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Il Punto: Fioramonti lascia, il ministero si sdoppia (Maddalena Gissi)
La pianta del mese: Fagonia cretica (Eva Kaiser - Flavia Milone)
Il Cantico: Ecologia integrale. Un concetto "ad ampio spettro" (Giannino Piana)
Il filo dei mesi: Gennaio bifronte, tra vecchio e nuovo anno (Gianni Gasparini)
Aforismi: Sa domo est minore, su coro est mannu (Leonarda Tola)
Hombre vertical: Un cartoncino e due cartelli (Emidio Pichelan)
Ricorrenze: Lettera a un neonazista (R. Mantegazza)
Note musicali: Maurice Ravel, Jeux d'Eau (Francesco Ottonello)
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IL PUNTO
di Maddalena Gissi
Fioramonti lascia, il ministero si sdoppia
Tutt’altro che all’insegna del relax le vacanze di Natale che si stanno avviando a conclusione. Almeno per il nostro comparto, quello dell’istruzione e ricerca, che fra Natale e Capodanno è stato interessato dalle dimissioni del ministro Fioramonti, presentate il 23 dicembre e rese di pubblico dominio il 26, dimissioni motivate con l’esiguità delle risorse stanziate in legge di bilancio per la scuola e l’università. Voci di un possibile abbandono dell’incarico – ipotesi ventilata peraltro dallo stesso Fioramonti ancor prima di prestare giuramento come ministro - erano già circolate nei giorni precedenti, tanto da divenire oggetto di discussione anche nell’incontro in cui si esperiva il tentativo di conciliazione richiesto dai sindacati dopo la proclamazione dello stato di agitazione. La riunione si era tenuta al MIUR la sera del 19 dicembre, con una diretta partecipazione del ministro che era parsa di fatto una smentita di quelle voci, tanto più perché il verbale con cui si chiudeva positivamente la conciliazione delineava, d’intesa col ministro, una fitta agenda di incontri fissandone l’avvio a scadenza molto ravvicinata. Impressione smentita nel giro di pochi giorni, con la successione di eventi a tutti nota e che ha portato alle decisioni annunciate dal premier Conte in diretta TV nella sua conferenza stampa di fine anno, decisioni anch’esse abbastanza sorprendenti perché comprendono anzitutto quella di uno “spacchettamento” del MIUR, acronimo da ritenersi ormai superato, ritornando alla situazione antecedente il 2001 (e riproposta nel biennio 2006-2008), con la presenza di due diversi e autonomi ministeri: uno per l’istruzione, uno per l’università e la ricerca.
La suddivisione del MIUR fa sì che al ministro dimissionario ne subentreranno due: Lucia Azzolina all’istruzione, dove proseguirà al più alto livello di responsabilità l’esperienza già svolta come sottosegretaria del MIUR; Gaetano Manfredi all’Università e Ricerca, scelta che il premier ha voluto legare esplicitamente al ruolo svolto come presidente della CRUI, la conferenza dei Rettori delle Università italiane, assegnandole in tal modo un profilo che sembrerebbe di prevalente natura “tecnica”.
Da più parti la decisione di scorporare il MIUR è stata salutata con favore, legandola al fatto che nei confronti internazionali è proprio il settore dell’Università a registrare le criticità più accentuate, che incidono fortemente nel determinare una complessiva condizione di svantaggio e ritardo dell’Italia rispetto agli altri Paesi. Da qui la necessità di un’attenzione più marcata e specifica. Non mancano voci di segno opposto, che sollevano il problema dell’incremento di spesa derivante dallo sdoppiamento di uffici e apparati oggi facenti capo a un unico dicastero. Argomento di facile presa di questi tempi, nei quali l’abbattimento dei costi della politica, esigenza in sé sacrosanta, diventa spesso una bandiera da sventolare per la cattura di facili consensi. L’augurio è che prevalga nei fatti l’intento di rilanciare un settore in difficoltà, e il prestigio di cui gode il neo ministro Manfredi dà in questo senso buone garanzie, senza tuttavia dimenticare che una politica di forte e significativo investimento in conoscenza chiama in causa, necessariamente, impegno e responsabilità del Governo nel suo complesso.
Per quanto riguarda l’istruzione, l’annunciata nomina di Lucia Azzolina segna un punto di continuità che può risultare importante per garantire una positiva prosecuzione di percorsi avviati con precedenti intese e da ultimo ridefiniti nei verbali che hanno chiuso positivamente i tentativi di conciliazione del 19 dicembre (personale docente, educativo e ATA) e del 20 dicembre (dirigenza scolastica).
