibilità nel tempo, di community online territoriali e professionali, volte prioritariamente all’aggiornamento individuale, ma che non si esauriscano al mero raggiungimento dello scopo specifico.
Ulteriore scenario, infine, è il possibile rafforzamento, per il sostegno degli insegnanti, da giocare anche in una dimensione collettiva, innovativa e comunitaria, degli istituti di formazione e aggiornamento promossi dalla Cisl Scuola e accreditati presso il Ministero dell’Istruzione, come Irsef/Irfed.
Complici gli effetti della pandemia, i sindacati stanno sperimentando, in tutto il mondo, nuovi linguaggi, pratiche e strategie per adattarsi a un mondo del lavoro ormai completamente diverso da quello in cui hanno consolidato le loro organizzazioni nel Novecento.
Anche per questo la discussione sul rapporto tra servizi tradizionali e servizi collettivizzanti, ma anche sul futuro della rappresentanza e della tutela sindacale in un mondo del lavoro sempre più frammentato e digitalizzato apre scenari interessanti e su cui occorre intrecciare una pluralità di sguardi e di competenze multidisciplinari.
Anche per questo tale dibattito non può che intersecarsi con la riflessione sul il futuro della rappresentanza nel mondo dell’istruzione e della formazione.
LA SCUOLA È VIVA. W LA SCUOLA
Sei al sicuro, sei tra amici
di Lorenzo Gobbi
Giovedì sera, ricevo un breve messaggio sulla chat della scuola (che ho casualmente aperto quasi a notte chissà perché): “Lunedì inizierà a frequentare nella tua classe l’alunna A., profuga da Kiev. Sono certo che, come coordinatore, saprai accoglierla al meglio”. Grazie della fiducia, penso, ma avrei bisogno, magari, di sapere qualcosa di lei, di conoscerla prima, di avere un’idea del suo stato d’animo, della sua condizione psicologica, della sua collocazione in Italia (quando è arrivata? Come? Chi la ospita? È sola o c’è la famiglia? Ha subito lutti familiari?), di capire da che scuola viene, se conosce un po’ della nostra lingua, se… La folla dei “se” mi circonda immediatamente, ma inizia in pochi istanti a cedere il passo alle domande pratiche: a che ora viene, lunedì? Chi ci sarà sulla porta ad accoglierla? Come li avviso, i colleghi, venerdì mattina (la nostra scuola è su 5 giorni, al sabato non c’è nessuno)? E cosa gli dico? Bene, procediamo: chat della scuola, messaggi WhatsApp, mail, telefonate: “Lunedì mattina inizierà a frequentare la studentessa A., profuga da Kiev. Appena ho altre notizie vi avviso, tenete d’occhio la chat”. Soprattutto, nascono le riflessioni: cos’ha nel cuore, questa ragazza? E i suoi genitori, sono con lei? Come sono riusciti a scappare? Cos’hanno visto? Cos’hanno vissuto e sofferto? Come procediamo, da un punto di vista pratico? Domattina, appena entrato in istituto, dovrò chiedere alle ausiliarie un banco per lei in terza, e poi parlare alla classe, preparare le studentesse e gli studenti. E poi: chi sarà il primo tra i colleghi a pormi la fatidica domanda, quella che sorge spontanea ed immancabile quando un consiglio di classe ha a che fare con le situazioni più drammatiche e difficili (scherzo, ma non più di tanto…): “come la valutiamo? quali obiettivi? quali competenze? quali abilità? ha lacune pregresse? come impostiamo il recupero?”. Preparo già le risposte: le facciamo un PEP, cioè un piano educativo personalizzato, prevedendo un percorso biennale, quindi adesso non c’è da valutare proprio nulla, adesso pensiamo a inserirla, a rasserenarla, a orientarla, ad accompagnarla come possiamo e per quel che possiamo (la normativa non solo ce lo permette, ma lo prevede esplicitamente); attiviamo un supporto di lingua italiana, e anche di corsa, le risorse a scuola le abbiamo tutte; le diamo una tastiera elettronica in comodato d’uso (il nostro è un indirizzo musicale) e alle carte, al protocollo, alle firme e all’inventario ci penso io, e anche a trovarne fisicamente una con l’aiuto dei colleghi che sanno dove si nascondono le attrezzature della scuola quando qualcuno le cerca con urgenza; la inseriamo nella classe di canto corale con i suoi compagni, è la più accessibile per lei quale che sia lo studio musicale “pregresso” ed è la più indicata anche come effetto psicologico di inserimento, di comunione con un gruppo classe attraverso il canto; adattiamoci a lei, ragioniamo in base a quel che troveremo; insomma, ce la metteremo tutta come sempre: abbiamo passato una pandemia, ci siamo fatti in quattro di comune accordo, ci siamo inventati tutto l’inventabile e adesso siamo chiamati a questo.
Amo i miei colleghi, e non da ieri: niente domande su “come la valutiamo”, desiderio di accogliere bene ed efficacemente questa ragazza, preoccupazione di non ferirla ulteriormente, incertezza su cosa dire e cosa no, timore di non bastare, certezza bruciante di non poter guarire il suo dolore, senso vivo della tragedia che si è abbattuta su di lei e su milioni di altre persone, desiderio di porsi al suo servizio, di essere per lei un porto sicuro: “Non è bontà, – mi dice un collega – è giustizia, è professionalità: il nostro lavoro è esattamente questo”. Un passo alla volta, un minuto dopo l’altro: faremo tutto ciò che possiamo.
Già alle 7.30 piantono la porta della scuola per intercettarla all’arrivo, perché nessuno mi ha detto a che ora arriverà; mi dicono che è già salita in aula, accompagnata da un’ausiliaria – era qui già prima dell’apertura. Salgo al piano ancora deserto e la vedo subito; stringo la mano alla madre che è con lei – gentile, provata eppure fiduciosa, pacata; mi presento, la rassicuro, le faccio scendere in entrata, offro un caffè alla macchinetta, sorrido e osservo, occhi negli occhi; anch’io sono attentamente osservato, e so che non può essere diversamente. Constato che la madre parla un italiano accettabile e la ragazza anche, benché essenziale (ho in serbo, se servissero, l’inglese, il ricordo sbiadito del tedesco, un po’ di francese rudimentale); evito discorsi lunghi, non chiedo nulla che non mi vogliano raccontare; alla guerra non accenno, perché sappiamo tutti e tre perché A. e la sua famiglia sono qui; rassicuro ancora la madre, le do il mio numero di cellulare e mi annoto il suo, la saluto. Accompagno A. a visitare la scuola: percorriamo fianco a fianco i corridoi, saliamo in ascensore sperando che non si blocchi proprio oggi, le mostro i laboratori, la segreteria, i bagni, le uscite; ci dirigiamo verso la classe. A. mi segue, osserva, scambia qualche parola come può. Mi sembra tesa ma anche molto controllata.
