In questa pagina:
l'immagine del mese; la parola del mese; suggerimenti di lettura; una poesia; una filastrocca; rilanci e riprese da "Scuola e Formazione" e da "Scuola e Formazione plus"; premio Pierre Carniti; giornate e ricorrenze particolari (anche per la didattica).
Scrivici, se vuoi, al seguente indirizzo: redazione.scuola@cisl.it
L'ILLUSTRAZIONE
Ci sono piante che ci sono familiari, come i parenti di casa o i buoni amici.
Perché le conosciamo dall'infanzia, e in verità da molto più tempo in quanto il loro nome e le loro caratteristiche vengono a noi attraverso la sapienza delle generazioni.
Perché, quando passiamo, ci parlano col nostro nome più antico.
Il sambuco per me è una di queste.
Mia nonna cucinava la composta di sambuco e con l'influenza c'era la tisana di sambuco che ti faceva sudare.
È una pianta che, meravigliosamente, cresce dappertutto.
I suoi grappoli di fiori bianchi annunciano l'inizio dell'estate e con le sue bacche mature comincia l'autunno e si chiude il ciclo dell'estate.
Il cervo è – almeno da noi – uno dei più grandi animali selvatici ancora liberi ed è il mio re segreto dei boschi.
In settembre la fame d'amore lo spinge alla caccia.
Con il suo ingombrante equipaggiamento evolutivo, è uno degli esibizionisti più impressionanti del regno animale – lo ammetto!
Eva Kaiser
Note musicali
L'ascolto che proponiamo, suggeritoci dall'immagine del mese, è il "Sicut Cervus" di Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594) , mottetto a quattro voci dispari, composto sul testo ripreso dal salmo 41-42: "Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum, ita desidera anima mea ad te Deus" [come il cervo anela alla fonte dell'acqua, così la mia anima desidera te, o Dio]. Ascolta il brano.
La parola del mese
INIZIO
di Raffaele Mantegazza
Quando domani ci accorgeremo
Che non ritorna mai più niente
Ma finalmente accetteremo il fatto come una vittoria
(Francesco De Gregori)
Com’è fresca l’aria dell’aurora, quando un calcio alle lenzuola ci rimette nel ciclo della vita e tutto sembra ancora possibile. Com’è caldo il silenzio rumoroso dei ragazzi e dei bambini il primo giorno di scuola, quando si entra nella nuova classe (che è sempre nuova anche quando la si è lasciata pochi mesi prima) e si pensa ai mesi che verranno, pieni di nuovi argomenti, di nuova vita. “Un silen-zio caldo come un focherello” lo definiva Mario Lodi. Un silenzio che richiede parole ma soprattutto che richiede di essere custodito, col calma, senza fretta, senza romperlo dall’esterno ma aspettando che si schiuda come un uovo. Come sarebbe importante che la prima lezione dell’anno fosse la più entusiasmante, la più bella, quella preparata con più attenzione; soprattutto per i bambini e i ragazzi che iniziano un ciclo scolastico; come sarebbe fresco e motivante se il primo impatto con la matematica, il latino o la lingua spagnola fosse caratteriz-zato da una di quelle lezioni che ti lasciano a bocca aperta, che ti infondono la voglia di imparare, di continuare. Come sarebbe bello se un ragazzo o un bam-bino di ritorno dal primo giorno di scuola non vedesse l’ora di tornare il giorno successivo per vedere “come va a finire” la storia che gli è stata narrata (e per capire che niente mai “va a finire” e che la cultura è sempre un nuovo, sor-prendente inizio che niente ritorna perché c’è sempre il nuovo e la memoria serve per ricordare il futuro).