Gli auguri per il nuovo anno diventano quindi anche auguri di buon lavoro che senz’altro rivolgiamo ai ministri Azzolina e Manfredi. Assicurando loro, come sempre avvenuto con quanti li hanno preceduti, la massima disponibilità a un positivo e costruttivo confronto. Siamo un sindacato che crede nel dialogo e lo pratica costantemente, che fa della contrattazione il proprio campo d’azione privilegiato; un sindacato che agisce con determinazione, ma sempre leale e responsabile nelle relazioni con i suoi interlocutori. Pronto a mobilitarsi quando è necessario, ma sempre traguardando come obiettivo dell’azione sindacale la costruzione di accordi e intese che producano risultati concreti.
Fondamentale, e su questo chiediamo il massimo impegno anche ai nuovi ministri, che il 2020 non sia un anno di parole, di proclami, di promesse più o meno azzardate, ma sia invece un anno di impegno intelligente, serio e coraggioso per sostenere l’efficacia e la qualità del sistema d’istruzione, anche riconoscendo e retribuendo finalmente come merita il lavoro che ogni giorno vi si svolge. Un impegno i cui frutti siano visibili nei fatti, già a partire dall’elaborazione delle prossime indicazioni di politica economica e finanziaria. Perché sia davvero un buon anno, e per la scuola veramente nuovo.
LA PIANTA DI COPERTINA
Disegno di Eva Kaiser
Testo di Flavia Milone
Fagonia cretica
La Fagonia cretica è considerata una specie in pericolo di estinzione ed è stata per questo inserita nelle liste delle specie a rischio dalla International Union for Conservation of Nature (IUCN) nel 2006. E’ una pianta annuale, con gemme poste a livello del terreno e con asse fiorale allungato, spesso privo di foglie. Presente in quasi tutte le zone del mondo, predilige le praterie steppiche perenni su rilievi collinari argillosi; in Italia il suo areale di distribuzione è in Sicilia e in Calabria. In particolare in quest’ultima regione è presente in 6 microstazioni; due di queste, le più ricche in individui, ricadono all’interno del Sito di Importanza Comunitaria “Calanchi di Maro Simone”.
L’etimologia del genere Fagon deriva dal botanico francese Gui-Crescent Fagon (1638-1718) professore di Botanica al Giardino Reale di Parigi che ne pubblicò il catalogo dal titolo 'Hortus Regius Parisiensis', mentre quella della specie cretica dall' isola di Creta.
La pianta è conosciuta anche con il nome de “Il Mantello della Vergine” e viene comunemente utilizzata, nelle zone rurali del Pakistan, come tisana per trattare le donne affette da cancro al seno.
Molte sono le minacce che colpiscono la popolazione di Fagonia cretica in Italia, principalmente i cambiamenti negli usi del suolo dovuti all'espansione urbana e al rimboschimento con piante esotiche. Il pericolo maggiore per la conservazione della specie in Italia è rappresentato dalle modificazioni dell’habitat, dovute ad una intensa pressione antropica.
IL CANTICO
Ecologia integrale
Un concetto "ad ampio spettro"
di Giannino Piana
Il concetto di “ecologia integrale” costituisce l’idea portante attorno a cui ruota l’intero contenuto della Laudato si’ di papa Francesco. La “cura della casa comune” – è questo il sottotitolo dell’enciclica – implica infatti attenzione ai vari aspetti sotto i quali la questione ecologica si presenta – da quello scientifico-tecnico a quello antropologico, da quello culturale a quello etico – e comporta l’adesione a una visione “integrale” dell’ambiente come habitat nel quale si dispiega l’esistenza umana.
Alla definizione di tale concetto (1) e delle ragioni della sua crisi (2), ma soprattutto delle radici antropologiche e teologiche da cui trae origine (3) sono dedicate queste note, le quali approdano, infine, alla delineazione dei connotati che l’impegno etico deve assumere se intende porsi al servizio del bene comune (4).
1. I vari significati dell’ambiente e le cause della crisi
La considerazione da cui papa Francesco prende avvio nell’affrontare la questione ecologica è la constatazione della stretta correlazione esistente tra “questione ambientale” e “questione sociale”. Ripetutamente egli infatti afferma che “ambiente umano e ambiente naturale si degradano insieme” e che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri (n. 49).