Compagne e compagni le si fanno intorno, si presentano, salutano; A. prende posto e prepara le sue cose. Due parole di rito dalla cattedra, senza divagare: sei al sicuro, sei tra amici. Ha alcuni video in cui suona lo strumento nazionale ucraino, la bandura, che nessuno di noi conosce, e ci chiede se ce li può mostrare: ascoltiamo, applaudiamo, chiediamo spiegazioni sullo strumento. Sa già che gliela procureremo, una bandura, perché la sua è rimasta là dove cadono le bombe: il collega che coordina l’insegnamento di pratica strumentale è già al lavoro assieme al dirigente, abbiamo solo bisogno di un po’ di tempo. Si alza T. e si siede al pianoforte (lo abbiamo, in aula: verticale e vecchiotto, ma accordato): un Improvviso op. 90 di Schubert riempie lo spazio tra noi e lei. Si alza D., che non vede ma sente la tastiera: si muove tra i banchi con sicurezza nonostante la disabilità visiva totale e completa l’opera con un altro brano. Ecco, ci siamo presentati: questi siamo noi. Benvenuta, A. Adesso facciamo italiano, queste sono le fotocopie degli argomenti su cui lavoriamo oggi: non è che tu debba studiarli, è solo perché tu li abbia e stia con noi.
Parliamo spesso di lei, nei corridoi: la vediamo timidissima, assorta, quasi pietrificata - da ciò che ha visto e vissuto, pensiamo: era a Kiev solo pochi giorni fa, sappiamo che è così. Ha desiderio di inserirsi, di partecipare: prende appunti, ha tutte le fotocopie dei materiali scolastici che i colleghi le preparano; la docente di sostegno trascorre del tempo con lei per impostare l’insegnamento dell’italiano, che è necessario e urgente; ora struttureremo un percorso, ma abbiamo bisogno di un po’ di tempo per capire di cosa abbia esattamente bisogno; ci confrontiamo, discutiamo. Una compagna abita vicino a lei: si vedono già nel pomeriggio, vengono a scuola assieme. Abbiamo una psicologa a disposizione (raramente) a scuola, dice qualcuno, non sarebbe il caso…? Non so, non credo, non adesso, forse…
Tutti abbiamo paura di ferirla, docenti e studenti; esitiamo, ci sentiamo timidi e incerti, ma a lei siamo attentissimi: è lei il centro dei nostri pensieri. Non vogliamo starle troppo addosso, non vogliamo essere inopportuni. Impariamo la delicatezza: sentiamo che nulla è più necessario della discrezione. Ha bisogno di tempo. Ha bisogno di noi, ma anche della nostra cautela: ciò che porta in sé è immenso, ciò che abbiamo da offrirle è così poco… Condividiamo spazi e tempi con lei; restiamo a portata di voce. Osserviamo, attendiamo; svolgiamo le nostre attività come sempre, anche se la sua presenza cambia tutto impercettibilmente – ma è bene che non si sottolinei troppo questa differenza, che tutto proceda com’è o quasi; realizziamo il bene quotidiano così, come ci viene. Attendiamo altre studentesse ucraine che stanno arrivando, una la prossima settimana, due la seguente, o almeno così sembra di capire: in una scuola, la comunicazione non è sempre ottimale...
La madre, una mattina, mi attende in portineria: vuole darmi una chiavetta usb con un video che mi chiede di guardare: è il video della festa per i 30 anni della Repubblica Ucraina. “Si vede Kiev”, mi dice. “Kiev com’era”, aggiunge, e il suo sguardo non si può descrivere. Kiev com’era solo tre settimane fa.
HOMBRE VERTICAL
La recessione democratica
di Emidio Pichelan
Una calamità procurata dall’uomo – meglio, da un uomo – quello che sta succedendo da qualche settimana ai confini dell’Europa post guerra fredda. Sembra uno scherzo di cattivo gusto: i ricoveri in terapia intensiva erano in calo, i vaccini funzionavano, il Parlamento era persino riuscito a darci un nuovo Presidente della Repubblica, potevamo finalmente concentrarci pienamente sul Pnrr, cioè sul come rilanciare un mondo migliore e riqualificare l’umana esistenza. Il potente di turno – uno che presume di rappresentare un popolo, senza bisogno di istituzioni e di mediazioni – ha pensato bene di scatenare una guerra vera, quella con i carri armati e le bombe e i missili e le sirene, capace di spargere paura e dolore e ondate di panico incontrollabili. Una guerra antica, regressiva, vecchia nella strumentazione, ancor più nelle ragioni invocate a giustificazione.
Mentre il signore del Cremlino pensava bene di scatenare una guerra vera, forse annoiato da una poco emozionante “guerra virale” da Covid-19, la Freedom House, la Casa della Libertà, una organizzazione privata che da tre lustri si incaica di valutare lo stato di salute delle nostre democrazie, ha pubblicato l’ultimo rapporto, il sedicesimo. A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino è ormai chiaro come la storia sia tutt’altro che finita e il destino fatale dell’umanità non sia fatalmente la democrazia.
I dati dell’ultimo rapporto della Freedom House sono tutt’altro che tranquillizzanti. Larry Diamond, il responsabile del rapporto, la chiama “la recessione democratica, dura da sedici anni, durante i quali i Paesi che si sono allontanati dalla democrazia superano quelli che vi si sono avvicinati. Le istituzioni democratiche e i diritti civili sono peggiorati in sessanta Stati, mentre sono letteralmente precipitati in Afghanistan, in Nicaragua (Daniel Ortega, mitico comandante antisomocista, si è trasformato in uno spietato caudillo latinoamericano), in Tunisia, in Sudan.
Mentre sedici anni fa, la metà circa della popolazione del mondo viveva in un Paese liberale, oggi ciò è vero solo per due persone su dieci. Nel 2021 si sono registrati sette colpi di stato: in Myanmar (ex Birmania), Sudan, Mali, Zimbabwe, Burkina Faso, Tailandia, Egitto. In un arco di tempo piuttosto breve, si è fermata la cavalcata dei Paesi resisi autonomi nel disfacimento della ex Urss e dei Paesi poveri verso gli Usa e la Ue, modelli a lungo vincenti di libertà e democrazia, portatori di un patrimonio inestimabile di valori quali la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, i diritti politici e civili e sociali. Più precisamente, la cavalcata si è trasformata in “sconforto democratico”, in sfiducia verso un sistema, la democrazia, considerato debole, poco virile, incapace di affrontare la sfida di scelte impegnative.
La democrazia ha perso appeal? Il rapporto della Freedom House ha visto la luce prima che il signore del Cremlino schierasse sfrontatamente i suoi sedici chilometri di carri armati che, certamente incutono paura ma non vinceranno mai il cuore della gente come il Colosseo, i Fori Imperiali, l’Arena di Verona, l’acquedotto di Segovia. E poi ci sono loro, gli ucraini, a ricordarci di che cosa sono realmente capaci i popoli privati dell’autodeterminazione e della libertà, che è anche felicità.
Succede molto spesso: le cose veramente importanti sono apprezzate appieno quando vengono a mancare. E quando riconquistarle costa tragedie umane e distruzioni.
