P. Giordano - Il nero e l’argento

17.06.2014 17:05
Categoria: LETTURE ESTIVE

La signora A.

Il giorno del mio trentacinquesimo compleanno la signora A. ha rinunciato d'un tratto all'ostinazione che la caratterizzava ai miei occhi più di ogni altra qualità e, già composta in un letto che ormai pareva smisurato per il suo corpo, ha infine abbandonato il mondo che conosciamo.
Quella mattina ero andato all'aeroporto a prendere Nora, di ritorno da un breve viaggio di lavoro. Sebbene fossimo a dicembre inoltrato, l'inverno indugiava e le distese monotone ai lati dell'autostrada erano impallidite da uno strato sottile di nebbia, come a simulare la neve che non si decideva a cadere. Nora ha risposto al telefono, dopodiché non ha parlato molto, è rimasta soprattutto in ascolto. Ha detto ho capito, va bene, martedì allora, quindi ha aggiunto una delle frasi che l'esperienza ci fornisce per ovviare, in caso di necessità, alla scarsezza di parole adeguate: – Forse è stato meglio così.
Ho deviato alla prima area di servizio per consentirle di scendere dall'auto e camminare da sola verso un punto indefinito del parcheggio. Piangeva piano, la mano destra chiusa a conca per coprire la bocca e il naso. Fra le innumerevoli cose che ho imparato su mia moglie in dieci anni di matrimonio c'è il vizio di isolarsi nei momenti di dolore. All'improvviso diviene inaccessibile, non permette a nessuno di consolarla, mi costringe a restare lì, spettatore inutile della sua sofferenza – una ritrosia che ho scambiato talvolta con una mancanza di generosità.
Per il resto del tragitto ho tenuto un'andatura più lenta, mi sembrava una forma ragionevole di rispetto. Abbiamo parlato della signora A., evocando qualche aneddoto del passato, anche se per lo più non si trattava di veri aneddoti –  non ne avevamo su di lei –, semmai di consuetudini, consuetudini a tal punto radicate nella nostra vita famigliare da apparirci quasi leggendarie: la puntualità con cui ogni mattina ci aggiornava sull'oroscopo che aveva ascoltato alla radio mentre noi eravamo ancora addormentati; il modo che aveva di appropriarsi di certe zone della casa, specie della cucina, tanto che ci veniva da domandarle il permesso di aprire il nostro stesso frigorifero; le massime con cui poneva freno a quelle che secondo lei erano delle complicazioni inutili create da noi ragazzi; il suo passo marziale, mascolino, e poi la tirchieria incorreggibile, ricordi quella volta che ci dimenticammo di lasciarle i soldi per la spesa?, lei svuotò il barattolo delle monetine, racimolando i centesimi fino all'ultimo.
Dopo qualche minuto di silenzio, Nora ha aggiunto: – Che donna, però! La nostra Babette. Sempre presente. Anche stavolta ha aspettato che io tornassi.
Non le ho fatto notare che mi aveva appena sommariamente escluso dal quadro complessivo, né ho trovato il coraggio di confessarle ciò che stavo pensando proprio nello stesso istante: che la signora A. aveva atteso il giorno del mio compleanno per andarsene. Entrambi ci stavamo dunque fabbricando una piccola, personale consolazione. Non ci resta altro da fare davanti alla morte di qualcuno, se non inventare delle attenuanti, attribuire al defunto un ultimo gesto di premura che ha voluto riservare proprio a noi, disporre le coincidenze secondo un piano di senso. Eppure oggi, con la freddezza inevitabile della distanza, fatico a credere che sia stato davvero così. La sofferenza aveva portato la signora A. lontano da noi, da chiunque, molto prima di quella mattina di dicembre, l'aveva spinta a camminare fino a un angolo di mondo appartato –  proprio come Nora si era allontanata da me nell'area di sosta dell'autostrada –  e da laggiù lei ci voltava le spalle.

Paolo Giordano
Il nero e l’argento
Einaudi, 2014, pagg. 128