Queste importanti affermazioni conferiscono alla questione ecologica il carattere di una particolare prospettiva attraverso la quale è possibile osservare la realtà sociale nella sua globalità e progettarne il cambiamento. È allora evidente – e il papa non manca di rilevarlo – che tanto l’analisi delle cause della crisi attuale quanto la ricerca delle soluzioni non possano prescindere dall’attenzione alle interazioni esistenti tra sistemi naturali e sistemi sociali (n. 139). Con l’idea di “ecologia integrale” si designa dunque un processo che si estende ai vari ambiti dell’esperienza umana, e che si caratterizza per una concezione dell’ambiente riconducibile a tre valenze diverse e complementari:
a) l’ambiente come intreccio tra patrimonio naturale e patrimonio storico-culturale, dovuto all’intervento trasformatore dell’uomo (n. 143).
b) l’ambiente come “mondo vitale” entro il quale ha luogo lo sviluppo delle relazioni umane e il perseguimento della qualità della vita (n. 147).
c) l’ambiente come ambito di edificazione del “bene comune” mediante l’attuazione della giustizia sociale (156-159).
L’adesione a questa visione globale dell’ambiente implica la messa sotto processo del “paradigma tecnocratico” – così lo definisce papa Francesco – che guarda alla tecnica in chiave del tutto ottimistica, e considera pertanto la “natura” come realtà totalmente disponibile all’intervento manipolativo dell’uomo volto ad ottenere un quantitativo sempre maggiore di beni, in vista della soddisfazione di bisogni spesso indotti dalla pressione sociale dei media (nn. 106-108).
Profitto e mercato divengono, in questa ottica, il criterio valutativo dell’agire, riducendo di conseguenza l’ambiente a mero contenitore di risorse da sfruttare e dando vita a uno stato di alienazione, con prospettive allarmanti soprattutto per le generazioni future (n. 109).
2. Le radici antropologiche e teologiche
Ciò che da tutto questo emerge è l’incapacità “a riconoscere il messaggio che la natura porta inscritto nelle sue stesse strutture” (n. 117) e il cui contenuto è rintracciabile attraverso il ricorso a un’antropologia, che ha in alcune categorie della rivelazione biblica le proprie radici (n. 76).
Tra queste categorie un ruolo eminente riveste il concetto di creazione, il quale risulta dai racconti di Gen 1-3 come un concetto dinamico, in cui l’atto originario di Dio rinvia immediatamente alla responsabilità dell’uomo chiamato a portare a compimento il progetto da Lui inaugurato. In questo contesto acquista pieno significato il rapporto che deve instaurarsi tra uomo e natura; un rapporto che ha nei verbi “coltivare” e “custodire” il giardino il criterio del proprio esercizio (Gen 2, 15).
Mentre “coltivare” – osserva la “Laudato si’” – significa arare o lavorare un terreno, “custodire” vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura (n. 67).
L’esercizio della “responsabilità” qui richiamato presuppone si facciano i conti con il riconoscimento “che gli altri esseri viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio” e che è necessario si rispettino “le leggi della natura e i delicati equilibri tra gli esseri di questo mondo” (n. 68). Questione ecologica e questione sociale, custodia del creato e impegno per la giustizia risultano pertanto, anche da questo punto di vista, due istanze essenziali che conferiscono al concetto di “ecologia integrale” pienezza di significato.
L’ingresso di Gesù nella storia umana e l’instaurarsi in essa del regno conferma la prospettiva fin qui delineata e sollecita ulteriormente l’impegno responsabile dell’uomo. Il “farsi carne” (sarx) del Figlio di Dio implica infatti il suo farsi “storia” e “natura”, assumendo pienamente la condizione umana e assegnando alla missione redentiva, che ha il suo compimento nel mistero pasquale, una dimensione universalistica. L’invito che il Maestro rivolge ai discepoli a “riconoscere la relazione paterna che Dio ha con tutte le creature”, ricordando “come ciascuna di esse è importante ai suoi occhi” (Lc 12, 6; Mt 6, 26)” (n. 96), sancisce il rifiuto di ogni forma di manicheismo come di ogni forma di strumentalizzazione. Nel Figlio di Dio la creazione è assunta e trasformata, con l’assegnazione ad essa di un destino eterno al di sotto della universale signoria del Creatore (nn. 98-100).
3. Nel segno della bellezza
L’“ecologia integrale” implica, in conseguenza di quanto si è detto, l’adozione di un’ottica contemplativa capace di penetrare nelle profondità del reale (nn. 216-220). Il creato non ci è dato infatti soltanto come una realtà da cui ricavare beni che sostentano la vita materiale, ma anche (e soprattutto) come realtà da contemplare per il nostro arricchimento interiore. La percezione di questo alto significato è resa possibile anzitutto dalla disponibilità a fare spazio alla dimensione del “mistero”. Si tratta di riconoscere – come ci ricorda la “Laudato si’” – che il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode (n. 12).