STORIA CONTEMPORANEA
La lotta allo Stato liberale: il totalitarismo fascista
di Paolo Acanfora
Nella cultura e nell'ideologia politica fascista un'assoluta centralità è assegnata al mito dello Stato nuovo. Un mito che non fu una creazione estemporanea del fascismo ma che, al contrario, ebbe una sua tradizione nazionale assai significativa nella lunga e diversificata stagione risorgimentale. La radicale opposizione fascista alla democrazia liberale e alle istituzioni parlamentari si fondava innanzitutto sulla convinzione che esse fossero inadeguate nel rispondere alle sfide della modernità. Incapace di rapportarsi in modo efficace ai nuovi ed indiscussi protagonisti sociali e politici (le masse), la democrazia liberale costituiva, agli occhi dei fascisti, una falsa forma di partecipazione perché espressione di interessi personali e di gruppo che frammentavano e dividevano in parti contrapposte la sacralizzata comunità nazionale. Al contrario l’idea di partecipazione elaborata dal fascismo rappresentava la “vera” partecipazione politica, che non doveva essere l’espressione della consapevole coscienza individuale ma della socializzazione fascista delle coscienze, dei sentimenti, dei comportamenti. In questa direzione, lo Stato totalitario rappresentava l’unica soluzione idonea alla società di massa capace di garantire al tempo stesso stabilità delle istituzioni e reale partecipazione popolare.
Il nuovo Stato aveva il compito di educare gli individui e le masse ai valori e alla visione del mondo proposta dal fascismo, di costruire una “mentalità fascista”, di creare nuove generazioni che sarebbero nate e si sarebbero formate nella fede politica fascista. Il fascismo inteso come “nuova categoria morale” dava così forma ad uno Stato etico che avrebbe svolto il ruolo del grande pedagogo, sviluppando una propria pervasiva pedagogia totalitaria.
Il fine ultimo di questa immane azione pedagogica doveva consistere nella trasformazione radicale del carattere degli italiani. Attraverso la valorizzazione dell’approccio fideistico, vero cemento della comunità totalitaria in grado di legare individui, masse e istituzioni, il fascismo mirava a compiere una vera e propria rivoluzione antropologica per realizzare l’“uomo nuovo”, il cittadino soldato, l’uomo marziale e virile (in piena continuità con l’immagine dell’uomo nelle ideologie nazionaliste).
La concezione dell’uomo nella cultura fascista si rappresentava come profondamente antiborghese. Senza alcun riferimento alla dimensione economico-sociale (mai messa in discussione nel quadro della valorizzazione delle diseguaglianze, tipiche di una concezione sociale fortemente gerarchica come quella fascista), l’etichetta “borghese” era intesa in termini essenzialmente morali. Era borghese il senso del privato, la tutela del proprio interesse particolare, l’indifferenza ai doveri, ai valori, agli ideali, il sottrarsi alla partecipazione comunitaria alla vita dello Stato. Riformare il carattere degli italiani, per costruire non un nuovo tipo biologico di italiano ma un nuovo tipo morale o spirituale, non poteva non assumere, dunque, tratti apertamente antiborghesi ed antiliberali.
Il mito del “cittadino soldato” era alla base di una concezione sociale in cui il potere doveva essere gestito da un’aristocrazia di uomini dotati di spiccate qualità nel comando, al cui vertice vi era la figura del capo, del duce, unico ed infallibile, che incarnava nella sua persona sacralizzata l’indivisibile volontà generale. Il mito del Duce era cruciale nella visione totalitaria di uno Stato a cui gli individui e le masse dovevano ciecamente obbedire sacrificando la propria personalità e razionalità. Uno dei principali intellettuali e politici del regime, Giuseppe Bottati, sintetizzava in modo esemplare questa concezione:
«Nello Stato l’uomo realizza i più alti valori morali della sua vita e perciò supera tutto quello che è in lui di particolare: convenienze personali, interessi, la vita stessa, se è necessario. Nello Stato noi vediamo l’attuazione dei massimi spirituali: continuità oltre il tempo, grandezza morale, missione educatrice di sé e degli altri: perciò noi diciamo… che lo Stato è la sintesi ideale dei valori materiali e immateriali della stirpe e rappresenta la continuità delle generazioni».
Il ritorno alla democrazia nel secondo dopoguerra e la costruzione della nuova Italia repubblicana nacquero innanzitutto in opposizione a questa visione. Il rifiuto dei totalitarismi e dello Stato etico però non avvenne, com’è noto, con il ripristino della situazione anteriore, con il ritorno ad una concezione politica ed istituzionale tradizionalmente liberale. E non portò neanche alla rinuncia ad una visione morale o ad una concezione costituzionale priva di una visione del mondo da costruire. L’uomo non realizzava più i suoi “alti valori morali” nello Stato ma nella convivenza democratica, nella partecipazione alla vita sociale e civile, nelle relazioni (rigorosamente al plurale) e nell’incontro con l’altro. Sviluppava pienamente la propria personalità solo nella vita associata, in quel mondo relazionale costituito dai cosiddetti corpi intermedi. La Repubblica veniva impegnata dai costituenti a sostenere e promuovere questa visione e a rimuovere gli ostacoli che si sarebbero potuti frapporre ad essa. Un progetto ed un’idea di Stato opposta a quella fascista e diversa da quella liberale ma possibile solo dentro un sistema autenticamente democratico. Una prospettiva che può essere letta però anche nella direzione inversa: non vi è autentica democrazia se non in una società dinamica, articolata, ricca, in cui l’individuo può costruire un mondo di relazioni plurali che consentono il pieno sviluppo della sua personalità.
UN AUTORE
TARAS ŠEVČENKO
La lingua ucraina come affermazione identitaria
di Leonarda Tola
“E ci sarà il figlio, e sarà la madre,
E ci saranno uomini sulla terra”.
La tempesta emotiva suscitata nel mondo dall’invasione russa dell’Ucraina ci sconvolge: che fare? Per sfuggire almeno in parte al diluvio mediatico di parole e immagini, un antidoto, forse, può essere la lettura: non dei giornali, inevitabilmente e doverosamente artigliati all’attualità ora per ora, ma della letteratura: magari la poesia, preferibilmente di un autore del passato, possibilmente non lontanissimo, magari ucraino. Si tratta di Taras Ševčenko (1814-1861): stesso cognome e uguale pronuncia (scevscenco) del campione ucraino di Kiev Andrij SevcenKo (Андрій Шевченко) gloria del Milan e altri allori.