Gli inizi sono difficili da vivere; forse perché portano con sé lo stupore e l’inedito, caratteristiche della realtà che abbiamo imparato a temere più che ad apprezzare. Rischiamo di perdere il senso della nascita, che è alle radici di ogni capacità di esperire l’inizio: la nascita è un inizio nuovo perché mette al mondo qualcuno che potrà a sua volta dare inizio; è l’inizio di un iniziatore, è un inizio al quadrato: “questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qual-cosa ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell’uomo il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso”(1) . La nascita non è mai routine, non è mai del tutto prevedibile nelle sue dinamiche e nei suoi effetti: “il nuovo si verifica sempre contro la tendenza delle leggi statistiche e della loro probabilità (…) il nuovo quindi appare sempre alla stregua di un miracolo”(2) . Il problema oggi è che abbiamo allungato le mani sull’inizio, sulla generatività, sulle radici della nascita, il problema è che le tecnologie della medicina hanno compiuto il passo decisivo, invadendo il regno degli “indisponibili”, la generatività e la morte.
Le tecnologie della fecondazione in vitro (Fivet), la diagnosi-preimpianto, l’abuso di ecografie non a scopo prettamente diagnostico e soprattutto le possibilità future che queste tecnologie mediche ormai spalancano, trasformano l’essere gettati nel mondo (in senso sartriano più che heideggeriano) nell’essere progettati; per mostrare la differenza di livello tra sé e Dio il fedele del popolo d’Israele afferma “ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi” (Sal 138,16). Lo sguardo di Dio penetra nel grembo della donna e forma il nuovo “Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto” (Ger 1,5); per Dio il vedere e il fare sono la stessa cosa, in un ambito precluso all’essere umano. Oggi questi versetti non sono più attuali. È l’uomo che vede nel grembo materno e determina in anticipo tutto ciò che vi accade. Dio ne è escluso, perché un altro pseudodio ha preso il suo posto.
Si sottovaluta forse il carattere epocale dei decenni che siamo vivendo; per esempio non si dà il giusto peso al fatto che per millenni qualunque persona fosse presente al mondo aveva alle sue spalle, come origine, un atto sessuale tra un uomo e una donna; l’unica certezza, oltre a quella della futura morte, era quella della tipologia della sua origine; due corpi che si penetrano, per amo-re, per violenza, per routine. Oggi non è più così: le tecnologie ridefiniscono l’origine e presto arriveranno anche a proporre una gravidanza totalmente ex-trauterina. Non solo. Le donne incinte nella Firenze rinascimentale bevevano caffè e cacao per avere un figlio dai capelli neri e dagli occhi neri (allora intesi come segni di bellezza), ma dovevano stare attente a non berne troppo perché altrimenti il figlio avrebbe avuto la pelle nera. Era supposto un rapporto di cau-sa ed effetto tra il caffè e il colore dei capelli? Ovviamente no, e pensarlo signifi-cherebbe proiettare all’indietro una visione della realtà che non apparteneva a quell’epoca. Tra il cacao e il colore degli occhi c’era un rapporto di analogia; il che significa che bevendo il cioccolato la donna entrava in un giro di concordanze cosmiche che sperava di poter influenzare per avere un figlio dai capelli corvini. Che fosse lo Zodiaco o Dio, era sempre qualcun Altro a determinare il “nuovo” incarnato nel bambino o nella bambina; e anche quando si scoprì il DNA, la nascita era diventata forse calcolabile ma non progettabile.
Ma il passo decisivo fu compiuto quando la tecnologia (e non banalmente la scienza), nel giusto percorso di autonomizzazione e di emancipazione, pensò non solo di oltrepassare i limiti ma eliminare l’idea stessa di limite; Hiroshima fu il battesimo del fuoco di questa follia totalitaria tecnologica, le tecnologie oggi applicate alla generazione, alla nascita e alla morte ne sono la triste eredità. Non si tratta tanto di criticare la singola tecnologia ma il pensiero totalizzante che ne sta alla base, che elimina del tutto la domanda di senso e lo stupore di fronte al mistero. C’è un filo neanche tanto nascosto che collega le tesi di Fukuyama sul capitalismo come fine della storia alla possibilità asserita da alcuni fisici di avere “tutte le risposte possibili a tutte le domande” una volta completata la teoria dei campi unificati, agli studi sull’ingegneria genetica che rendono possibile la clonazione umana o la cosiddetta eugenetica: lo stesso riduzionismo è alla base di questi modi di pensare che sono poi una versione laica e forse atea (del resto, a cosa serve ormai Dio?) di un fondamentalismo che abbiamo pensato essere solo religioso.