L’etica ecologica trae da questo modo di fare l’approccio alla natura il suo senso più profondo (n. 210).
Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia – osserva papa Francesco – se non parliamo il linguaggio della fraternità e della bellezza della nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea (n. 11).
Nella visione cristiana dell’esistenza questo comporta la capacità di scoprire l’azione di Dio in tutte le cose, sperimentando lo stretto legame che le unisce tra loro e che rinvia alla loro sorgente. La spiritualità cristiana culmina infatti nel rendimento di grazie, che ha nell’Eucaristia il suo suggello: in essa il creato, assunto nella sua radicale materialità, diventa oggetto di un processo di autentica divinizzazione (n. 236).
La dimensione contemplativa si nutre dell’apertura alla bellezza come forma di accostamento alla realtà la quale trascende i livelli, pur importanti, della ricerca della verità e dell’impegno per il bene. Il bello trasfigura la conoscenza e l’azione, impedendo che ci si chiuda entro schemi predefiniti, con la presunzione di poter tutto spiegare attraverso il ricorso a paradigmi razionali o esperienziali. La bellezza spinge ad accostarsi alla realtà con gli occhi stupefatti di chi sa cogliere in essa le orme di una Presenza non circoscrivibile né raffigurabile.
4. Le diverse forme di impegno
Ma questo non basta. L’“ecologia integrale” deve anche tradursi nell’assunzione di una serie di impegni, nei quali “questione ambientale” e “questione sociale” vengano tra loro integrate, dando vita un processo di liberazione universalistica, che ha le proprie radici in un modo di “concepire il pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune” (n. 164).
In questo quadro, a dover essere, anzitutto, ripensato e ridefinito è il modello economico. Si tratta di andare oltre la logica quantitativa, che ha come propri i criteri del mercato, della rendita e del profitto, mettendo al centro delle proprie preoccupazioni il rispetto dell’ambiente e l’uso parsimonioso delle risorse, con l’impegno a procedere ad una loro equa ripartizione, privilegiando i bisogni dei più poveri.
Tutto questo chiama in causa la politica, il cui principio ispiratore, il “bene comune”, esige il rispetto di quattro condizioni, che meritano di essere segnalate:
a) l’attenzione al bene delle generazioni future. La solidarietà tra le generazioni esige che a coloro che verranno sia consegnato un mondo abitabile (n. 159).
b) il rispetto delle altre specie. L’osservanza del principio dell’integralità comporta l’esercizio di una responsabilità allargata, con la preoccupazione di non violare equilibri vitali, di proteggere la biodiversità e di rifiutare ogni forma di maltrattamento degli animali.
c) la difesa delle diversità culturali e il riconoscimento dei diritti delle culture. Il principio universalistico esige la creazione di spazi pubblici che consentano la piena espressione delle diverse tradizioni culturali e religiose (n. 144).
d) Infine, il rispetto del paesaggio e, in senso più specifico, del rapporto tra ambiente naturale e ambiente umano. La natura in quanto habitat esige la definizione di un rapporto armonico tra risorse originarie e l’opera trasformatrice dell’uomo.
Si dà qui la saldatura tra rispetto della natura (e della sua bellezza) e promozione della qualità della vita; saldatura che rende evidente la responsabilità umana verso l’ambiente da salvaguardare nella propria integrità e verso l’umanità da promuovere nella propria inalterabile dignità.
5. Il cambiamento degli stili di vita
All’impegno per il cambiamento del sistema economico e politico deve affiancarsi, infine, lo sforzo di ogni persona a modificare il proprio stile di vita, nella consapevolezza che da tale modifica viene la capacità di “esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale” (n. 206).
L’educazione alla responsabilità ambientale – osserva la “Laudato si’” – può incoraggiare vari comportamenti che hanno un’incidenza diretta e importante nella cura per l’ambiente, come evitare l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegnere luci inutili, e così via (n. 211).
La virtù da praticare è in questo caso la sobrietà, la quale ci consente di reagire ad alcuni bisogni indotti dalla pressione sociale per renderci disponibili alle cose che contano, in primis ai beni relazionali, che favoriscono la possibilità di migliorare la qualità della vita e di perseguire la felicità. Ma anche di vivere – è questa l’attitudine del credente – in un perenne “rendimento di grazie”. La bellezza del creato ci rende infatti consapevoli della grandezza del Creatore, e anticipa, grazie all’azione dello Spirito, la gioia della piena comunione celeste, sollecitandoci ad invocare a gran voce: “Vieni, Signore Gesù!”.