Perché ricordare un poeta romantico dell’Ottocento pressoché sconosciuto in Italia ma con una notevole bibliografia (soprattutto in inglese)? L’impulso è nato dopo aver letto: Ševčenko è la perfetta “...Incarnazione dell’identità nazionale ucraina”. “Sullo sfondo del drammatico scontro che si è riacceso attorno ai confini dell’Ucraina e alla questione della sua appartenenza alla sfera culturale e geopolitica occidentale, la poesia di Ševčenko suona come profezia, diagnosi, avvertimenti”(*). Decidendo che può essere igiene mentale stabilire una distanza, anche abissale, due secoli, dalle bombe odierne su Mariupol, e con l’intento di dare profondità di sguardo alla guerra presente, ci occupiamo dello scrittore Taras Ševčenko. Una biografia da romanzo: è nato nel 1814 in una famiglia contadina in un villaggio sulla Riva destra del Dniprò (Dniepr), il quarto fiume d’Europa che bagna Kiev e attraversa l’Ucraina; servo della gleba, com’erano i contadini (anime), in Russia e in Ucraina, asserviti a un padrone, nobile proprietario terriero con soperchi diritti sulla vita dei suoi schiavi. Taras bambino poté frequentare la scuola dove gli fu impartita un’istruzione dal sagrestano della chiesa. I fondamenti del Vangelo saranno alla base della sua catechizzazione cristiana e formazione culturale pur nella critica da lui esercitata nei confronti dell’Istituzione ecclesiastica e delle sue gerarchie clericali (d’ Oriente e d’Occidente) accusata di tentazione e collisione con il potere e di tradimento dei valori originari e autentici predicati da Cristo. Oltre che nella scrittura eccelleva nel disegno e nella pittura e grazie al suo talento, da pastorello di pecore orfano di madre, a 14 anni ebbe la fortuna di seguire il suo padrone a San Pietroburgo dove continuò gli studi di arte e letteratura. Si fece valere come artista fino al riscatto dalla servitù della gleba pagato con il ricavato della vendita del ritratto (1838) di uno scrittore. Tornato in Ucraina, ormai famoso, partecipò ai sommovimenti culturali e politici per la libertà della patria, repressi dall’impero zarista e dalla sua polizia che a 33 anni (1847) lo arrestò condannandolo a dieci anni di confino; in tutto questo tempo dovette sottostare alla proibizione di scrivere e dipingere, secondo un decreto imperiale. Fu liberato nel 1857 ma non gli fu concesso di vivere nell’amata Ucraina. Morì a San Pietroburgo nel 1861 e fu definitivamente sepolto con grandi onori nel suolo natio, su quella riva destra del Dniprò più volte cantato nelle sue liriche. “Un mito già in vita: cardine di qualsiasi discorso che riguardi l’identità, la lingua, la letteratura e la cultura dell’Ucraina” … “Una delle massime figure del Romanticismo ucraino e slavo, ma europeo: attorno a lui si accendono continuamente discussioni letterarie e passioni politiche”(*).
Ševčenko è innanzitutto artefice di una rivoluzione avendo scelto, primo importante autore della letteratura slava, di scrivere nella lingua parlata dagli ucraini, benché fosse fine conoscitore della lingua russa: il ‘volgare’ ucraino assurse principalmente per suo merito alla dignità di lingua letteraria. Preso in giro per questo dal grande scrittore e drammaturgo suo contemporaneo Nikolaj Vasil'evič Gogol' (1809-1852), che pure stimava e amava; Gogol, ucraino a sua volta, non concepiva l’uso letterario di quell’idioma popolare e scrisse le sue opere immortali nella lingua dell’Impero. Si può pensare che l’opera di Ševčenko abbia influenzato non solo la storia della letteratura ucraina, ma la storia tout court, dal momento che la lingua di un popolo è anche la sua cultura, la sua politica, l’identità. Non sorprende scoprire che durante la rivolta di Maidan (“piazza” in ucraino) a Kiev e negli scontri con i russi del 2014, anteprima eloquente dell’odierna invasione distruttiva dell’Ucraina a cui assistiamo increduli dal 24 febbraio 2022, l’effigie del poeta e patriota Ševčenko comparisse tra i soldati di Kiev: simbolo della lotta per l’indipendenza e la libertà della loro terra di cui lo scrittore ottocentesco è stato propugnatore e paladino. “La sua poesia può essere interpretata come una sorta di lente di ingrandimento storica capace di cogliere in profondità i processi in atto in tutta quella parte d’Europa”(*).
Cantore dell’epopea cosacca, Ševčenko interpreta l’aspirazione del popolo ucraino, viva e sentita nei secoli, alla liberazione dall’assolutismo e dalla sottomissione all’impero russo; nella sua poesia egli ricostruisce la storia dolorosa e frammentata dell’Ucraina ricongiungendo il passato al presente e al futuro, affermandone l’identità nazionale.
Non m’importa, se in Ucraina
Mai vivrò ancora oppure no.
Che mi ricordi alcuno, o di me si scordi
Nella neve in terra straniera-
Non m’importa, non m’importa nulla.
In schiavitù son cresciuto fra estranea gente
E, senza il pianto dei miei cari,
Morirò piangendo in schiavitù.
E tutto porterò via con me,
Né lascerò di me traccia alcuna
Nell’Ucraina nostra imperitura,
Sulla terra nostra, non più nostra.
E non mi rimembra il padre col figlio,
Al figlio non dirà: “Prega, figlio,
Prega, per colui che un dì
Martire fecero per l’Ucraina”.
Non m’importa, se quel figlio
Pregherà per me, o non pregherà…
M’ importa però, sì m’importa,
Che gente maligna l’Ucraina
Nel sonno getti, per poi nel fuoco,
Saccheggiata, risvegliarla…
Oh m’importa, di questo sì m’importa.
Fortezza della Terza Sezione, San Pietroburgo, 1847.Poesie liriche
Testamento
Seppellitemi, quando morrò,
In un alto tumulo
Nell’Ucraina amata
In mezzo all’immensa steppa,
Dove gli sconfinati campi,
Il Dniprò e le rive sue scoscese
Si vedano, e ascoltar si possa
Il ruggente Dniprò ruggire.
Quando il sangue nemico
Egli avrà portato dall’Ucraina
All’azzurro mare… allora soltanto
Lascerò tutto, e campi e monti,
E volerò fino all’Altissimo
Per pregarlo…
Ma prima d’allora
Io non conosco Iddio.
Seppellitemi e ribellatevi,
Spezzate le catene,
E del sangue dei nemici impuro
Irrorate la libertà.
E anche me, nella famiglia grande,
Nella famiglia libera e nuova,
Non vi scordate di ricordarmi
Con parola fraterna e mite.
Perejaslav, 25 dicembre 1845 (Poesie liriche)
L’opera letteraria di Ševčenko è innervata dal sentimento religioso alimentato dalla conoscenza della Bibbia, unico libro che gli era permesso di leggere negli anni della prigionia. La fede diventa invocazione e lamento a Dio che appare distratto e lontano, grido di dolore perché si faccia difensore dei “poveri e smarriti” e garante della giustizia.
Parafrasi del salmo 11
“Resusciterò! -vi dirà il Signore.-
Ora resusciterò! Nel nome loro,
Di quelle mie genti sventurate,
Costrette in catene… Glorificherò
Quei piccoli schiavi muti!
E a salvaguardia loro
Metterò la Parola!
E appassiranno,
Qual erba calpestata
I pensieri vani vostri e le parole-”
San Pietroburgo, 15 febbraio 1859 (Poesie liriche)
Abbraccio con lo sguardo
Questa steppa e questi campi,
Mi concederà Iddio misericordioso,
Mi chiedo, di rivedere, vecchio, la libertà?