La stessa logica dell’esperimento è cambiata: l’idea stessa di un modello, di un ambito protetto nel quale sperimentare ciò che poi si dovrà (eventualmente e con cautela) applicare alla realtà è caduta: la ricerca sulle cellule staminali e sugli embrioni non conosce differenza tra esperimento e realtà perché l’esperimento modifica direttamente e irreversibilmente la realtà. La creazione del Nuovo è lasciata del tutto nelle mani umane, e non è solo uno slogan la frase che afferma che “l’uomo si è messo al posto di Dio”.
Ovviamente per milioni di esseri umani tutto questo è solo qualcosa di distante e irraggiungibile; la stessa tecnologia che produce il nuovo (lo produce e non lo genera, perché nella generatività è previsto che ciò/colui/colei che è generato sia altro da chi lo genera, mentre il prodotto è interamente all’interno del progetto/processo di produzione: un’auto non ha vita propria oltre a ciò per cui è stata prodotta) riproduce il vecchio quando ha a che fare con lo sfruttamento; la linea della vita così trionfalmente percorsa da una tecnologia arrogante e avida di profitti è ancora una ruota della dannazione per coloro che non posso-no scegliere e per i quali il nuovo è il ritorno del sempre uguale: la fame, la mor-te, lo sterminio. La tanto lodata fine della storia, così amata dei neoliberisti, non ha portato a risolvere il problema della fame e della morte di milioni di esseri umani ma a produrre la clonazione di sempre nuove tecnologie; il cerchio si chiude anche sui nostri inutili smartphone che non ci aiutano a cambiare il mondo e ad entrare nell’epoca di una nuova umanità ma ci inseriscono dolce-mente nel “loop” di una nuova “app” (è difficile verbalizzare il disgusto fisico che proviamo per questi termini) che non useremo mai.
Recuperare il senso dell’inizio è una scelta etica e anche politica; significa rifiutare l’idea che l’attuale assetto del mondo sia frutto di un destino ineluttabile, aprire il cerchio dell’eterno ritorno, credere nella vita come apertura essenziale, come abbraccio nei confronti dell’inedito; e del rischio: perché proprio una società che utilizza il rischio come arma di terrore e di ricatto non capisce che il vero rischio consiste nell’eliminazione di ogni attesa e di ogni ambiguità, nell’apertura al futuro che potrà portarci bellezza, senso, amore ma anche dolore e morte. Del resto una delle possibili etimologie proposte per la parola “rischio” parte dall’arabo “rizq”: tutto ciò che viene da Dio.
Per rendere possibile una inversione di tendenza, la scuola è ancora un ambito privilegiato, così come l’educazione è forse il pensiero che dovrebbe guidare questa riscossa del nuovo. Perché educare non significa programmare o pro-gettare ma lasciar-essere, non nel senso di gettare nel mondo i ragazzi senza guida e senza coordinate, ma di tracciare insieme a loro strade per potersi anche perdere, ma senza il rischio di perdere se stessi. Educare significa spalancare orizzonti, portarevia (e-ducere) dalla dannazione dell’eterno ritorno; per l’educatore che lavora in carcere l’educando non è “il detenuto” o “il reo”, per chi lavora in ospedale la persona non è “il malato” il che non significa ignorare le loro condizioni di partenza (che costituiscono il pre-testo per la presenza dell’educatore) ma andare al di là di questi orizzonti scoprendo la persona come possibilità aperta, non “nonostante” ma “ a partire” dagli errori commessi o dal dolore provato. Educare significa aprire a nuove identità, spalancare radure, come diceva Riccardo Massa, tenere sempre aperta la porta allo stupore.