ECOLOGICA
Su San Francesco e la sua scelta/testimonianza di povertà ha scritto un piccolo ma denso e coltissimo libro Giorgio Agamben, filosofo ed eclettico autore di importanti saggi che spaziano dall'estetica alla letteratura, alla politica. Di questo libro: Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita (Neri Pozza 2011) proponiamo una recensione di Antonio Lucci, apparsa sul sito di una interessante rivista on line: www.doppiozero.com. La proponiamo in questa rubrica perché può rimandarci al bel contributo di Emidio Pichelan su Francesco “Di un più alto desiderio“ pubblicato nell’ultimo numero di Scuola e Formazione, ma anche sul precedente numero di questa Agenda mensile, accompagnato dalla illustrazione di Ugo Attardi. Per Antonio Lucci, il testo è di una attualità disarmante per un cambiamento che appare, oggi urgente e necessario per superare la pura logica retributiva e proprietaria, e aprirsi a una ecologia integrale attenta all’uso equilibrato e saggio delle risorse e a delle relazioni di fraternità. È per questo motivo che lo proponiamo in questa rubrica.
Giorgio Agamben e l’altissima povertà di Francesco
di Antonio Lucci
La scommessa di Agamben è che i monaci in generale, e i francescani in particolare, abbiano qualcosa da dire alla nostra contemporaneità che si dibatte da almeno tre decenni nei torbidi della fine della storia, delle ideologie e nella crisi plurisecolare delle vocazioni fideistiche.
Agamben propone una ricostruzione “archeologica” del monachesimo (con particolare attenzione, come detto, al fenomeno del francescanesimo) che ha al proprio centro il concetto di forma-di-vita.
Questa ricostruzione, estremamente precisa, basata su un’indagine filologica, storica e filosofica di grande acume è molto più che un libro sulla storia del rapporto tra monachesimo, liturgia, vita in comune e organismi di potere (in particolare il papato).
Le fini analisi di Agamben ci conducono sul tracciato di una controversia che solo superficialmente può essere confinata in un segmento superato della storia occidentale e in un ambito ristretto delle dispute dogmatiche.
Il tentativo di Francesco d’Assisi di stabilire una pratica per i suoi fratres per cui il non possedere nulla, assolutamente nulla, diventasse una forma-di-vita, rappresenta per Agamben un tentativo inaudito nella storia dell’Occidente, e in senso letterale: in-audito, non-ascoltato, caduto nel silenzio e nella noncuranza di quelli che si sono rivelati più che mai essere gli orecchi da mercante della (onto) teologia (nella sua saldatura antica con il diritto e con quella, più recente, con l’economia) occidentale.
Non possedere nulla: neanche il proprio cibo (solo utilizzato), neanche la propria persona (affidata totalmente a Dio, ai confratelli, al papa, agli altri), neanche il proprio tempo (gestito dai superiori e dai confratelli e dedicato totalmente all’attività per altri o all’orazione continua).
Ecco quello che di scandaloso, di inaccettabile, hanno proposto i monaci e i frati francescani a un Occidente che stava invece andando in senso completamente opposto.
Ed è per questo che quella proposta scandalosa di altissima povertà è rimasta inascoltata, ed è anzi stata contrastata e riassorbita nelle maglie del diritto, della proprietà, della logica retributiva.
L’Occidente è andato nella direzione opposta rispetto a quella predicata dai poveri fratres “folli di Dio”, la logica dell’appropriazione ha inglobato quella dell’espropriazione assoluta, radicale, che questi avevano, più che proposto, incarnato.
Altissima povertà, ai nostri giorni, rappresenta un testo di un’attualità disarmante.
I monaci e i frati di Agamben hanno molto da dire al nostro mondo in piena crisi economica e di valori: in un senso totalmente altro da quello di un insegnamento teologico o dottrinario essi indicano la via per un cambiamento che da più punti di vista appare sempre più necessario: il mutamento pratico della nostra forma-di-vita.
IL FILO DEI MESI
Gennaio bifronte, tra vecchio e nuovo anno
di Gianni Gasparini
Il mese di gennaio, primo dell’anno, trae riferimento da Giano, divinità romana che veniva venerata in relazione al passaggio (ianua, porta) ed era rappresentata come un’erma bifronte, con una faccia rivolta all’interno e l’altra all’esterno, che si poteva intendere come nascita, inizio o ricominciamento. Celebre e mirabile è il Gennaio che si trova nel Battistero di Parma tra le sculture dei mesi, opera romanica di Benedetto Antelami che alla fine del XII secolo lo rappresenta seduto e assorto nella desolazione dell’inverno.