Vorrei andare in Ucraina,
Vorrei andare a casa,
Mi direbbero ‘bentornato’,
Gioirebbero per questo vecchio;
Riposare un po’ laggiù potrei,
Pregando il Signore,
Là potrei… Ma che vale anche solo
A ciò pensare, non ne vien nulla.
Com’è possibile in schiavitù
Passar la vita, senza speranze?
Ditemelo voi, buona gente,
Sennò impazzisco…
Fortezza di Orsk, 1848 (Poesie liriche)
Ševčenko si scaglia con furore romantico contro il potere dispotico degli zar che nei secoli ha umiliato e schiacciato la sua patria; canta le lacrime e il sangue di cui è irrorata la sua terra, il peso delle catene, il pianto delle madri.
Ricordando la monumentale statua innalzata dalla zarina Caterina a Pietro Primo a San Pietroburgo detta Il Cavallo di bronzo (1782), esclama:
Ecco, ora leggo
Quel ch’è inciso sulla pietra:
Al Primo - la Seconda
Tal meraviglia ha innalzato.
Ora lo so:
Questo è quel Primo che crocifisse
La nostra Ucraina,
E la Seconda il colpo di grazia inflisse
Alla vedova abbandonata.
Carnefici! Cannibali!
Si saziarono l’uno e l’altra,
Han rubato a piene mani; ma con sé
Che portarono poi all’altro mondo?
(Poemetti, Il sogno).
La poesia e più in generale l’arte sono elementi decisivi nel forgiare la coscienza patriottica popolare che si nutre della poesia dei vati quando si accende la rivolta contro l’invasore.
Oggi è possibile che la memoria storica illuminata dalla poesia di Taras Ševčenko riscaldi i cuori ardimentosi dei giovani di Kiev e rafforzi la legittima aspirazione alla libertà: da vivere in un mondo dove:
...Della santa verità e dell’amore
L’alba universale s’innalzò!
E pace e gioia portò
Agli uomini in terra.
(Neofiti, Poema 1857).
È l’alba universale della “pace in terra” nata a Betlemme.
(*) Citazioni tratte dal prezioso libro di Giovanna Brogi e Oxana Pachlovska Taras Ševčenko, “Dalle carceri zariste al Pantheon ucraino” (Mondadori 2015). Alle stesse autrici si deve la traduzione per la prima volta in italiano dei testi poetici di Ševčenko riportati nel libro (anche in ucraino), corredato da 16 tavole che riproducono opere d’arte dello scrittore e pittore (persone, paesaggi, luoghi…) descritti e commentati.
Della stessa Oxana Pachlovska Ucraina tra occidente e oriente d’Europa, Roma 2018, Bardi Edizioni, reperibile su Internet.
UN LIBRO
Il processo di Shamgorod (Elie Wiesel)
di Vincenzo Alessandro
Elie Wiesel fu insignito del Premio Nobel per la pace nel 1986, per la sua attività di testimonianza degli orrori della Shoah, durante la quale perse entrambi i genitori e una sorella più giovane, oltre che subire un periodo di prigionia nel campo di Auschwitz, all’età di diciassette anni. Di qui il suo successivo impegno a difesa delle minoranze ebraiche ovunque nel mondo. Tuttavia, il Nobel non sarebbe stato certo inappropriato se fosse stato attribuito, invece che per gli indiscussi meriti civili, per l’intensa attività letteraria di Wiesel, sulla quale ha evidentemente prevalso la drammaticità della vita che gli toccò in sorte.
Ma, in qualche modo, la frattura si ricompone alla luce del fatto che la vita e la letteratura di Wiesel costituiscono un nodo inestricabile, non solo nel senso più evidente che la sua scrittura sia riconducibile alle vicende che ebbe a vivere (aspetto ineludibile del suo profilo di autore) ma anche in quello più ampio del profondo radicamento della sua letteratura nella cultura e nella vita delle comunità yiddish dell’Europa centro orientale. In altri termini, Elie Wiesel non fu solo l’autore de La Notte, drammatico e intenso racconto dell’internamento nel lager, ma anche di opere come Personaggi biblici attraverso il Midrash, Maestri e leggende del Talmud, Il Golem, L’Ebreo errante, e via elencando, fino a costituire un cospicuo lascito letterario, pubblicato in Italia dalla casa editrice Giuntina. E questa eredità letteraria, nella quale è possibile rinvenire il racconto della persecuzione nazista, ma anche l’analisi originale delle narrazioni fondanti dell’identità ebraica, è tutta il frutto dell’ebraismo di Wiesel, dell’influenza esercitata su di lui dall’ambiente familiare, dell’infanzia che trascorse a Sighetu, cittadina di una regione a cavallo tra Romania e Ucraina, tipico territorio di insediamento di comunità ebraiche frequentemente sottoposte ai pogrom, cioè a devastazioni e uccisioni di cui la Shoah fu solo l’ultimo episodio, anche se il più assurdo e stupefacente.
Tra i tanti titoli della produzione di Wiesel, ce n’è uno Il processo di Shamgorod, particolarmente intenso e complesso, anche se, forse, meno conosciuto di altri. Si tratta di un testo teatrale in tre atti, ambientato, come si legge nella pagina introduttiva, “da qualche parte, in un villaggio sperduto, non lontano dal Dniepr”, in un giorno preciso, il 25 febbraio 1649, come ci informa il sottotitolo dell’opera. Un’epoca nella quale i cosacchi di Bohdan Chmel'nyc'kyj detto "Bogdan il Nero”, celebrato come un eroe nazionale ucraino, si sollevarono contro il dominio polacco e si legarono politicamente alla Russia zarista, iniziando una vicenda storica i cui riflessi sono in qualche modo presenti anche oggi, nelle cronache della guerra che martirizza l’Ucraina contemporanea. Frequenti i pogrom, come si è detto, di cui furono vittime, durante la sollevazione di Bodgan, gli ebrei residenti in quei territori, identificati come parte del potere economico dell’epoca. Si calcola che gli ebrei uccisi nel corso della rivolta di Bogdan il Nero siano stati almeno 100.000, una cifra di tutto rispetto in relazione alla demografia dell’epoca, con la distruzione di almeno un terzo delle comunità ebraiche stanziate su quei territori.
Il processo di Shamgorod si svolge dopo la rovina della comunità ebraica di questo ipotetico paese, perduto in mezzo al nulla, alla quale sopravvivono un locandiere, Berish, e sua figlia Hanna, rimasta traumatizzata dall’evento. Nella loro oscura locanda, nella quale lavora anche Maria, una cameriera cristiana, giungono tre viaggiatori, che si rivelano essere una piccola compagnia di attori girovaghi, anch’essi ebrei, in cerca di guadagni in occasione della festa del Purim, con la quale si ricorda la storia biblica della regina Ester. Ben presto, tra i fumi dell’alcol e dopo il drammatico annuncio di un pope, un prete ortodosso venuto nella locanda per avvertire gli avventori del pericolo di una nuova aggressione antiebraica che si stava preparando, il discorso prende la strada della giustizia di Dio, del suo mancato intervento a difesa del proprio popolo, soggetto a continue persecuzioni e massacri senza fine.