Come sarebbe importante allora che gli insegnanti imparassero ogni anno a vedere con nuovi occhi i loro ragazzi, a uscire dalle gabbie delle valutazioni a crocette per lasciarsi stupire dai giovani e dai bambini; come sarebbe fondamentale per la nostra democrazia che la scuola imparasse la pedagogia della nascita, dell’aurora e dello stupore. Una classe che si ritrova a settembre è un fascio di promesse: non tutte saranno mantenute, qualcosa andrà perduto (e speriamo davvero che qualcosa a scuola si perda, qualcosa non si faccia, soprattutto qualcosa si faccia “per niente”) alcune saranno ridefinite, e il ruolo dell’insegnante consiste nel mostrare sempre la strada percorsa, le sfide vinte e quelle perdute, lo stupore del giorno dopo. Eliminando, se possibile le parole killer: “sempre e “mai” (“sei sempre distratto”, “non ascolti mai”, o, che è forse è peggio, “sei sempre il migliore”) che chiudono il futuro e paralizzano la persona nell’esoscheletro di una identità definita dall’esterno.
Iniziare sempre di nuovo: questa è la vera sfida per la scuola e per i nostri tempi. Non solo il primo giorno di scuola, ma durante tutto l’anno; perché se è vero che nascere è bello, è perché vivere è anche meglio. “O gioia dell’inizio! O albeggiare erba nascente, quando tutto il verde sembra dimenticato. E tu, nuovo pensiero” (Bertolt Brecht)
NOTE
1 Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Milano Bompiani, 1994, pag. 129
2 Ibidem
Suggerimenti di lettura
Un caldo che mi piace
Fa un sole su questi bricchi, un riverbero di grillaia e di tufi che mi ero dimenticato. Qui il caldo più che scendere dal cielo esce da sotto – dalla terra, dal fondo tra le viti che sembra si sia mangiato ogni verde per andare tutto in tralcio. È un caldo che mi piace, sa un odore: ci sono dentro anch’io a quest’odore, ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie che non sapevo più d’avere addosso. Così mi piace uscire dall’Angelo e tener d’occhio le campagne; quasi quasi vorrei non aver fatto la mia vita, poterla cambiare; dar ragione alle ciance di quelli che mi vedono passare e si chiedono se sono venuto a comprar l’uva o che cosa. Qui nel paese più nessuno si ricorda di me, più nessuno tiene conto che sono stato servitore e bastardo. Sanno che a Genova ho dei soldi. Magari c’è qualche ragazzo, servitore com’io sono stato, qualche donna che si annoia dietro le persiane chiuse, che pensa a me com’io pensavo alle collinette di Canelli, alla gente di laggiù, che guadagna, se la gode, va lontano sul mare.
Cesare Pavese, La luna e i falò, Oscar Mondadori, Milano 1969, p. 24
La luna e i falò è l’ultimo romanzo di Cesare Pavese (1908-1950). Esce nel 1950, anno in cui Pavese consegue il Premio Strega per La bella estate e precede di poco il suo suicidio. A questa scelta estrema lo conduce, come emerge dalla breve serie di poesie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, “l’impotente e nuda solitudine”. La luna e i falò è contemporaneamente una conferma e una smentita della dottrina letteraria della vita di Pavese, il neo-realismo.
Il primo temporale dopo l’estate immobile
Sono di nuovo a Palermo una mattina in cui s’abbatte sulla città, dopo l’immobile estate, il primo temporale. Il cielo s’era fatto nero, un vento improvviso s’era levato. Avevo appena oltrepassato la piazza Massimo, dove, sul marciapiede davanti al teatro, i venditori di fiori raccoglievano la merce, la gente in attesa degli autobus guardava in alto disorientata quel cielo nero e minaccioso. I ficus impolverati della piazza perdevano foglie secche e le palme si flettevano nel loro alto e snello tronco, scuotevano le lunghe chiome. Su per via Maqueda era tutto un volare di cartacce e sacchetti di plastica. I paesani e i tunisini che vengono a comprare in questo lungo budello di negozi o nei mercati adiacenti di via Bandiera, via Divisi e Ballarò, correvano smarriti; i commessi, davanti ai negozi, chiudevano svelti le tende sbiadite. Sulle alture d’Altofonte, in fondo alla prospettiva di via Oreto, il cielo era squarciato da lampi. Procedevo lentamente, stretto nella morsa delle altre macchine, degli autobus e delle motorette, assordato dal clamore dei clacson e trombe.
Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988, pp. 175-176
Vincenzo Consolo (1933-2012) è nato in Sicilia, a Sant’Agata di Militello. Ha passato la maggior parte della sua vita a Milano, ma ha scritto sempre e soltanto di Sicilia in una lingua ricercata e trascinante, ritmica e sonora, arricchita da un raffinatissimo studio filologico che scava nella storia dell’isola, dove si fondono la cultura greca e la cultura araba, la cultura spagnola con quella normanna e sicula. La sua scrittura ha i colori del sole e della pietra, dove ancora oggi si nasce e si trova sepoltura. Chi era Vincenzo Consolo e quale fosse la sua vocazione letteraria, lo indoviniamo da quanto dice in una pagina de Le pietre di Pantalica (1988): “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno di noi due sparisca”. Ogni libro di Vincenzo Consolo è impregnato di questa malinconia.
Suggestioni a proposito dell'illustrazione del mese
Il cervo e le bacche di sambuco
Il cervo
Molti i miti e i racconti che hanno per protagonista il cervo. Dalla mitologia greca viene la storia di Artemide (Diana per i latini) che trasformò Atteone in un cervo che finì sbranato dai suoi stessi cani. Il mito fu ripreso da Ovidio nelle sue metamorfosi e trasformato da Fedro in una favola morale, la dodicesima del libro primo. Questo il racconto di Fedro. Nella versione latina e tradotto.
Cervus ad fontem
Laudatis utiliora quae contempseris, saepe inveniri testis haec narratio est. Ad fontem cer-vus, cum bibisset, restitit, et in liquore vidit effigiem suam. Ibi dum ramosa mirans laudat cornua crurumque nimiam tenuitatem vituperat, venantum subito vocibus conterritus, per campum fugere coepit, et cursu levi canes elusit. Silva tum excepit ferum; in qua retentis impeditus cornibus lacerari coepit morsibus saevis canum. Tum moriens edidisse vocem hanc dicitur: "O me infelicem, qui nunc demum intellego, utilia mihi quam fuerint quae de-spexeram, et, quae laudaram, quantum luctus habuerint".
Il cervo alla fonte (trad.)
Questo racconto dimostra che spesso le cose che hai disprezzato si scoprono più utili di quel-le lodate. Un cervo, si fermò a bere presso una fonte e vide la sua immagine riflessa nell’acqua. E qui mentre ammirandole lodava le corna ramose e disprezzava la troppa magrezza delle zampe, atterrito improvvisamente dalle voci dei cacciatori, cominciò a fuggire per la campagna e con la corsa leggera eluse i cani. La selva poi lo accolse selvaggio; ma in questa, bloccato dalle corna trattenute cominciò ad essere sbranato dai crudeli morsi dei cani. Allora si dice che morendo abbia detto. "Oh me infelice, che ora finalmente capisco, quanto mi siano state utili le cose che avevo disprezzato, e quanto lutto mi portino quelle che avevo lodato".
La favola fu ripresa e trascritta, nel milleseicento anche da Jean de La Fontaine.
Molte le opere d’arte che riprodussero il mito e Marc-Antoine Charpentier ne diede una ce-lebre interpretazione musicale nella Pastorale in Sei Scene "Actéon" (1684).