Gennaio allude a un mondo che è finito, l’anno vecchio terminato con dicembre, e ci parla della ripartenza del tempo umano con il mese che inaugura il nuovo anno e il suo carico di speranze. A gennaio si usano nuovi calendari e almanacchi: ne parlava tanto tempo fa Giacomo Leopardi, che nel Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere tratteggia in modo amaro l’eterno tema del rapporto tra un passato doloroso o insoddisfacente e un futuro che si spera o ci si augura radioso. Una prova di questa realtà secondo il poeta è che nessuno vorrebbe tornare indietro nel tempo, come appare dal Dialogo:
Venditore: Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
Passeggere: Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
Venditore: Appunto.
Passeggere: Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo.
(G. Leopardi, Operette morali, 1834, ediz. varie)
Ancora oggi nella notte che segna il passaggio tra l’ultimo giorno di dicembre e il primo di gennaio in tutto il mondo si formulano e vengono scambiati gli auguri, in modi vivaci e improntati all’allegria. Ci sarebbe da chiedersi quale sia il contenuto e la portata veritiera di ciò che ci si augura, in una società planetaria tanto dilaniata da conflitti e tensioni, nella quale è sempre più difficile esprimere speranza; ma va dato atto che questi auguri, scambiati anche a livello internazionale, sono una forma minima di consapevolezza dell’esistenza di una realtà mondiale, con le sue esigenze basilari di pace e di giustizia.
Per quanto riguarda gli aspetti naturalistici di gennaio, è inevitabile che nella parte del pianeta in cui noi ci troviamo a vivere, l’emisfero nord, si pensi al freddo che solitamente accompagna l’inverno. In montagna più che altrove si assiste al fenomeno della caduta della neve e della sua persistenza sul terreno, sulla vegetazione e sulle abitazioni. La neve, che ha una sua caratteristica e originale bellezza, è un elemento naturale che non a tutti i paesi e luoghi è stato dato di sperimentare; anche in Italia non tutte le città lo conoscono.
A causa del cambiamento climatico in atto, non sono molto frequenti neppure alle alte quote gli inverni con neve abbondante: uno di questi fu quello del 2008-2009, quando nelle Alpi occidentali caddero durante la stagione molti metri di neve. Lo ricordo personalmente per alcuni trekking fatti in Valle d’Aosta con le ciaspole o racchette da neve, strumenti semplici e sostenibili che da alcuni anni permettono di vivere da vicino l’esperienza della montagna durante l’inverno, cogliendo spesso visioni straordinarie e assai diverse da quelle dell’estate.
Mi congedo allora riprendendo di seguito un brano che parla di una di queste esplorazioni invernali:
Nel bosco gli abeti mostrano grandiose coperture bianche: richiamano dita e mani gigantesche che si siano adagiate compatte sui rami. Qualche albero tra i più alti sembra aver creato al suo interno uno spazio di accoglienza tra il tronco e i rami, quasi una capanna conica che inviti i passanti a entrare e a soffermarvisi. Anche i larici, poco propensi a lasciarsi ricoprire di bianco per la struttura dei rami spogli, oggi sono ricchi di neve: strati sottili che stanno in equilibrio lungo i rami ricurvi, ma anche blocchi consistenti che hanno trovato modo di fermarsi alla confluenza tra il fusto e le ramificazioni o in certi isolati, bianchi nidi di forma irregolare.
Gli esili ontani, presenti nelle zone prossime ai torrenti, si sono piegati al peso della neve e hanno dato origine a elaborazioni effimere e creative che variano da un albero all’altro. Sembra che arte e natura si rincorrano: certi alberi fanno pensare alla land art, come a quella di Arte Sella che si può vedere in Valsugana ai margini di un bosco, ma l’armonia fantasiosa e fantastica del loro incontro con la neve mi pare dia risultati superiori a quella delle opere concepite da artisti che lavorano sulla natura. Sta di fatto che la varietà di espressioni possibili all’elemento neve nel suo aderire alla vegetazione consente una gamma di creazioni e di esiti amplissima, anche su un medesimo tipo di albero o arbusto.
(da G. Gasparini, Il passo delle stagioni, Ediciclo, Portogruaro VE)
AFORISMI
a cura di Leonarda Tola
“Sa domo est minore, su coro est mannu”
I proverbi sono per definizione espressione della cultura popolare e perciò connotati in ragione delle regioni abitate da comunità con caratteristiche peculiari e locali. Non importa se questa antica saggezza esca poi dai confini temporali e geografici di una comunità e la si ritrovi decantata in altre latitudini e con note quasi identiche. Quasi uguali, ma il quasi dice la differenza essenzialmente determinata dall’essere quella cultura popolare enunciata in lingue diverse. Una diversità che quando si tratta, per esempio, della limba dei sardi assume tutte le intonazioni e gli accenti, il peso e la risonanza dell’essere, quella, la lingua di un’isola che il mare separa da ogni altra terra. È così almeno per chi vi è nato e se ne sente parte. Facendo riferimento alla tradizione sarda dei detti (dicios) si vuole allo stesso tempo affermare la tipicità e singolarità di ogni altra realtà linguistica che ovviamente ne ripropone echi e consonanze.