Problema antico, nella cultura ebraica, quello della giustizia divina, della teodicea, come la definì poi Leibniz. Risale a Giobbe il lamento del giusto travolto dal male nonostante la probità del proprio comportamento, un lamento che, nel libro biblico, trova, a un certo punto, un riscatto, ma non una spiegazione. A Giobbe, in forza della sua fede, vengono, infatti, restituiti ricchezza, greggi, figli, ma rimane, tuttavia, insoddisfatta la domanda che egli aveva gridato dal profondo della propria disperazione: perché la sofferenza del giusto, quando invece spesso il malvagio prospera? Non diversa da questa è, a ben vedere, l’angosciosa richiesta del taverniere di Shamgorod: “Voglio capire perché Dio dia agli assassini la forza e alle vittime le lacrime, l’impotenza e la vergogna”.
Su queste domande, nonostante la drammaticità del momento e la minaccia di un’ennesima devastazione, viene istituito, in un contesto esaltato e delirante, un sommario processo a Dio (contumace), nel quale ognuno dei personaggi di Wiesel gioca un ruolo: il taverniere Berish è l’accusatore, il capocomico Mendel è il presidente del tribunale, gli altri due attori della sua compagnia compongono la corte, e, infine, Maria, l’inserviente, l’unica cristiana, svolge il ruolo del pubblico. Manca ancora un protagonista, tuttavia essenziale per la regolare celebrazione del processo: l’avvocato difensore di Dio. Nessuno sembra volersi assumere questo ruolo, e i protagonisti della vicenda si avviano già a chiudere il processo, quando, inaspettato, giunge Sam, un enigmatico personaggio, di cui si sa che aveva soggiornato nella taverna tempo addietro, che si dichiara subito disposto a ricoprire quel ruolo.
“Intelligente, tagliente, freddo, ma cortese”. Così lo caratterizza Wiesel, nella descrizione dei personaggi che precede lo svolgimento del dramma. E tale si rivela nel corso del dibattimento. Di fronte alla veemenza dell’accusatore Berish, che rimprovera Dio di aver assistito inerte all’uccisione degli ebrei, Sam risponde sempre in modo coerente, prospettando un altro punto di vista, ponendo l’accusatore di fronte alla relatività della propria accusa, anche quando questi richiama la crudeltà dell’uccisione. “Uomini e donne si uccidono fra di loro, e voi mettete Dio tra gli assassini, mentre si trova tra le vittime”, risponde Sam, rovesciando la logica di Berish, e prospettando un Dio a cui non fa, quindi, difetto la pietà, ma piuttosto l’onnipotenza. Una conclusione alla quale giungerà anche il filosofo Hans Jonas, nel suo Il concetto di Dio dopo Auschwitz, del 1984, quindi più o meno coevo del testo di Wiesel, che è del 1979.
Ma chi è, dunque, Sam? Da dove deriva questa sua fede incrollabile, questa volontà di difendere Dio e il suo operato anche di fronte a eventi così calamitosi, che interrogano profondamente l’uomo? Un angelo, uno zaddik, cioè un maestro? L’interrogativo si scioglie nell’ultima battuta del testo, che preferiamo non riportare, per lasciare intatta la scoperta a chi vorrà leggerlo direttamente.
Ci preme, invece, evidenziare un aspetto di dettaglio del testo di Wiesel, che tale in effetti non è. Quando ormai è chiaro che si profila all’orizzonte un nuovo assalto a danno degli ebrei della locanda, il pope, il prete ortodosso, prova due volte a proporre una via di salvezza ai presenti: la conversione al cristianesimo, magari anche fittizia, ma tale da fornire uno scudo protettivo alle vittime incipienti del nuovo massacro. La risposta è ferma, non aulica, ma umana, nel tono geloso e piccato che le è inopinatamente proprio: “C’è il Dio di Israele e c’è il popolo di Israele: nessuno ha il diritto di immischiarsi nei loro affari”. Ancora una volta Wiesel rivendica quello che gli ebrei considerano il carattere esclusivo del rapporto di Dio con il proprio popolo. Si può criticarLo, si può denigrarLo, persino processarLo, ma mai rinnegarLo. Questa è l’identità e la funzione del Popolo Eletto: una funzione di testimonianza da assolvere anche a costo di un sacrificio di cui non si comprende lo scopo ultimo.
Il processo di Shamgorod, Giuntina 1982 (trad. Daniel Vogelmann)
AUTOBIOGRAFIE SCOLASTICHE
Klaus Mann
di Mario Bertin
Klaus Mann (1906-1949) è il secondogenito di Thomas Mann. Quello dei sei fratelli che più subì il fascino e che più fu condizionato dall’ombra del padre, premio Nobel per la letteratura, che lui chiamava “il mago”. Fin da giovanissimo cercò di seguirne l’esempio, scrivendo poesie, romanzi e drammi, che mise anche in scena come regista e come attore. Praticò inoltre la danza. A vent’anni pubblicò il suo primo romanzo.
Legato particolarmente alla sorella Erika, condivise con lei l’intero periodo della formazione scolastica, che si svolse principalmente in un collegio di campagna, come era usanza della borghesia tedesca di allora, e come narra nel libro Figlio di questo tempo, un classico del genere autobiografico, che conobbe un grande successo. Da esso sono tratti i brani pubblicati qui di seguito. Nonostante tutto questo, Klaus Mann fu uno scolaro svogliato.
Su questa esperienza, egli scrive: “Chi una volta ha respirato l’aria del collegio di campana, non si toglie più dal sangue il suo fascino. Ogni persona di una certa sensibilità che abbia vissuto un po’ di tempo in un posto simile vi confesserà che c’è qualcosa di magico in quel paesaggio isolato che è lontano come un chiostro dal viavai del mondo ed è solo animato dalle conversazioni e dai canti, dalle risate e dai sospiri della gioventù”.
“Ma i sogni sono anche i desideri di cambiare il mondo”, chiosa Nino Muzzi, nell’introduzione dell’edizione italiana da lui curata. E il suo desiderio di cambiare il mondo si concretizzò in una scelta politica di sinistra, come egli stesso dichiarò, anche se culturalmente lontana dal marxismo. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Klaus Mann si trasformò in un intellettuale militante, antifascista attivo su svariati fronti. Fu, scrive Muzzi, “una sorta di riscatto morale per la vita precedente che aveva trascorso da esteta e letterato puro”. Si impegnò nella lotta contro il nazismo. Il regime reagì mettendo al bando tutti i suoi libri. Costretto all’esilio, fuggì dalla Germania. Si rifugiò alla fine in Francia, dove alla fine del mese di maggio 1949 morì suicida.
In quel collegio di campagna
(Pasqua 1922-estate 1923)
La Bergschule consisteva di diverse case, un edificio principale e tre o quattro secondari. Si trovava oltre un villaggio di cui il fornaio Fink e la trattoria Öchler costituivano le attrazioni. Il luogo più vicino di una certa grandezza era Fulda. Dietro le costruzioni della scuola c'erano le colline, il bosco e un torrente di montagna che si chiamava Schwarzbach.