Bambi
Fra le riprese artistiche moderne di un cervo come personaggio da favola, ricordiamo il film Bambi, un lungometraggio di animazione prodotto dalla Walt Disney e ricavato dal romanzo Bambi, la vita di un capriolo dello scrittore austriaco Felix Salten. Riprendendo il racconto di Salten, la Disney trasformò il capriolo in un cervo perché in America, non c’erano caprioli ed era invece familiare il cervo dalla coda bianca. Il film della Disney uscì in America nel 1942, in Italia nel 1948. Il racconto ripercorre la vita di Bambi dalla nascita attraverso l'infanzia segnata dalla perdita della madre, all'incontro con una compagna, le lezioni ricevute dal padre e l'esperienza sui pericoli incontrati nel bosco. Il romanzo di Salten, pubblicato in tutto il mondo in moltissime lingue ed è considerato un classico per l’infanzia.
Il sambuco
Oltre a regalarci generose fioriture primaverili dal profumo intenso, il sambuco ha delle bacche che una volta mature diventano di colore scuro, e da cui si possono ricavare delle ottime marmellate e gelatine, oltre ad un succo ricco di vitamine e ideale per combattere in maniera naturale i primi malanni di stagione. Molto diffuso nei boschetti, lungo le siepi campestri, nei campi, in periferia e nei parchi come specie arbustiva spontanea, il sambuco è facilmente riconoscibile per le sue infiorescenze bianche a grappolo: tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno lasciano il posto a delle bacche rosso-violacee, che contengono i semi.
La poesia
Aquilone di settembre
I pioppi tremuli
mossi dalla brezza
cantavano come arpe
come flauti in sordina
L'aquilone di settembre
sorvolava i boschi
per ascoltare
i mormorii delle foglie
prima che lascino i rami
e gli riusciva di distinguere
il basso continuo dei faggi
le variazioni dei castagni
e il fruscio dei larici
quando gli aghi sottili
vengono scossi e dispersi
dal primo vento d'autunno
Danzando nell'aria
l'aquilone immaginava
di dirigere un concerto
vegetale grandioso
Giovanni Gasparini
(da Cento aquiloni: un poemetto,
Libri Scheiwiller, 2005)
Una filastrocca
Settembre
Vieni, Settembre, non farti pregare!
Noi al lavoro dobbiamo tornare
come se fosse l’inizio dell’anno:
sembra un po’ strano, ma tutti lo fanno!
Da gentiluomo, saluti l’estate:
offri un omaggio di belle giornate,
ultimi fiori, bacche, fogliami,
scatti di rondini, voli e richiami.
Lorenzo Gobbi
Riprese e rilanci dalla rivista "Scuola e Formazione"
Nella rubrica Trentarighe dell'ultimo numero di Scuola e Formazione la poesia di Paolo Menon parlava degli sbarchi in Italia. Questione che resta di grande attualità anche in questi giorni. Nel prossimo numero della rivista la riprenderemo nella rubrica Antologia moderna presentando una pagina di Davide Enia dal suo Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017) di cui ora anticipiamo la parte iniziale e quella finale del brano che proporremo.
“Avevo incontrato il sommozzatore a casa di un amico. Eravamo soltanto noi due. La prima, persistente sensazione era stata questa: era enorme.
Aveva esordito dicendo: “Nessuna registrazione”. Si era andato a sedere dall’altra parte del tavolo e aveva incrociato le braccia.
Le tenne conserte per tutto il tempo.
“Io del tre ottobre non parlo” aggiunse chiudendo la frase con una secchezza che non am-metteva repliche.
Il tono della voce fu costantemente basso e misurato, in pieno contrasto con quella stazza imponente.
[...]
Seguì una pausa lunga, lunghissima. Il suo sguardo non terminava più sul muro alle mie spal-le. Andava oltre, in un punto del mare Mediterraneo che non avrebbe mai dimenticato.
“Se hai davanti tre persone che stanno andando a fondo e cinque metri più in là sta affogando una madre con un bambino, che fai? Dove vai? Chi salvi prima? I tre qui davanti o la madre con il neonato che stanno lì?” Era una domanda smisurata.
Fu come se il tempo e lo spazio si fossero curvati all’indietro, riproponendogli quella scena spietata:
Le urla del passato risuonavano ancora.
Era enorme il sommozzatore.