Ricordiamo alcuni aforismi presenti nella memoria e nell’uso con i quali ad ogni occorrenza si è richiamati ad indirizzare i comportamenti individuali nel solco di un sentire comune su cui basare i capisaldi della convivenza civile. “Sa domo est minore, su coro est mannu” (“La casa è piccola, il cuore è grande”) si dice (forse, ahimé, si diceva) per manifestare senza vergogna la dignitosa consapevolezza del poco che si possiede di beni materiali aprendo all’ospite, con umiltà a testa alta, una casa povera e disadorna. Vantando, all’opposto, con orgoglio e senza timore d’essere smentiti, l’ospitalità offerta nel piccolo ma con la larghezza del cuore che diventa vera magnificenza.
Molti detti sono rivolti a regolare le relazioni sociali e in essi a volte prevale una sana rassegnazione di fronte all’impossibilità di stabilire rapporti cordiali e proficui con alcune persone: “A peraulas maccas origias surdas” ("A parole sciocche orecchie sorde"). Indicando nella sopportazione muta, non senza qualche ironia, il segreto della pace familiare e di vicinato.
“Deus serrat una ventana e aberit una janna” (“Dio chiude una finestra e apre una porta”) si iscrive nella miriade di (detti) che richiamano le radici profonde di una religiosità che qui fa coincidere la fiducia nella vita e la speranza di ogni sorte benigna con l’affidamento incondizionato e la sottomissione alla provvidente signoria di Dio.
E via sentenziando lungo la sapienza popolare, messa giustamente alla dura prova della scienza, della storia e della filosofia.
HOMBRE VERTICAL
a cura di Emidio Pichelan
Un cartoncino e due cartelli
Di norma, gli eventi formativi finiscono in gloria. Come i salmi, come la messa domenicale. Questa volta, invece, al termine di una sessione formativa di quattro ore non stop, il responsabile della struttura organizzativa sindacale (un politico, dunque, non un formatore) terminava con una sfida: all’uscita, diceva, vi sarà dato un cartoncino, da una parte è riportata la storia di Ognuno, Qualcuno, Ciascuno, Nessuno, che vedete proiettata sullo schermo, e dall’altra … I presenti venivano invitati a “indovinare” il testo del cartello stampato nel retro del cartoncino.
La storiella è scritta in un italiano come si deve: soggetto, predicato verbale, complemento oggetto. Ci stava, comoda, in una slide. È il raccontino riportato dal card. Gianfranco Ravasi a premessa di una delle sue meditazioni. L’alto prelato di Santa Romana Chiesa è un uomo coltissimo, nessuna meraviglia se fosse farina del suo sacco. Espediente letterario o meno, il cardinale afferma d’averla vista scritta sulla porta d’ingresso del panificio di una località non meglio precisata della Valsassina, in quel di Lecco.
“Questa è la storia di quattro persone chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno, Nessuno. C’era un lavoro urgente da fare e Ognuno era sicuro che Qualcuno l’avrebbe fatto. Ciascuno avrebbe potuto farlo ma Nessuno lo fece. Finché Ciascuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Ognuno avrebbe potuto fare”.
I quattro attori della storiellina sono anonimi, non costituiscono comunità, girano a vuoto, naufragano nel mare senza senso del fare (e del non essere). Non hanno un ideale, sono fatti di legno morto (senza linfa) come Pinocchio.
Come Aureliano Buendía di Cent’anni di solitudine, il generale dalle mille spedizioni militari, e un suo compagno di avventure di un’intera vita. Avevano consumato la vita in interminabili campagne militari e battaglie – nemmeno ricordavano quante: diciassette? venticinque? trentasette? – quel che è peggio, non sapevano soprattutto perché avessero combattuto: per dovere? per tradizione? per la gloria? per la patria? per orgoglio personale? per la pensione (mai arrivata comunque)? Una vita senza ideali, senza linfa, senza senso.
Siamo propensi a immaginare che tutti siano riusciti a indovinare il testo del risvolto del cartoncino, posto che per quattro ore si era parlato di don Milani. E tutti, che siano o no saliti a Barbiana, conoscono l’I Care tuttora appeso alla parete della canonica che fungeva da aula scolastica (senza predellino e senza cattedra).