[…]
I principi del nostro professore e dirigente sembravano dei più moderni sebbene lui stesso sembrasse di una natura non tanto radicale quanto piuttosto borghese-moderata. Era intelligente e benevolo, sebbene non fosse del tutto all'altezza di far fronte alle sorprendenti difficoltà che gli derivavano da quella straordinaria accolita di giovani che si trovavano lassù. Progressivo, benevolo e abbastanza intelligente da lasciarci piuttosto liberi, com'era, mancava comunque della suggestiva energia personale e della capacità di empatia psicologica per venire a capo di tutto quel rigoglio di fioritura che caratterizzava la nostra bella e pericolosa libertà.
Godevamo delle conquiste della riforma scolastica radicale: dalla spartana semplicità della vita quotidiana a partire dal “lavoro pratico” e dal rifarsi il letto da soli fino alla coeducazione e al sistema dei corsi d'insegnamento che rimpiazzava il sistema delle classi; dalla comunità scolastica in cui si discuteva dei problemi degli allievi nel loro insieme e di tutte le cose più importanti, fino all'istituzione del tutoraggio di un allievo più anziano su un allievo più giovane. La parola “comunità” era dominante nella terminologia di quei collegi. Quanto ci ribellavamo noi a questo concetto che sottintendeva un comando e come esercitavamo su di essa la nostra ironia! Malgrado ciò, a poco a poco senza accorgersene, noi la vivevamo, quella comunità – se non nel senso di una fresca e gioiosa comunità di lavoro, come desiderava il nostro professore, sicuramente però come una comunità di problemi, d'insicurezze comuni e di comuni preoccupazioni. Resta decisivo il fatto che noi fossimo tutti dei giovani – qualsiasi cosa volessimo farne, di quella gioventù. Come straordinario regalo del Movimento della gioventù ci toccò di vivere quegli anni in piena coscienza e orgoglio con tutta la loro lacerazione, con tutta la loro mancanza di chiarezza e con tutta la loro sofferenza, non come preparazione a una qualche esistenza “adulta” che stimavamo davvero poco. Della freschezza, della vicinanza alla natura e dell'ottimismo di quel Movimento della gioventù condividevamo poco, piuttosto invece condividevamo l'orgoglio, quasi doloroso, dell'essere giovani, che è un orgoglio buono e fruttuoso fintanto non degenera nell'assurda superbia della giovinezza, cosa che succede facilmente.
Ci ambientammo subito, Erika e io, ciascuno a modo suo. Erika diventò rapidamente un “sostegno della scuola”, il professore aveva una particolare fiducia in lei. Lei poteva essere nel lavoro positivo esattamente così energica come nel sarcasmo distruttivo. Il suo “protetto” diventò il figlio carino e bravo di uno scultore svizzero. A me invece non assegnarono nessun protetto, in quanto ero troppo giovane, ma forse anche perché ero troppo di dubbia fama. La mia esperienza della comunità fu segnata dal contrasto. È vero che mi feci rapidamente delle amicizie, soprattutto fra le ragazze, ma con loro formai un gruppo di outsider, più che mettermi con loro al servizio della cosa che comunque riconoscevo giusta e apprezzabile. In certi anni si può ottenere qualcosa per se stessi solo da un atteggiamento negativo. Ho vissuto la comunità, quella comunità che credevo di rifiutare, con una tale intensità che ancor oggi quell'esperienza non ha cessato di avere un effetto in me.
[…]
Io raccoglievo intorno a me tutti coloro che erano altrettanto avidi di scherzi coloriti e peccaminosi, mentre Erika consolava i problematici, gli agitati, i totalmente sconvolti. Quante sere saranno stati con lei Alex e Karl Richard, assieme addirittura a qualche giovane insegnante che non riusciva ancora a venir a capo di se stesso, per confessarle i dubbi spirituali e le crisi di coscienza di cui soffrivano. Karl Richard di un'intelligenza vivace, addirittura violenta e a un tratto aggressiva, esibiva il suo spirito di rivolta su una fronte tenuta alta dall'orgoglio e nei due occhi di un grigio acciaio, rotondi, spalancati, che guardavano quasi irosi sotto le bionde sopracciglia aggrottate per un'intima sofferenza. Lui mi disprezzava un poco in quanto mi riteneva viziato e deboluccio. Ciononostante parlavamo appassionatamente per delle ore di grandi temi, soprattutto di letteratura. Fu lui che a quel tempo mi fece scoprire Büchner. Danton, Woyzeck, Leonce e Lena furono le mie grandi scoperte letterarie di allora. Ogni due lettere mi metto a citare le parole della ragazza: Marion, che approda alla stessa cosa da cui deriva la gioia. «Chi più gode, più prega».
[…]
La mia passione di attore riuscì a far riconciliare almeno un po' la direzione scolastica e anche il professore deluso dalla mia abituale trascuratezza e renitenza, ché ero un membro ribelle e indolente di quella comunità oltre ad essere un allievo altrettanto scadente come quando frequentavo il ginnasio e altrettanto maldestro nei lavori pratici (spaccare la legna, sbucciate le patate e via dicendo). Mi piacevano le lezioni di armonia di un uomo molto serio e ironico di nome Hitzig, ma anche in quel campo non riuscivo un granché. I miei versi confusi e pieni di sentimentalismo informe li conoscevano solo i più fidati. C'era motivo per considerarmi un elemento disgregatore. Non ero affatto il solo colpevole della decadenza interna della scuola – che terminò con il suo estremo dissolvimento, ad ogni modo è certo che io vi contribuii. Quel processo di dissoluzione me lo godetti intimamente e da incosciente che guarda lo spettacolo dal solo lato estetico. – Col professore non ebbi mai il minimo contatto, cosa che oggi attribuisco più alla sua colpa che alla mia. Non c'è dubbio che all'epoca io lo sottovalutavo, lui era intelligente, giusto e solerte, ma dalla sua fronte preoccupata non emanava alcun tipo di fascino. Cos'è un pedagogo che non sa catturare gli animi?
[…]
All'epoca non sapevo altro che di essere giovane. […] Non avevo altro orgoglio se non quello di essere figlio di un'epoca pericolosa. La seguente frase orgogliosa e malinconica di Hofmannsthal l'avevo posta, allora, all'inizio della mia novella I giovani:
Prendete nota, prendete nota, l'epoca è speciale.
Ed ha figli speciali, cioè noi.
