S. Natoli - Perseveranza

17.06.2014 16:23
Categoria: LETTURE ESTIVE

I. Perseveranza, parola scomparsa

Obsolescenza e riemersione delle virtù
La parola «perseveranza» è andata fuori moda unitamente a quella di «virtù», anche se da un po' di tempo a questa parte va circolando la formula «etica delle virtù»: formula di per sé ambigua perché fa supporre vi possa essere un'etica senza virtù.
Nel corso del tempo, e specie a partire dalla tarda modernità, la parola «virtù» è divenuta progressivamente sospetta; si è poi logorata fino a perdere del tutto il suo significato originario e sparire. Di questo, responsabile – o almeno uno dei responsabili – è stato il cristianesimo o, se non proprio il cristianesimo, l'uso devoto e chiesastico che ha reso la parola alla lunga insopportabile. Ma a renderla irritante fino alla repellenza è stata quella pedagogia – connessa al lungo regime di cristianità – tesa a estirpare le passioni alla radice, e la cui pratica e «terapia» si è risolta, per dirla con Nietzsche, in una sorta di castratismo. A questo punto, mettere in liquidazione le virtù è stata partita facile – quasi fossero tabù – e la loro obsolescenza fu fatta valere come conquista di libertà. Di qui, l'apologia dell'immoralismo, il fascino sadiano della perversione. Ma gli esiti di questa messa in liquidazione non sembrano nel complesso essere tra i migliori, dal momento che cedere alle passioni non è meno dannoso che reprimerle: si tratta pur sempre di dismisura. Se le passioni non possono essere negate perché riemergono come malattia, è però necessario saper trovare la giusta misura: non contro di esse, ma in esse.
Tuttavia, se oggi si torna in qualche modo a parlare di virtù, ciò non è dovuto al diffondersi di comportamenti degradanti – la trasgressione, più o meno, vi è sempre stata – ma piuttosto al venire meno della possibilità stessa di trasgredire. Il trasgressore sa ciò che infrange, negando afferma: è, infatti, storicamente noto come i grandi ribelli siano stati fondatori di morali. Ma oggi a divenire problematico è il rapporto con se stessi e con gli altri: è venuta meno la capacità di trovare orientamento nel mondo. È questa la ragione per cui gli uomini chiedono linee d'indirizzo, magari «etiche applicate» che pur non delineando alcun orizzonte di senso regolano comunque le aspettative, rendono coerenti i reciproci comportamenti. Già a partire dall'età moderna si è passati da una morale delle virtù a una morale dell'obbligazione, tanto che gli uomini d'oggi a loro tutela richiedono legislazione, a loro protezione le garanzie di un foro esterno. Da soli non riescono a modellare le loro vite e ne è prova il fatto che innanzi a qualsiasi delitto o infrazione richiedono immediatamente una legge, quasi bastasse per evitare le deviazioni personali e sociali. Se non c'è governo di sé non c'è norma che tenga e così a fronte di un cattivo esercizio della libertà, assistiamo a una crescente giuridicizzazione della vita. Ma le regole non bastano a motivare al bene: se va bene limitano i danni. Perché vi sia una vita buona è necessaria un'autentica affezione al bene e quindi una condotta che si adoperi perché tutto ciò che esiste possa, come scrive Tommaso, realizzarsi pienamente secondo la propria misura.
Dopo che la virtù è stata così a lungo fraintesa e poi dimenticata, per tornare a capire in che cosa davvero consista bisogna prendere le mosse da molto lontano ed esattamente dal frammento 119 di Eraclito: ethos antropou daimon (il carattere per l'uomo è il suo demone; cfr. I presocratici. Testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1969, I, p. 220). Quando qui Eraclito parla di carattere non lo intende tanto in senso psicologico, quanto piuttosto etico: intende la tempra morale, ciò che noi oggi chiameremmo personalità. Avere carattere vuol dire essere fedeli a se stessi e in forza di questa coerenza divenire per sé un destino. Non a caso il termine greco per virtù è areté, dalla radice ar – da cui il latino ars –: virtù è dunque abilità a esistere e coincide con ciò che gli antichi chiamavano ars vivendi. Stando all'etimologia, virtuoso è dunque chi è capace di dare norma a se stesso e perciò non arretra innanzi agli ostacoli, sa trovare vie d'uscita in mezzo alle difficoltà e soprattutto sa mantenere ferma la propria identità nella crescente mutevolezza del mondo. Questo è più che mai necessario oggi, quando tutto cambia velocemente, e tutto è così transitorio che fissare la propria identità è divenuto quasi impossibile. Agli inizi del XIX secolo, a fronte della crescente impersonalità dei sistemi sociali, per reagire all'anonimato bastava, per dirla con Simmel, fare l'eccentrico. Oggi, l'apparire e il deperire delle mode hanno una tale accelerazione che è difficile anche questo. Anzi, il sistema della moda per non rischiare di andare «fuori moda» mette in liquidazione anticipata i suoi stessi prodotti; per evitare l'assuefazione procede anzi tempo alla sostituzione e l'invenduto viene subito messo in liquidazione. E questo non attiene solo alla produzione e al consumo, ma agli stili di vita. Tanto basta per capire perché la parola «perseveranza» è ormai da vocabolario, perché, nel parlar comune, di essa si sono perse le tracce. Le parole dell'oggi sono «innovazione», «flessibilità» e per ribadire la propria identità – e magari con un po' di presunzione – s'impiega la parola «determinazione».
Tuttavia non bisogna dimenticare che i grandi apparati organizzativi che immettono di continuo innovazione sono tutt'altro che liquidi, come oggi s'usa dire; al contrario, presiedono e programmano il mutamento e sono perciò sufficientemente stabili per farlo specie se rapportati alle vite dei singoli a cui forniscono – questa volta sì – identità labili, a cui offrono travestimenti che mentre ne esaltano illusoriamente la singolarità li rendono di fatto tra loro fungibili. Basti pensare alla cosiddetta «personalizzazione» dei consumi. Ma, alla lunga, l'impersonalità dei sistemi genera disagio, le maschere si disfano ed emerge pressante un bisogno d'essere e soprattutto di tornare a essere quel che poi, nonostante tutto, non si è mai cessato di voler essere: soggetti. Aveva ragione Eraclito, per darsi un destino bisogna possedere un carattere, per divenire quel che si è sono necessarie le virtù.

Salvatore Natoli
Perseveranza
Il Mulino, 2014, pagg. 144