Che questi tempi abbiano bisogno di lavori urgenti non c’è dubbio. Per la Cisl Scuola e la Cisl il lavoro urgente e primario coincide con il suo patrimonio narrativo trasmesso dai padri fondatori: emancipare le giovani e i giovani e la comunità del lavoro dalla prigione dell’ignoranza.
Di questi tempi – di vuoto di idee, ideali, utopia e slanci vitali – è fondamentale ripassare la matrice fondativa ogni santo giorno, ogni benedetta mattina. Altrimenti, è certo, “il cor si spaura”.
RICORRENZE
Nel primo mese dell'anno si segnala per importanza e significato la ricorrenza del 27 gennaio, dedicata alla celebrazione del Giorno della Memoria. È l'unica cui dedichiamo la nostra attenzione nei nostri "approfondimenti"
27 gennaio - Giorno della memoria per le vittime dell'Olocausto
Si celebra in tutto il mondo, il 27 gennaio, il "Giorno della Memoria", ricorrenza con la quale vengono commemorate le vittime dello sterminio nazista, soprattutto promuovendo opportune iniziative di sensibilizzazione ai valori da coltivare e preservare perché non simili orrori non abbiano più a riproporsi.
La data, assunta dalla deliberazione 60/7 delle Nazioni Unite del 1° novembre 2005, è quella in cui, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz per liberarne i prigionieri. Apparvero così in tutta la loro tragica evidenza gli orrori dell’Olocausto.
In Italia, già cinque anni prima si era scelta la stessa data per istituire, con la legge 20 luglio 2000, n. 211, il "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. Il testo della legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000, si compone di soli due articoli, che di seguito riportiamo integralmente.
Art. 1
1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2
1. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.
Lettera a un neonazista
Un testo di grande attualità e interesse, che ben si presta a un utilizzo in ambito didattico per la giornata del 27 gennaio, è “Lettera a un neonazista”, di Raffaele Mantegazza (Castelvecchi, 2019 – prefazione di Giannino Piana), nel quale l’autore si rivolge a un ragazzo attratto da suggestioni insidiose fatte di violenza, razzismo, sessismo e xenofobia, che si insinuano e trovano spazio anche per l’incapacità di contrapporre con altrettanta efficacia modelli diversi e positivi.
“Perché se i neofascisti e neonazisti hanno conquistato la tua anima – scrive l’Autore -qualche responsabilità l'abbiamo anche noi; se queste formazioni riempiono un vuoto di senso e di significato è perché quel vuoto non siamo stati capaci di riempirlo e forse, senza volerlo, abbiamo contribuito a crearlo”.
Lo stesso Raffaele Mantegazza ha presentato il libro, uscito nel luglio scorso, con un intervento di notevole efficacia fatto in occasione dell’Assemblea Nazionale della CISL Scuola svoltasi a Pero (MI) nei giorni 7 e 8 ottobre 2019. Di quell’intervento proponiamo la registrazione audio, disponibile in versione mp4 (a immagine fissa) sul nostro canale youtube.
NOTE MUSICALI
a cura di Francesco Ottonello
Maurice Ravel (1875 - 1937): Jeux d’eau
Il brano pianistico intitolato Jeux d’eau fu scritto nel 1901, ed è il primo vero lavoro con cui Ravel mostra la propria personalità di compositore. L’importanza del pezzo non si esaurisce solo nell’ambito della personale carriera compositiva del grande musicista: esso è significativo in senso più ampio, poiché viene considerato la prima opera pianistica, che inaugura la stagione novecentesca della musica francese. In questo ruolo “inaugurale” altri collocano, come primo effettivo esempio, la Sonata per pianoforte di Paul Dukas, ma è anche vero che in quest’ultima i legami col passato sono forse più marcati rispetto al nuovo originale pezzo pianistico di Ravel.
La grande innovazione di Ravel sta nello sfruttare le risorse armoniche in modo molto innovativo, trasgredendo a quelle regole formali che tradizionalmente presiedevano all’armonia. Tutto diventa funzionale al descrittivismo della musica: la scelta della tonalità di impianto (più simbolico che effettivo), i gesti musicali, il timbro dello strumento.
Si vogliono rappresentare “uditivamente”, e simbolicamente, i giochi dell’acqua, gli zampilli, lo sgorgare rigoglioso, il procedere inarrestabile dei ruscelli; tutto è pervaso da una visione positiva del ruolo dell’acqua, elemento essenziale nella vita dell’essere umano, come tale individuato già nella filosofia dell’antica Grecia, in particolare da Talete, come principio cosmico primordiale.