[…]
Mi sembra di aver vissuto in quei mesi una sorta di continua estasi religiosa (dove ho certamente cancellato dalla memoria le ore monotone della quotidianità). Quell'atmosfera mistica però era attraversata e insaporita da un umorismo barocco e da un cinismo stranamente erotico, nonché da una certa stridente indecenza che sentivamo come un necessario completamento della nostra interiorizzazione nella ricerca di Dio. Amavamo Wedekind come amavamo Angelus Silesius. Oltre alla lirica religiosa nei miei quaderni di allora si trovano alcune “visioni oscene” che si sono sbiadite. La modestia era quasi sempre soltanto predicata, la smania di grandezza invece autentica. Una tale ebbrezza della coscienza di sé non la proverò mai più. L'idea fissa di essere degli eletti era per noi una premessa sottintesa. – Vogliate perdonarmi se m'intrattengo un po' più dettagliatamente su quegli stati d'animo immaturi e neppur troppo simpatici: da un lato mi sembrano molto tipici dell'età giovanile, dall'altro caratteristici del tempo e del luogo che li incoraggiavano e quindi degni di essere narrati. Un individualismo estremo e sfrenato ci portava fino alla divinizzazione di noi stessi. Questi folli trionfi dell'Io pensavamo di doverli riscattare con atti di modestia, ma questi non erano altro che testimonianze della nostra smania di grandezza. («Solo chi si è umiliato – come me, può essere orgoglioso e solitario come me!» era uno dei motti che preferivo a quel tempo). – Il “Signore abbi pietà di me” ritorna come un leitmotiv nella mia produzione terribilmente ibrida e maldestramente rigida di quell'anno. Ho diritto a sperare che in qualche momento fosse espressione di una autentica contrizione e di una vera difficoltà psicologica. Mi spaventavo delle altezze vertiginose verso cui mi stavo avventurando.
«Ci hanno chiamati pretenziosi – ma ci dovevano chiamare precoci» è con questa frase che iniziavo Il motto dei giovani, dopo che ancora sei mesi prima ero stato così pessimista e così di poca fede. Al quaderno spesso di tela cerata, pieno di versi e di aforismi, avevo premesso il motto: «Il peccato più grosso è la mezza misura». E appena sedicenne con la più grande temerità prendo per me la frase: «Io non annuncio niente, io sono».
Klaus Mann, Figlio di questo tempo, Castelvecchi, Roma 2022, pp. 141-157
ZIBALDONE MINIMO
Ab-umano
di Gianni Gasparini
Il termine “umano” evoca alcuni aggettivi in chiave contraria come disumano e inumano: essi indicano crudeltà e spietatezza, e in modo ancora più profondo un comportamento che non ha nulla di ciò che è proprio dell’uomo. Altri sinonimi di questo genere si rintracciano in aggettivi quali efferato, feroce, selvaggio, barbaro, oltre che subumano.
Non mi risulta che il termine ab-umano esista, ma vorrei proporlo come neologismo intuitivo per indicare nel modo più forte e tassativo possibile la mancanza di umanità, e più precisamente l’allontanamento (ab, via da) da una dimensione o da un comportamento umano che venga posto in essere da parte di singole persone o di collettività, soprattutto stati, nei confronti di individui o gruppi sociali. L’umanità come la intendevano i romani differisce dalla nostra, evidentemente, ma ha anche notevoli punti di contatto: noi stessi, oggi, quando ci poniamo di fronte a gesti che contraddicono in modo lampante i nostri valori di fondo, le regole base della convivenza o i cardini della nostra “civiltà” come il diritto, usiamo il termine barbaro.
Nel passato recente, dal Novecento ad oggi, credo che il termine ab-umano si possa impiegare opportunamente in almeno tre casi storici: il primo è quello è del nazismo, che nel suo delirio ideologico volto ad esaltare la razza ariana e ad eliminare fisicamente milioni di ebrei durante la guerra si è posto, con un giudizio storico condiviso, al di fuori dei criteri accettabili di umanità. Ad esso si può appaiare la feroce dittatura dello stalinismo, con le decine di milioni di vittime causate in Urss anche prima della seconda guerra mondiale.
Il terzo caso, molto più recente, è imputabile a mio avviso al vasto e ramificato mondo dell’islamismo terrorista, responsabile nel mondo da ben oltre un ventennio di migliaia di attentati feroci ai danni di persone innocenti. Mi limito a citare per memoria, tra moltissimi altri casi dolorosi, l’11 settembre 2001 che vide l’attentato alle Torri gemelle e la strage del teatro Bataclan a Parigi, nel 2015. Si tratta di attentati che sia come motivazioni di fondo che come modalità di espressione ed esecuzione evocano modalità arcaiche e assolutamente inaccettabili, particolarmente feroci e barbare per i nostri tempi.
Il terzo caso è quello che abbiamo tutti sotto gli occhi dal 24 febbraio 2022, una data destinata a diventare uno spartiacque della storia d’Europa e del mondo: l’occupazione e la guerra scatenata a sorpresa dalla Russia di Putin contro l’Ucraina senza alcuna motivazione né provocazione contingente, dopo aver finto di svolgere esercitazioni ai confini ucraini (con duecentomila uomini armati!) e dopo aver definito “operazione speciale” la guerra che era stata dichiarata all’inizio per “difendere” le minuscole pseudorepubbliche filorusse e autoproclamatesi (che corrispondono a circa il 2% della popolazione ucraina) e si è rivelata subito una guerra contro tutta l’Ucraina e un tentativo di occupazione della medesima in tutti i suoi territori.
Non si tratta ovviamente di riscrivere qui l’analisi della stragrande maggioranza della stampa e dei media mondiali, ma di osservare – con estrema angoscia e senso di umanità – l’incedere spietato del bombardamento russo sulle città ucraine, parecchie delle quali resistono finora, pur incendiate e distrutte. Il bombardamento di case, quartieri cittadini, ospedali (Mariupol) è considerato universalmente un crimine di guerra. E così pure l’uccisione di cittadini inermi per le strade: particolarmente impressionante e choccante, tra migliaia di altri casi, è stata la fotografia della famigliola (padre, madre, due bambine con il cane) uccise mentre cercavano di fuggire da Irpin vicino a Kiev (prime pagine dei quotidiani in data 8 marzo 2022).
E che cosa dire dell’angoscia e del terrore dei fuggitivi, di quei milioni di ucraini (tra cui predominano donne, bambini e anziani) che hanno trovato un riparo provvisorio o lo stanno cercando in Polonia, Romania, Moldavia e negli altri paesi europei che li accoglieranno, tra i quali c’è senz’altro il nostro? E quali misure usare con chi continuamente mente, fingendo negoziati mentre non cessa neanche per un giorno di bombardare e terrorizzare, con chi nel proprio paese (la Russia) ha chiuso con violenza e pene severissime di carcere ogni mezzo indipendente di informazione, dalla stampa ai corrispondenti esteri e ai social media?
E, infine, quali parole usare per chi nonostante i richiami continui di capi di stato e di una personalità straordinaria ed evangelica come papa Francesco (esattamente all’opposto del sedicente cristiano Kyrill patriarca di Mosca che incita alla guerra contro gli ucraini e gli occidentali depravati) e continua ad attuare una distruzione sistematica di un paese libero e indipendente da 30 anni, violando in modo plateale ogni forma di diritto e di accordi sottoscritti?
L’unica parola che mi viene è che si tratta di un comportamento ab-umano, di gesti ab-umani. Gesti che avranno conseguenze devastanti e a lungo termine dal punto di vista della pace, della concordia tra gli umani.