Sembrava inscalfibile. Eppure, dentro, sembrava un San Sebastiano trafitto da scelte lancinanti.
“Il bambino è piccolissimo, la madre giovanissima. Sono lì, a cinquanta metri da me. E proprio qua davanti tre persone stanno annegando. Chi salvare, allora, se stanno andando a fondo tutti nello stesso momento? Verso chi dirigersi? Che fare? Calcolare. È tutto quello che si può fare in certe situazioni. La matematica. Tre è più di due. Tre vite sono una vita in più rispetto a due”.
E non parlò più.
Fuori il cielo era nuvoloso, tirava vento da sud-est, il mare era mosso, Pensavo: ogni volta, ogni singola volta ho la netta sensazione di trovarmi davanti a esseri umani che si portano dentro un intero camposanto.
Su Scuola e Formazione Plus
Storia di un'eredità,
11 cammelli e 3 figli.
Esercizi di prospettiva
(di Giuseppe Marzo)
Nei giorni di scuola
Giornate e ricorrenze particolari (anche per la didattica)
15 settembre - Giornata mondiale della democrazia
Giornata Mondiale istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite già nel 2007. La Giornata vuole per celebrare il valore e l’importanza della democrazia per gli stati membri, per il Sistema Nazioni Unite e per tutte le organizzazioni regionali, intergovernative e non governative. Il Segretario Generale dell’ONU Ban-Ki-moon, nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Democrazia del 2010, scrisse: “L’avanzamento democratico non è un processo né lineare né irreversibile. Recentemente, in molte parti del mondo, abbiamo potuto osservare serie minacce ai progressi ottenuti con fatica dai governi democratici. Le battute d’arresto nell’avanzamento democratico sono battute d’arresto per lo sviluppo. Lo sviluppo prenderà corpo più facilmente se i popoli potranno esprimere il proprio governo e condividere i frutti del progresso”.
21 settembre - La Giornata mondiale della gratitudine
La Giornata mondiale della gratitudine ebbe inizio grazie al Meditation Group delle Nazioni Unite nel 1977 ed è stata pensata come un’opportunità per il genere umano di ringraziare per la vita, per tutte le cose ricevute, per quello che facciamo, per gli eroi moderni, per la famiglia e per gli amici. La gratitudine potrebbe anche essere considerata la madre di tutte le grandi virtù.
25 settembre - Giornata mondiale dei sogni (in inglese World Dream Day)
Sul sito ufficiale della Giornata mondiale dei sogni appare questa scritta «Usa l’hashtag #WORLDDREAMDAY per attivare il tuo sogno e renderci partecipi delle tue esperienze, noi ti guarderemo e condivideremo»
fonte: www.dayfordreamers.com
26 settembre - Giornata mondiale per l’eliminazione delle armi nucleari
Giornata Internazionale istituita dall’ONU nel 2013 nel trentesimo anniversario della notte in cui il colonnello sovietico Stanislav Petrov, un vero eroe oggi sconosciuto ai più, decise di non lanciare una massiccia rappresaglia nucleare contro gli Stati Uniti.
Ricorda Lisa Clark dei Beati i Costruttori di Pace – In quella notte del 26 settembre del 1983 Petrov decise correttamente, e soprattutto coraggiosamente, di ritenere gli allarmi missilistici che vedeva sui propri schermi un errore del computer, e non lanciare così i bombardieri atomici che avrebbero avuto tra i loro bersagli Washington e New York”.
fonte: www.onuitalia.it
La giornata rappresenta una opportunità per accrescere la consapevolezza sui costi sociali, economici e di sicurezza che gli arsenali comportano e sui concreti benefici che deriverebbero dal loro completo smantellamento. Come sottolineato dall'Alto Rappresentante per le Nazioni Unite Mr Kim Won-soo il disarmo contribuirebbe anche alla pace e allo sviluppo. L'eliminazione delle armi nucleari, ad esempio, renderebbe disponibili ampie risorse per l'attuazione dell'Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile.