"Così la scuola torna a De Amicis". Sergio Mattarella interviene a favore della riforma del '90: no al "maestro unico"

09.09.2008 13:46
Categoria: Comunicati Stampa

L'inserimento a sorpresa del "maestro unico" nel decreto-legge del 28 agosto è stato definito un colpo di mano: in effetti ne ha tutti i requisiti. Il comunicato ufficiale del Consiglio dei Ministri di quel giorno esclude espressamente che l'argomento sia stato inserito in quel decreto e, inoltre, non vi è alcuna urgenza dato che sarà applicato tra un anno.

Ma il vero colpo di mano, sostanziale, sta nell'aver deciso una questione di questa portata con decreto-legge, in vigore già da quattro giorni: con poche righe viene travolto l'ordinamento, il modo di essere di un intero settore scolastico fondamentale e, finora, il più efficiente.

In questo modo si è riusciti a eludere confronto, discussione e un vero esame parlamentare.

La Gelmini, inoltre, si è abbandonata a dichiarazioni perentorie: «La scelta dei tre maestri alle elementari non ha avuto nessuna motivazione educazionale e pedagogica. È stata fatta per aumentare il numero degli insegnanti».

È sorprendente che un ministro dell'istruzione si esprima in maniera così grossolana su una riforma realizzata con serietà diciotto anni addietro: occorre più rispetto verso scelte fatte da altri governi e dal parlamento se si vuole, a propria volta, essere rispettati.

La riforma del '90 fu il risultato di un lungo e approfondito dibattito; non soltanto politico e parlamentare ma anche della cultura, anzitutto tra i pedagogisti, del mondo della scuola, tra le associazioni di docenti e nel sindacato.

Avverto come un privilegio aver firmato quella riforma come Ministro della Pubblica Istruzione. Ma sarei presuntuoso se pensassi che è stata la mia riforma: è nata da questo ampio concorso di elaborazione, di cui è giusto ricordare il contributo fondamentale dell'Associazione Maestri Cattolici, allora guidata da Carlo Buzzi, quello del presidente della commissione istruzione, Francesco Casati, e l'opera di un serio servitore dello stato, il direttore generale delle elementari, Aurelio Sinisi.

La ragione della riforma del '90 non è stata, al contrario di quanto incautamente dice la Gelmini, «aumentare il numero degli insegnanti» che non è aumentato, e neppure quello di mantenerne il livello a fronte del calo demografico.

La ragione è stata la consapevolezza del grande ampliamento dell'ambito dei saperi che la scuola elementare era chiamata a impartire ai bambini verso il duemila.

Bambini che, già allora e oggi molto di più, giungono alla scuola elementare con numerosi elementi di conoscenza acquisiti dalla tv e dai mini computer; bambini chiamati ad affrontare la realtà del loro futuro con il bisogno di padroneggiare conoscenze e strumenti molto più articolati di quanto si proponeva ai bambini di decenni addietro: la scuola elementare non è più soltanto insegnare a leggere e scrivere, a far di conto, un po' di geografia e la storia patria.

Quella - sia detto con molto rispetto - è la scuola di De Amicis, che è stata di fondamentale importanza per unificare il paese, per alfabetizzarlo e per trasmettere buone norme basilari di comportamento ma non è quella di oggi. L'atteggiamento di amarcord verso il "maestro unico" con cui il ministro copre la manovra di drastico taglio di bilancio, e che trova alcuni sostenitori che tendono a pensare che il mondo sia rimasto quello della loro infanzia, ormai può essere riferito alla scuola materna ma non più a quella elementare di oggi e di domani.

L'ampiezza di contenuti che questa deve trasmettere e il loro adeguato approfondimento non possono essere affidati a un solo insegnante se non tagliando contenuti o riducendo alla superficialità il loro insegnamento.

Oggi alle elementari si insegna non soltanto italiano, storia, geografia e matematica (questa in modo ben diverso dal passato): si insegna, e si deve insegnare, anche inglese, musica, tecnologia, arte e immagine, scienze, educazione fisica; si realizzano laboratori di teatro, di cinema, di capacità di uso dei materiali.

Tutto questo, tutto, è necessario per i bambini di oggi: come si può pensare che venga svolto da un solo insegnante se non con superficiale approssimazione?

Che vi sia un insegnante prevalente, condizione prevista dalla riforma del '90 e rafforzata dal ministro Moratti, è bene ma non è possibile un "maestro unico" senza piombare in un passato estraneo alla condizione odierna.

Difatti la scelta che il governo opera è brutale: l'orario di insegnamento della scuola elementare si contrae, repentinamente, a ventiquattro ore: il tempo che la scuola italiana dedica ai bambini perde molte ore a settimana, trenta ore al mese in meno.

Le famiglie saranno in difficoltà e l'insegnamento impartito ai bambini perderà segmenti importanti di contenuto e scenderà di qualità. In aggiunta l'età degli insegnanti, senza ricambio per molti anni, dovendo riassorbire quelli in soprannumero, salirà sempre di più, e anche questo è un danno; e verrà meno il passaggio di esperienze tra chi insegna da tempo e chi inizia a insegnare oggi, per il semplice motivo che non vi sarà chi inizia a insegnare.

La vera ragione del ritorno al "maestro unico" è chiarita dalla stessa formulazione della norma del decreto-legge: il risparmio di bilancio, tagliando decine di migliaia di posti di insegnante. Intendiamoci: tagliare le spese e, se ragionevole, i pubblici dipendenti è bene ma soltanto se l'effetto è il miglioramento del servizio reso al paese. In questo caso è il contrario: il risultato è una brusca e repentina contrazione della qualità del servizio scolastico primario.

È davvero un grave passo indietro ed è un peccato contro il Paese e il suo futuro: la nostra scuola elementare è definita dagli istituti di valutazione internazionali tra le migliori al mondo.

Lo era anche prima della riforma del '90, ma il merito di questa è averne mantenuto alto il livello qualitativo nelle ben diverse condizioni di oggi rispetto alle stagioni precedenti.

Non si dica, per coprire questa brutale operazione contabile, che il bambino è più rassicurato se a scuola incontra una sola figura: bambini abituati a una vita di interrelazioni intensa come oggi avviene e che in famiglia hanno quanto meno due interlocutori nei genitori e in numero maggiore se vi sono fratelli e frequentano i nonni sono abituati a più figure di riferimento; che, tra l'altro, consentono loro maggiore libertà di relazione.

Pregiudicare con tanta frettolosa leggerezza il nostro miglior settore scolastico si inserisce in una visione più volte manifestata da questo ministro: occorre cancellare gli ultimi quaranta anni della scuola italiana.

Desta preoccupazione un ministro dell'istruzione che mostra di pensare che la storia della scuola italiana cominci oggi.

In questi decenni si è verificato un grande fenomeno di avanzamento sociale, un'autentica pacifica rivoluzione positiva: l'istruzione diffusa e generalizzata in Italia, per tutti e ovunque. Si è realizzato, cioè, uno dei principali dettati della Costituzione sotto la guida di ministri e di forze politiche la cui opera merita di essere rispettata.

All'inizio degli anni sessanta soltanto un bambino su quattro proseguiva gli studi oltre le elementari e soltanto uno su dodici andava oltre la scuola media: a partire dalla riforma del Ministro Gui si è realizzato il sistema scolastico nazionale italiano.

Le scelte di quegli anni vanno rispettate e va difesa l'attuazione del diritto allo studio.

Non vorrei che fosse questo, in realtà, il vero approdo: indebolire questo sistema che offre opportunità di istruzione a tutti per sostituirvi un sistema, in cui fatte salve alcune punte di eccellenza consegnate al mercato, si abbandoni tutto il resto, cioè la scuola per tutti, e si scarichi sugli enti locali l'onere maggiore della risposta alla domanda di istruzione, tornando in questo modo non a De Amicis ma ancor più indietro.

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N.B.: L'articolo è apparso sul numero di domenica 7.9.2008 del quotidiano "Europa".